giovedì 24 luglio 2014

In piena facoltà egregio Presidente


«In piena facoltà egregio Presidente / le scrivo la presente che spero leggerà»: è l’incipit della canzone senza musica suonata “Il disertore” di Ivano Fossati che oggi prendo a prestito, anche se sicuramente non sarà letto dal teorico destinatario, perché la preoccupazione per quello che sta succedendo nel nostro Paese, anche a livello istituzionale, mi sembra aver superato il livello di guardia. Il tema è quello dell’autoritarismo che molti sentono avanzare nella nostra Repubblica.

Cominciato qualche giorno fa Renzi che, con quel suo sguardo studiatamente un po’ sbruffone, afferma: «Quando sento parlare di deriva autoritaria un sorriso si stampa sul mio volto, tanta è l’assurdità». Poi continua la ministra Maria Elena Boschi, un paio di giorni dopo, mettendo momentaneamente da parte il mellifluo sorriso stampato indelebilmente sulle sue labbra, con la frase «Qualcuno parla di svolta autoritaria: questa è un’allucinazione e come tutte le allucinazioni non può essere smentita con la forza della ragione». Frase che viene immediatamente messa in crisi, però, dal suo riferimento ad Amintore Fanfani che «diceva che in politica le bugie sono inutili». E qui non serve la forza della ragione per indignarsi davanti a questa frase: basta la forza di una memoria che evidentemente la ministra, anche per ragioni anagrafiche, non ha.

Adesso è il turno del Presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano, sicuramente irritato, fa sapere, tramite fonti istituzionali, che parlando con il presidente del Senato, Pietro Grasso, «ha insistito sul grave danno del prodursi di una paralisi decisionale su delle riforme essenziali».

Tralasciamo pure il fatto che molti non apprezzano il nuovo disegno costituzionale tracciato da Renzi, evidentemente almeno con l’avallo di Napolitano, perché vi vedono un pericolo per la democrazia italiana. Ma il pericolo comincia ad apparire già prima della riforma tanto agognata dai renziani che, partendo dall’intenzione di abolire il bicameralismo perfetto (idea ampiamente condivisa), sono passati alla voglia di abolire il bicameralismo tout court (idea ampiamente invisa).

Il compito costituzionale al quale le Camere sono deputate, è quello di discutere per sviscerare ogni problema con l’obbiettivo di arrivare a una scelta di coscienza e di evitare, per la fretta, di licenziare leggi stupide e controproducenti come le tante che negli ultimi anni sono state approvate in fretta e poi, altrettanto in fretta, sono state criticate da tutti.

Spaventa, quindi, l’idea di considerare l’ostruzionismo – strumento più che lecito di ogni opposizione in ogni Paese democratico – come un ostacolo da condannare e da eliminare. In questo atteggiamento appare evidente una consonanza di intenti con quelli espressi da Berlusconi e sonoramente osteggiati da quello che era chiamato il centrosinistra e che oggi, evidentemente, è un’altra cosa visto che su quella strada sembra avviarsi; almeno fin quando sono gli altri a fare opposizione.

Per chi non lo ricordasse, Berlusconi aveva proposto di eliminare tutte quelle noiose sedute in aula e di far riunire i capigruppo, ognuno con il pacchetto di voti a disposizione – e, quindi senza libertà di coscienza per i sigoli deputati o senatori, oltre che con una evidente trasgressione all’articolo 67 della Costituzione che parla della libertà di mandato – in modo da snellire le operazioni in nome della “governabilità”. Il logico passo successivo sarebbe stato quello di far coincidere con il presidente del Consiglio i voti della maggioranza che lo aveva votato e, quindi, quello di far eliminare, perché superflua, anche la noiosa riunione con i capigruppo per dare via libera senza intralci a ogni idea governativa.

L’errore non è quello di andare avanti a oltranza per far approvare leggi importanti, ma l’oltranza dovrebbe riguardare anche e soprattutto la discussione – e quindi la mediazione per la ricerca di soluzioni condivise a maggioranza reale – e non soltanto il voto. E credo che sarebbe più giusto dedicare questo sforzo alla ricerca di leggi che riescano a creare lavoro, a mettere in ordine i conto dello Stato, a ridurre, se non cancellare, le sempre crescenti disparità sociali esistenti nel nostro Paese, a ribadire che l’Italia non soltanto ripudia la guerra, ma non accetta neppure di restarsene inerte e praticamente silenziosa, mentre in Israele, Palestina, Ucraina, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e molte altre nazioni, le uccisioni e gli attentati sono diventati una tragica e sempre più sottaciuta realtà quotidiana.

martedì 22 luglio 2014

Lezione di civiltà

Devo confessare che mi lascia non poco perplesso la totale assenza di commenti scritti - non di quelli fatti a voce - da parte degli esponenti del PD alle proposte-richieste fatte da noi “non allineati” per tentar di capire se davvero il Pd ha intenzione di fungere da catalizzatore per tutto il centrosinistra, oppure se anche questa volta tutto si risolverà in un riallineamento di equilibri interni. Perplesso e anche abbastanza sfiduciato.
Anche per questo, in un periodo così buio, la riaffermazione di un normale livello di umanità diventa una lezione di civiltà di cui essere più che contenti, a cui aggrapparsi nella speranza che davvero si possa ripartire quando sarà finito questo orribile incubo popolato da Berlusconi e dai suoi sodali. A proposito: Brunetta, emettendo i suoi sproloqui sulla magistratura, o non si è informato, o non ha capito, o è in malafede; ma in ogni caso la domanda rimane sempre: come può uno così essere diventato ministro?
Ma torniamo alla lezione di civiltà che è stata data da uno di quei posti che viene sempre guardato con qualche diffidenza: il consiglio comunale di Udine. Questa volta è stato in grado di ricacciare il razzismo leghista e quello altrettanto becero di un paio di residui del Pdl, approvando la sacrosanta apertura di un cimitero riservato agli islamici e, quindi, ai riti e alle sepolture chieste da quella religione. E questa volta alla mozione del centrosinistra si sono aggiunti alcuni forzisti e i finiani capaci di sentire ancora umanità.
È un momento che fa sperare che forse, alla fine dell’incubo berlusconiano una vera destra e una vera sinistra, ricche di valori e non soprattutto attente a sorridere a coloro che pensano possano portare voti, potranno tornare a confrontarsi anche aspramente, ma con la convinzione che comunque gli avversari, pur con idee spesso non condivisibili, pensino al bene di un Paese e non di se stessi.

Le lezioni da accettare

Una delle frasi più stupide e più utilizzate nella politica di oggi è: «Non accettiamo da nessuno lezioni di...». Frase di per sé inconcepibile e totalmente sbagliata in quanto nessuno tranne il Papa – e soltanto nel caso stia parlando di un dogma – può dire di se stesso che è infallibile. E, quindi, tutti, ma proprio tutti, abbiamo bisogno di lezioni da qualcun altro.
Ma tra le tantissime frasi di questo tipo che ho sentito pronunciare da politici di tutti gli schieramenti in questi anni, due mi appaiono indimenticabili.
La prima è quella di Roberto Maroni che, con sommo disprezzo del ridicolo, commentando le critiche della gran parte del mondo per i respingimenti in mare di poveri disgraziati verso la Libia senza controllare neppure se avevano i requisiti per chiedere un obbligatorio asilo politico, diceva che nessuno può dare alla Lega lezioni di solidarietà.
La seconda è quella di questi giorni da parte di molti esponenti di centrodestra che sostengono che nessuno può dare né a loro, né al loro datore di lavoro lezioni di dignità. Pensando alle cose che fa Berlusconi (le serate in villa, ma ancor più – molto di più – le telefonate alle questure) e a come i suoi riescano a dire le cose che dicono in sua difesa senza arrossire di vergogna, la cosa appare talmente strampalata che ti viene il dubbio che stiano usando un vocabolario diverso dal nostro. E forse è proprio così.
Ma tra tutti quella che ci colpisce di più è il ministro Stefania Prestigiacomo che, a chi le chiede se non pensa che nelle serate berlusconiane si stia calpestando la dignità delle donne, risponde: «Mi riconosco nei valori del centrodestra». Spero davvero che questi valori non siano del centrodestra, ma soltanto di poche persone che millantano di rappresentarlo.

I voti più che i seggi

Festeggiare la Repubblica, mentre a qualcuno piacerebbe trasformarla in una specie di regno neppure molto democratico, mi sembra un dovere assoluto. Ma il festeggiamento deve avere un significato che vada oltre la consueta ufficialità. Io scelgo di farlo con la testimonianza di quello che sento e con l’espressione di un sogno.
Comincio, quindi, dicendo che anch’io come tanti altri, mi sento profondamente offeso quando sento Berlusconi dire: «Gli italiani sono con me». Io non sono assolutamente con lui; anzi, sono decisamente contro di lui. Non lo voterei nemmeno sotto costrizione.
Perché continua a dire che stiamo uscendo dalla crisi, mentre la gente continua a sprofondare nella disoccupazione, nella povertà, nella disperazione; perché cinicamente promette crociere ai terremotati mentre quelli chiedono ricoveri migliori delle tende; perché, con l’aiuto di leggi fatte a suo uso e consumo, rifiuta di farsi processare per fatti per cui sono già stati condannati personaggi non difesi dal lodo Alfano; perché rende ridicola l’Italia in ogni Paese del mondo; perché per mantenere il proprio potere si piega senza fatica alle richieste razziste e xenofobe della Lega; perché con i suoi comportamenti è di pessimo esempio a tutti gli italiani; perché ritiene di essere non soltanto al di sopra della legge, ma anche al di sopra della verità pretendendo che la sue parole, pur contraddittorie tra loro stesse, siano accettate come incontrovertibili; perché... potrei andare avanti a lungo, ma sarebbe superfluo,
Con buona pace sua, sono tanti gli italiani che non sono con lui e il mio sogno sarebbe quello che la dimostrazione di questo assunto uscisse dalle urne. Non voglio entrare assolutamente in suggerimenti su quale votare tra i partiti di opposizione (ho una mia idea, ma ritengo giusto non palesarla proprio per non suggerire rivalità), ma vorrei che tutti andassero a votare: per chi desiderano, ma in massa.
È stato Berlusconi a tentar di fare di questa elezione un plebiscito: un po’ perché sa che comunque il numero dei seggi conquistati – anche per il meccanismo degli sbarramenti – lo vedrà in testa, un po’ perché confida che se il risultato dovesse essere per lui molto favorevole lo sfrutterebbe a fini interni, mentre se non dovesse essere particolarmente soddisfacente tornerebbe alla sua vecchia idea che le elezioni europee hanno scarso valore.
Ma se plebiscito sulla sua persona deve essere, allora non sui seggi si deve ragionare, ma sui voti. Sui voti conquistati da tutta l’opposizione da una parte e dal Pdl dall’altra. Per questo tutti devono andare a votare per dirgli basta. Sogno che per un paio di giorni il centrosinistra e la sinistra riescano a dimenticare le loro divisioni davanti a una necessità assoluta.
Poi farà finta di non aver sentito, ma gli altri – anche i cosiddetti suoi – sentiranno eccome.

Essere contro in certi casi è un valore

La soddisfazione per la sconfitta personale di Silvio Berlusconi ovviamente non può cancellare e neppure mettere in secondo piano l’amarezza per la vittoria del berlusconismo e ancor più per quella del leghismo. Berlusconi ha voluto trasformare in plebiscito sulla sua persona le consultazioni europee e le preferenze non lo hanno certamente premiato, ma il centrodestra nella sua globalità ha ampiamente tenuto a livello politico e ha decisamente vinto a livello amministrativo dando sempre più spazio alla sua ala oltranzista, razzista, xenofoba e aliofoba.
Il perché di questa vittoria va ricercato soprattutto- e non soltanto secondo me, ma anche per organismi al di sopra delle parti come il Censis – nella propaganda televisiva che è molto più efficace di tutte le altre e che è largamente in mano a un personaggio contro il cui conflitto di interessi il centrosinistra ha scelto di non fare nulla quando poteva fare qualcosa. Una propaganda fatta di soliloqui nei quali si sono potute dire le bugie più clamorose (gli immaginari ammortizzatori sociali per i precari, tanto per fare un solo esempio) senza che alcuna voce giornalistica obbiettasse mai qualcosa.
Parlare di programmi buoni dei vincenti e scarsi dei perdenti non ha alcun senso perché di quelli dei secondi, regolarmente bocciati alle Camere, non si è parlato quasi mai.
E poi un’annotazione in difesa delle tesi di Caterina Zanella, anche se non ne avrebbero certamente bisogno: Berlusconi, anche con il suo 35%, non rappresenta tutti gli italiani perché molti italiani – e io tra loro – non soltanto non lo votano, ma non accettano l’idea che la propria persona sia rappresentata nel mondo da un simile personaggio. Venticinque anni fa un berlingueriano accettava tranquillamente di farsi rappresentare da Moro, anche se non lo votava, perché almeno lo rispettava. Oggi non è più così.
E inoltre è anche vero che Berlusconi controlla davvero quasi tutto a livello di informazione e di economia, ma non è ancora riuscito a raggiungere quell’agognato 51% e quindi deve piegarsi continuamente ai ricatti della Lega: l’ultimo esempio clamoroso è quello del referendum sulla legge elettorale.
Ma più che parlare dei vincenti, a me sta a cuore parlare degli sconfitti cominciando col dire che fortunatamente la teoria autoisolazionista, la «vocazione maggioritaria» di Veltroni è andata definitivamente in soffitta e che bisognerà cominciare a lavorare seriamente per un’unione delle forze di opposizione che dal centro vanno a sinistra. Difficile? Difficilissimo, ma obbligatorio.
E per farlo c’è un’unica strada: quella di trovare alcuni punti qualificanti e vincolanti dai quali non si può deflettere (suggerisco: rivalutazione del lavoro, salvaguardia dei più deboli, laicità che non vuol dire anticlericalismo, alcune riforme istituzionali condivise), andare avanti demandando all’interno di questa confederazione ogni discussione sugli altri argomenti prima di far uscire le risultanze e, soprattutto, finendola di pensare soltanto al proprio orticello e alle proprie individualità.
Perché il collante c’è già. E si chiama, anche se a qualcuno può non piacere, antiberlusconismo. Non inteso ovviamente contro la persona di Berlusconi che, come tutti gli esseri umani non è eterno, ma contro il suo modo di vedere e praticare la politica, una specie di cancro che ha attaccato e corrotto una società come quella italiana che aveva sempre enormi difetti ma che era ancora in maggioranza solidale, capace di individuare valori assoluti e di non dimenticare che da quella che era l’Italia era soltanto cinquant’anni fa si è arrivati alla situazione antecrisi grazie al lavoro, alla solidarietà e all’accoglienza e non certamente agli spot e alle bugie.
Ripeto: per me l’antiberlusconismo è un valore, come per me è ancora un valore l’antifascismo. Sono due modi di vedere la vita che ripudio decisamente. Mentre per il riavvicinamento delle parti del centrosinistra e della sinistra sarei ben disposto a fare qualcosa senza avere – sia chiaro fin da subito – nessuna mira al di là del raggiungimento della soddisfazione personale.
Una rassicurazione al signor Romanese: ogni tanto non riesco a scrivere velocemente sul blog soltanto perché ritengo giusto dare la precedenza al mio lavoro primario, quello per il Messaggero Veneto.

Il partito che sogno

Ogni tanto si diventa preda di momenti di scoramento assoluto, momenti in cui si perde quasi ogni speranza che questo mondo possa cambiare in meglio. Ma poi, fortunatamente l’indignazione è tale che si emerge dalla palude di rassegnazione in cui si rischia di sprofondare. È quello che mi è successo anche ascoltando la notizia arrivata da Trento dove il tribunale dei minori ha tolto a una giovane madre il suo bambino nato da circa due mesi, le ha tolto la patria potestà e ha dichiarato il piccolo adottabile da un’altra famiglia.
Il motivo? La madre non è in galera, non è drogata, non è un’ubriacona, non è mentalmente handicappata, non è una delinquente, non è neppure socialmente pericolosa. Il suo grave difetto è quello di non essere sposata e di non essere ricca. E, pur non essendo ricca, di aver voluto portare comunque a termine una gravidanza che desiderava con tutto il cuore. La motivazione con cui il bambino le è stato tolto è che con il suo stipendio di 500 euro al mese non può assicurare al bambino una vita decorosa.
Non si parla di affetto, di amore, di rapporto tra genitore e figlio. Si parla soltanto di soldi e del teorico benessere che da questi soldi deriva.
I nostri nonni erano poverissimi, eppure avevano figli che spesso non riuscivano a contare sulle dita di due mani. E nessuno si sognava di toglierglieli e loro stessi li consideravano una benedizione.
Un Paese nel quale una legge preveda che un povero non possa più avere figli, o che, quantomeno abbia una legge che consenta a un giudice di interpretarla così, è un Paese che non ha futuro, a meno che non cambi in maniera davvero totale. In un Paese così non basta voler mandare a casa definitivamente Berlusconi: bisogna pensare davvero a una, se pur graduale, completa rifondazione su basi di moralità e socialità profondamente diverse.
E in tutto questo assordanti sono i silenzi della Chiesa e della politica. Io sono convinto che un partito veramente democratico dovrebbe lottare perché lo Stato non punisca chi è povero, ma lo aiuti a mantenere i propri figli, dovrebbe fare di questa lotta una propria bandiera, la propria bandiera principale perché non torni a essere il censo a concedere i diritti soltanto ad alcune persone.
Per un partito così sarei anche disposto, per la prima volta in vita mia, a sottoscrivere una tessera. Mi sentirei onorato a lottare per i suoi ideali e non soltanto per quelli miei e di alcuni - fortunatamente non pochi - amici. Attendo con ansia di vederlo salire su queste barricate di uguaglianza e di umanità.

Razzismo e disprezzo

A me piacerebbe davvero che qualcuno, a livello istituzionale, rispondesse in maniera chiara a una semplice domanda: perché gli esponenti della Lega Nord possono infischiarsene tranquillamente della legge fondamentale della nostra Repubblica, la Costituzione, e non subire alcuna conseguenza?
Se un privato cittadino facesse le medesime cose senza indossare camicie, cravatte, coccarde o fazzoletti verdi, subirebbe giustamente delle conseguenze sia sul piano penale, sia dal punto di vista del disprezzo generale nei suoi confronti. Perché il razzismo è condannato dalla legge, ma anche dalla pubblica morale.
E che la Lega sia razzista non è soltanto il caso di ripeterlo. È giunto il momento di urlarlo, di scriverlo, di non permettere che alcuni possano far finta di non accorgersene. Anche se Maroni nega spudoratamente che il suo sia razzismo, anche se alcuni del centrodestra hanno l’improntitudine di accusare Franceschini e altri di seminare odio perché dicono giustamente che l’Italia sta tornando verso le leggi razziali.
Nell’articolo 3 della Costituzione è scritto che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» e Matteo Salvini, parlamentare leghista e capogruppo del Carroccio nel consiglio comunale di Milano, parlando della metropolitana, dice: «Prima c’erano i posti riservati agli invalidi, agli anziani, alle donne incinte: adesso si può pensare a posti, o a vagoni, riservati ai milanesi».  Come pretendevano i bianchi nell’Alabama prima degli anni Sessanta.
Nell’articolo 10 della Carta fondamentale si legge: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge». E il ministro Roberto Maroni, leghista, rifiuta di soccorrere i barconi carichi di disperati, li fa respingere in Libia senza neppure accertare se i 227 migranti avevano il diritto di chiedere asilo. L’Onu protesta violentemente nei confronti dell’Italia, ma lui fa spallucce e parla di «trionfo»: la xenofobia sua e di coloro che lo hanno votato è pienamente soddisfatta.
I leghisti esultano; una parte dei loro alleati è seriamente imbarazzata, ma evita di superare certi livelli di protesta perché non hanno la minima intenzione mettere a rischio una maggioranza che, nonostante i numeri, deve ricorrere alla fiducia palese per non rischiare di essere sconfitta in certe votazioni parlamentari. E la minoranza, dal canto suo, proprio perché la maggioranza si blinda quando teme di vacillare, può fare ben poco in Parlamento.
Allora bisogna rassegnarsi a vivere in un Paese sempre più razzista, limitandosi a fare battutine sdegnose su come si potrà distinguere un milanese dagli altri, o a sperare fantasiosamente che l’Onu possa avere maggiori strumenti di pressione? Io credo di no. Sono convinto che con la testimonianza e con l’impegno personale si possa far qualcosa, magari dimostrando esplicitamente il disprezzo che si prova – se lo si prova – nei confronti di coloro che si comportano in maniera razzista, xenofoba, aliofoba. Esattamente come faremmo nei confronti di tutti i razzismi che ormai la storia ha battezzato definitivamente come tali.
Personalmente mi impegno a non partecipare più – se non per obblighi cronistici – ad alcuna manifestazione in cui sia presente un leghista e a spiegare esplicitamente i motivi della mia assenza.
Io non posseggo certezze assolute e non so dire se questa mia decisione sia perfettamente in linea con le regole democratiche che impongono di ascoltare tutti (ma credo che il pensiero leghista sia già sufficientemente chiaro, e da molto tempo) e non so neppure se questa mia scelta – ammesso che fosse praticata anche da tanti altri – potrebbe essere utile nel far allontanare la gente da quel partito, o, se per reazione, potrebbe addirittura rinsaldarlo. So soltanto che è giusto nei confronti della mia coscienza.
La colpa che mi faccio è quella di averlo detto in forte ritardo.

PD 2 - Libertà è partecipazione

«Libertà è partecipazione», cantava Giorgio Gaber in una delle sue tante illuminazioni in musica. E, a maggior ragione, anche democrazia deve essere partecipazione. Quindi per il Partito Democratico la parola “partecipazione” dovrebbe essere al centro di tutta la sua attività. Esattamente come è totalmente al di fuori della filosofia berlusconiana che vuole impedire di partecipare al divenire della res publica anche a coloro che devono farlo per professione, come i giornalisti. Oltre che ai commissari e ai portavoce dell’Unione Europea.
Ma allora andiamo a vedere cosa significa questa benedetta parola, vista con sospetto da alcuni e con grande aspettativa da altri, che, come moltissime altre parole è stata dapprima usata impropriamente e poi travisata e violentata fino a farle perdere il significato originale. In politica, per esempio, il significato di partecipazione si è smagrito tanto da essere identificato esclusivamente con l’azione del voto. Di più, no: diventa fastidiosa ingerenza. A dire il vero sono pochi i politici a definire così la voglia di parziale partecipazione dei non iscritti alla vita dei partiti, ma sembrano essere ancora di meno coloro che non lo pensano.
Un esempio evidente di ciò è stato quello dei movimenti: corteggiati e portati in palma di mano fino a quando sono stati utili a fini elettorali e poi velocemente messi in un angolo, se non addirittura criminalizzati. E questa potrebbe essere stata una delle cause della disaffezione di tanta gente che ha partecipato con entusiasmo a quella stagione di protesta e poi un po’ alla volta si è allontanata anche dal voto.
Ovviamente nessuno intende mettere in dubbio la validità della democrazia rappresentativa, ma il problema consiste nel fatto che la delega è data agli eletti, non a coloro che scelgono quali saranno i programmi e chi si candiderà. O più chiaramente: tutti possono partecipare alle elezioni, ma alle riunioni preparatorie possono prendere parte soltanto coloro che hanno ricevuto deleghe dagli iscritti ai partiti. Quindi, per ovviare a questa naturale esclusione serve una democrazia partecipativa almeno nella prima fase della democrazia rappresentativa.
Sarà fastidioso, ma se il Pd vuole davvero radicarsi tra la gente, non potrà sottrarsi a questa incombenza, aprendosi un po’ anche ai non iscritti perché non occorre necessariamente partecipare alla decisione; ma alla discussione, alla costruzione di un programma, sì. Perché nel momento in cui discuti, nel momento in cui dimostri che le tue idee hanno valore, partecipi già alla decisione finale. Sempre ammesso che dall’altra parte ci sia la disponibilità ad accettare le ragioni altrui, perché altrimenti la mancanza di partecipazione è contemporaneamente sintomo e conseguenza della paura delle idee altrui. Cosa impossibile nella sinistra propriamente detta perché, come scrive Krippendorff ne L’arte di non essere governati, «il principio di insoddisfazione costituisce la vera e propria fonte di energia della sinistra».
Ci sono le primarie, dicono, ma anche sulle primarie occorre fare un minimo di riflessione.

lunedì 21 luglio 2014

L’ indifferenza e l’impotenza

Scrive giustamente Vittorio Zucconi che «c’è un fatto nuovo nel conflitto antico fra Israele e Hamas: l’indifferenza del resto del mondo e l’ammissione esplicita di impotenza». E poi prosegue in una lucida analisi della disperata situazione internazionale.


Questo accostamento tra indifferenza e impotenza merita, però, un approfondimento perché, in realtà, dovrebbero essere termini contrapposti e non conseguenti. L’impotenza, infatti, è un sentimento di rabbia e di frustrazione per qualcosa che si vorrebbe, per la quale ci si impegna, ma che non si riesce a fare. L’indifferenza, al contrario, è la beatificazione dell’accidia, della volontà di non muoversi al di là del necessario, della totale insensibilità – e, quindi, inumanità – nei confronti degli altri. Moravia, del resto, non a caso ha intitolato il suo probabilmente miglior romanzo “Gli indifferenti” e non “Gli impotenti”, perché fosse evidente il disprezzo e la condanna per quella borghesia italiana che negli anni Venti ha permesso, con la sua ignavia, che i fascisti – allora scalmanata, ma esigua minoranza – potessero prendere il potere e poi dominare e guastare l’Italia per un ventennio.

È importantissimo, quindi, capire se noi stessi siamo impotenti, oppure indifferenti. Nel primo caso potremmo fare moltissimo visto che la storia è zeppa di esempi di teorici “impotenti” che sono stati capaci – individualmente, o in gruppo – di rovesciare situazioni apparentemente senza via d’uscita e di imporre nuove strade a vite individuali, a collettività, o, addirittura, in rari casi, al mondo. Nel secondo caso possiamo smetterla di sperare, ma anche di lamentarci perché i primi colpevoli sono proprio quelli che pensano di potersene fregare degli altri e che la fatica di rimettere le cose a posto debba toccare sempre agli altri.

E questo riguarda sia i cosiddetti potenti, sia qualsiasi essere umano perché la differenza vale sia per il mondo, sia per le piccine cose di casa nostra.

domenica 20 luglio 2014

Non solo il re è nudo

La cosa che più colpisce nella sentenza di assoluzione di Berlusconi per quanto riguarda la vicenda Ruby – a prescindere dal fatto che, se si hanno i soldi per pagare ottimi avvocati, la forma spesso prevale sulla sostanza e che le leggi ad personam, come quella nuova sulla concussione che porta il nome della Severino, continuano a colpire – è l’atteggiamento di Renzi e di buona parte dei suoi davanti alla notizia. Tutti si sono affannati a ripetere più volte, senza riuscire a celare decentemente la soddisfazione, che «l’importante è che le riforme vadano avanti». Che, combinato, con la dichiarazione di Berlusconi - «È la prova che con la linea soft io mi salvo» - lascia affiorare un bel po’ di brutti pensieri sulla possibile applicazione di quella che una volta era chiamata “ragion di Stato”.
In questo la figura di Renzi davanti all’Italia mi appare sempre di più come quella di un chirurgo plastico che decanta le virtù di un seno rifatto a una signora che sta lottando contro una malattia gravissima. Perché modificare il Senato in questa maniera può gettare fumo negli occhi di chi si riempie la bocca con la parola “riforme”, ma in realtà, distruggendo parte dell’edificio costituzionale costruito con fatica sulla Resistenza ai fascismi, aggrava i già pesanti problemi di democraticità del nostro Paese e non va neppure lontanamente a sfiorare i problemi veri che sono quelli del lavoro, della giustizia, della pace, del diritto a una vita dignitosa; tutti aspetti che da più di un ventennio hanno visto scavare fossati sempre più profondi tra coloro che questi diritti li hanno e quelli che, invece, devono limitarsi a desiderarli.
Maurizio Menegazzi ieri mi ricordava la favola del re nudo e annotavamo che neppure le vecchie favole funzionano più in questa nostra Italia nella quale il re è ancora nudo, ma lo sa benissimo e non solo non gliene importa, ma addirittura diventa egli stesso uno dei falsi tessitori, mentre il popolo in parte rifiuta di accettare ciò che vede, in parte non gli interessa minimamente, in parte è tentato di denudarsi anche lui per cercar di creare una sorta di imitazione e di legame con il potere.
Chi invece sente la voce dell’innocenza del bambino che descrive la realtà com'è e resta fuori dalle altre categorie di silenti, o acclamanti, non può che meditare tristemente sulle attualo realtà politiche e sociali di questa povera Italia, chiedendosi: “Per chi diavolo potrò votare, senza vergognarmene troppo, la prossima volta?”.

venerdì 18 luglio 2014

Le vere precedenze

Ci sarebbe, come sempre, molto da dire sulla politica italiana: su Matteo Renzi che, in caso di disaccordo con chi gli sta di fronte, sembra sempre più duro con i suoi teorici amici e sempre più morbido con i suoi teorici nemici; o su Matteo Orfini che, sul discorso delle preferenze, più che a un giovane turco sembra assomigliare sempre di più a un vecchio democristiano; o su Silvio Berlusconi che, in linea con la sua qualità democratica, minaccia di espulsione dal partito chi non vota come dice lui; o, ancora, su Beppe Grillo che dimostra quotidianamente come la parola “casta” abbia un significato diverso se viene agganciata ad azioni sue o di altri. E si potrebbe andare avanti a lungo.
Ma come si fa a parlare di queste cose, mentre nel mondo si consumano ecatombe in serie, mentre i morti legati a guerre più o meno dichiarate, più o meno considerata tali, sono centinaia ogni giorno. Ieri probabilmente qualche coscienza in più sarà stata messa in crisi dall’uccisione dei 298 ignari passeggeri di un volo che li stava portando in vacanza in Oriente passando sopra l’Ucraina; ed è un fatto di enorme importanza che i voli sull’Ucraina fossero stati fortemente sconsigliati, ma che le linee aeree malesi avessero deciso di seguire la rotta consueta perché più breve e, quindi, meno dispendiosa.
E intanto è difficile contare non soltanto i morti totali causati dall’offensiva israeliana nella striscia di Gaza, ma anche i bambini, tra cui un neonato, che sono rimasti uccisi dai proiettili israeliani. E, per favore, che Peres e Natanyhau la finiscano di chiedere ipocritamente scusa: appaiono ancora più bestiali e inumani. E non cessano i combattimenti in Afghanistan, Siria, Iraq, Libia, Sudan, Mali, Filippine, Birmania, Indonesia e il tanti altri Stati. E non finiscono neppure i lutti per i tantissimi che scompaiono nelle acque del Mediterraneo nelle disperate fughe dalle guerra, dalle malattie, dalla fame, dalle schiavitù.
È possibile che nessuno ricordi più che giustamente è stato detto che, o scompare la guerra, o scompare il genere umano? È possibile che ci interessino soltanto i morti di casa nostra, a meno che non siano tanti e nello stesso momento? È possibile che neppure la vicinanza di un conflitto sanguinoso, belluino e vicinissimo come quello della ex Jugoslavia ci abbia insegnato niente?
Ma davvero siamo convinti che risolveremo i problemi di questo mondo e, quindi anche i nostri, parlando soprattutto di economia, di finanza e di esclusioni e relegando i discorsi sulla pace, soltanto al tempo che resta libero, tra un summit economico e l’altro, tra un discorso sullo sviluppo e uno sull’osservanza del bilancio?

mercoledì 16 luglio 2014

Peccato di omissione

La notizia più importante della giornata, anche se sicuramente non aprirà molte prime pagine, arriva dall’Aja dove il Tribunale Internazionale che lì ha sede ha condannato l’Olanda come civilmente responsabile delll’eccidio di Srebrenica, perché i caschi blu olandesi avrebbero dovuto proteggere i circa 300 uomini, bosniaci di fede musulmana, che si erano rifugiati nella loro base mentre i serbo-bosniaci di Mladic da ore procedevano al massacro, mentre li fecero uscire dalla loro base consegnandoli praticamente ai loro carnefici.
Mentre noi ci trastulliamo con i proclami di Renzi e con le continue sottrazioni di democrazia nei confronti del popolo, nel resto del mondo accadono cose importantissime di cui facciamo fina di non accorgerci, probabilmente perché sono troppo scomode: di un attentato con tante decine ndi morti a Kabul non vediamo neppure una riga sui giornali italiani perché in Afghanistan morire è la norma, come è la norma in Palestina (per qualche giorno qualcosa si saprà perché si è appena roipreso a combattere), ma anche il Iraq, Siria, Libia, Sudan, Somalia e in tanti Paesi di cui non si fa più cenno forse perché potrebbero distrarre dall’indomito tentativo di far rialzare il Pil.

Ma sulla sentenza su Srebrenica non è possibile far finta di niente perché ci dice che tutti siamo responsabili di quello che accade, che non possiamo far finta di niente, che non è più lecito a nessuno dire «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini», che è disonesto sperare di far credere che riparare i guasti di questa società è sempre compito di qualcun altro.

E questo vale per tutti. Quando nella preghiera cristiana del Confiteor si dice «…perché ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni», l’ordine delle parole non è stato messo lì a casaccio, ma chi lo ha scritto ha realizzato scientemente un ordine crescente di gravità. L’omissione, il restare inerti, il far finta di non vedere, infatti, è la colpa più grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma deliberato, perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della pigrizia sul dovere. Perché si possono permettere futuri danni incommensurabili per piccini desideri di tranquillità.

Può sembrare blasfemo il paragone, ma anche nelle piccine cose della politica italiana l’omissione è peccato gravissimo: stare lì a guardare fare scempio della nostra democrazia è stato e continua a essere un peccato gravissimo che toglie dignità a noi e al nostro Paese.
Otto anni fa sono stato chiamato a Pordenone per presentare il film “Souvenir Srebrenica” di Roberta Biagiarelli. Se a qualcuno può interessare, il testo lo si trova all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/2014/07/souvenir-srebrenica.html

Souvenir Srebrenica


Da un'introduzione tenuta il 15 settembre 2006 nell'ex Chiesa di San Francesco di Pordenone, alla presenza della regista Roberta Bigiarelli


Io, qui, a undici anni di distanza da quell’orrendo mattatoio, non voglio parlarvi del massacro di Srebrenica. Di quello sapete sicuramente già molto e altre cose le apprenderete da Souvenir Srebrenica, il film di Luca Rosini e di Roberta Bigiarelli che vedrete tra un po’. In questa mia chiacchierata preferisco soffermarmi su come quel massacro ha influito – se ha influito – sulla nostra coscienza. Preferisco fare così anche perché di questo nome strano e inquietante – Srebrenica – crediamo di sapere tutto mentre in realtà non sappiamo niente, o, forse, pensiamo di non sapere niente e invece sappiamo già quasi tutto.
La quantificazione dei morti e dei cosiddetti scomparsi oscilla tra 7.800 e oltre 10 mila, ma, oltre una certa cifra, ci importa davvero di sapere esattamente quante sono le vittime? Conoscere un numero sicuro e preciso darebbe un diverso peso alla strage, al genocidio?
Non possediamo un’idea certa della causa occasionale che ha portato le truppe serbe ad attaccare con ferocia un enclave protetto. Ma non mi interessa neppure citare le ipotesi che sono state fatte perché nessuna causa – occasionale o meno – può giustificare neppure un omicidio; figuriamoci una strage, un genocidio.
Non conosciamo esattamente le cause del perché – oltre che per il timore per la propria vita – i caschi blu olandesi – teorica forza di interposizione – non abbiano nemmeno tentato di fermare gli aggressori; perché si siano lasciati mettere in disparte, mentre la responsabilità – pur pesantissima – era loro; né perché gli aerei non siano intervenuti finché non è stato troppo tardi. Ma sappiamo benissimo che l’Onu, dopo quella volta, ha perduto ogni residuo di credibilità perché è stata dimostrata la sua impotenza derivata dal fatto che è soltanto un’arena di scontri tra potenti con i loro muscolari diritti di veto.
Non sappiamo – a parte che per una dozzina di comandanti in primo piano – quanti e quali siano stati i responsabili della strage, ma sappiamo che nella quasi totalità sono ancora liberi e che molto probabilmente resteranno liberi per sempre perché, come accadde non soltanto in Sud America per i nazisti, nella loro latitanza sono celati e difesi da governi e popolazioni che evidentemente condividono le loro idee malate.
Non ci rendiamo conto di come vivranno il resto della loro esistenza i superstiti di quel genocidio, delle altre stragi balcaniche, dei campi di concentramento e di sterminio dell’ex Jugoslavia, ma siamo perfettamente consci che le loro ferite interiori andranno in eredità ai loro discendenti alimentando una spirale di odio che nessuno si sogna ancora davvero di spezzare. Lord Byron ha scritto: «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore».
Non abbiamo idea del perché tutt’a un tratto la religione, l’etnia, la razza, siano diventate tanto importanti per molte persone che negli anni prima della strage di Srebrenica sembravano cittadini tranquilli e integerrimi, ma sappiamo perfettamente che per anni la propaganda aliofoba è andata avanti senza che nessuno si opponesse e che ha perfettamente ragione Italo Svelo quando, nella Coscienza di Zeno, scrive: «Si arriva all’omicidio per odio, o per amore; alla propaganda dell’assassinio solo per malvagità». E questo dovrebbe far pensare molto anche noi, far pensare a questa nostra Italia dove sono legali e sono stati addirittura al governo partiti che hanno l’anticostituzionalità – non l’incostituzionalità, attenzione, ma l’anticostituzionalità – nel loro genoma. Dovrebbe farci domandare che Paese è quello in cui, riferendosi alla strage di Nassiriya, all’attentato contro la caserma italiana, si è continuato a parlare sempre e soltanto di 19 morti – gli italiani – e non di 30 – le vittime in totale – tra cui alcuni erano bambini? Forse che anche da noi i non italiani non hanno la stessa dignità degli italiani doc? E che Paese è quello che ha accuratamente cercato di dimenticare – e soprattutto di far dimenticare – che durante la Seconda guerra mondiale anche in Italia quelle che erano considerate persone di qualità inferiore, erano imprigionate in campi di concentramento come quelli – tanto per fermarsi alla nostra regione – di Gonars e di Varmo, dove i morti furono centinaia per fame, freddo, malattie; anche per violenze?
Per tornare a Srebrenica cominciamo con un verbo che è stato molto usato dai collegi di difesa al tribunale internazionale dell’Aia, ma la cui etimologia è un insulto all’intelligenza: il verbo è “giustiziare” che sbandiera in sé il concetto di giustizia, ma che, proprio perché pone fine a una vita, dalla giustizia nettamente si separa anche quando la condanna a morte è imposta da un tribunale regolare. E il cui contrasto diventa ancor più stridente se questo verbo è usato per non adoperare quello più vero: “assassinare”. È successo ad Auschwitz, è successo a Srebrenica. Hanno tentato di farla passare per giustizia, sia pur sommaria, ma giustizia non è, perché si basa su metodi sbrigativi, dimentichi di ogni diritto, fuori da qualsiasi procedura di legge. Quindi, se è vero, come disse François Mauriac, che nulla «v’è di più orrendo al mondo che la giustizia separata dalla carità», questo è ancora peggio perché siamo di fronte a una giustizia separata anche dalla stessa giustizia.
In questi e altri casi non si sono emessi giudizi su avvenimenti, non si è parlato di colpe individuali. Ci si è limitati a individuare la cosiddetta razza, o l’etnia, o la religione, o il gusto sessuale, o la salute mentale, o la deformità fisica. E in base a quello, soltanto a quello, si è decisa la condanna con un semplice gesto della mano, con una generalizzazione che, evitando di far conoscere, ragionare, scegliere, è il vero razzismo in quanto finisce per togliere agli “altri” il volto e la vita reale, riducendoli ad astrazioni, e finendo per ammassare tutti in grandi, ipotetiche e improbabili, categorie di popoli, di etnie, di religioni, di gruppi linguistici, facendo finta di non sapere che anche la categoria in cui ci si vede incasellati è sicuramente vista con disprezzo da qualcun altro e che l’unica specie a cui si deve fare riferimento è sempre soltanto quella di un’umanità che è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità.
E, al di là dell’orrore destato dalle immagini, di cui Susan Sontag ha scritto mirabilmente nel suo Davanti al dolore degli altri, quello che sempre maggiormente sconvolge è vedere che non di pazzia di pochi si è trattato, ma di freddo metodo di molti. Nel comportamento dei carnefici in divisa, insomma, soltanto raramente si è incontrata con nettezza quella che Zvetan Todorov ha definito la “tentazione del bene”, cioè la convinzione di essere i depositari della verità, unita alla determinazione di volerla imporre agli altri, anche con la forza. È apparsa molto più evidente, invece, l’annoiata assuefazione e la deliberata e vigliacca connivenza con i pochi e ben individuati punti di riferimento della malvagità: quella raggelante “banalità del male” chiamata in causa da Hannah Arendt.
Altro che – come insegnano i monoteismi – creature simili al creatore e che non devono e non si devono uccidere. In guerra ci si dimentica che queste pedine, oltre a essere uomini vivi, hanno anche legami con altre persone, che ogni morte provocherà acuto dolore anche in altri in un’orrenda ramificazione della sofferenza che quasi passa inosservata, mimetizzata com’è in un ambito – quello della guerra – in cui sono la morte e la ricerca del guadagno personale, pecuniario o politico, a dominare tutti gli atti e tutti i pensieri.
Pensateci. Fino al 1914 i morti civili di una guerra erano un po’ meno del 10 per cento sul totale delle vittime. Oggi i civili uccisi sono oltre il 90 per cento del totale. E nello stesso lasso di tempo è cambiato profondamente anche il mondo. Nel 1914 le grandi nazioni erano, per la stragrande maggioranza, regni, o imperi, comunque non particolarmente democratici. Oggi, invece, ci sono quasi soltanto repubbliche e sono aumentare a dismisura i regimi democratici. Sono due cambiamenti che difficilmente possono apparire legati tra loro, ma che invece devono far pensare perché a mettere insieme i concetti di guerra e democrazia si crea un corto circuito in cui le contraddizioni sono tali e tante che queste due realtà finiscono per imbarbarirsi a vicenda, perché a prima vista potrebbe sembrare che paradossalmente sia stata proprio la democrazia a imbarbarire la guerra, ammesso che una guerra si possa definire “meno barbara”, solo perché in quel conflitto si ammazzano più soldati che civili.
Mi spiego: a un dittatore, a un re, a un regime totalitario può interessare ben poco del numero dei propri morti – almeno fino a quando la quantità di perdite non finisce per indebolire la stessa struttura militare – in quanto non ha alcuna necessità di farsi rieleggere e, quindi, non teme di perdere il consenso popolare. Del tutto diversa è la situazione di presidenti eletti: per loro le reazioni della popolazione non sono indifferenti; anzi sono il discrimine tra una possibile rielezione e la sconfitta elettorale. A prescindere da ogni altra considerazione sulla guerra in Iraq, un esempio tipico è dato da George W. Bush che all’inizio parlava di una guerra a perdite zero per l’America. Ovviamente sapeva di mentire, ma voleva far passare il messaggio che le truppe statunitensi sarebbero state tenute il più possibile al riparo degli scontri a fuoco. E l’unico metodo per riuscire in una simile impresa era quello di procedere con i cosiddetti “bombardamenti chirurgici” che bombardamenti sono, ma chirurgici certamente no e, quindi, oggi i morti civili iracheni si contano a decine di migliaia.
Giorgio Gaber diceva: «quella cosa che ci ostiniamo a chiamare democrazia», perché se la democrazia fosse reale, la guerra dell’Iraq probabilmente non sarebbe scoppiata in quanto la stragrande maggioranza dei cittadini dei paesi occidentali si era espressa contro l’intervento. Ma in una democrazia che ormai è rappresentativa soltanto del momento del voto, le scelte spesso vanno contro il volere popolare. Quindi diventa sempre più urgente risolvere il problema della mutazione delle democrazie che sempre più appaiono come vuoti simulacri orgogliosamente intoccabili nell’apparenza delle loro liturgie fatte di voti e di campagne elettorali che assomigliano sempre più a campagne pubblicitarie, mentre la loro sostanza appare sempre meno legata all’etimologia della parola: potere del popolo.
E poi ci meravigliamo se l’Europa unita continua a restare un difficile sogno, tranne che a livello finanziario ancor prima che economico. Pensate alle discussioni nate sull’identità europea che la Chiesa vorrebbe legare indissolubilmente al cristianesimo. Ed è ben vero che l’anima europea è del tutto incomprensibile se non si fa riferimento al cristianesimo, ma la sua complessità e la sua ricchezza sarebbero ben difficilmente comprensibili anche senza la filosofia dei greci e il diritto dei romani, senza l’arte del rinascimento, il pensiero dell’illuminismo, l’innovazione sociale della rivoluzione francese, l’utopia marxista; purtroppo anche senza la piaga dei nazionalismi e dei razzismi che ancora di tanto in tanto tornano pericolosamente a galla.
Insomma, le radici cristiane hanno pieno diritto di cittadinanza nell’anima europea, ma la loro presenza non può essere ad escludendum, rispetto a chi cristiano non è, bensì deve avere lo scopo di portare la propria grande ricchezza ad accumularsi con le grandi ricchezze che portano gli altri a creare un patrimonio che può essere preziosissimo, per profondità e moderazione, per tutto il resto del mondo.
Ecco, parlando di nazioni, etnie, razze e religioni, io credo che se desideriamo davvero capire cos’è successo a Srebrenica per trarne insegnamenti per il futuro nostro e del genere umano, non possiamo prescindere dal tirare in ballo Dio. Non sono in preda a una crisi mistica e, anzi, a questo punto ritengo doveroso rendere palese il filtro attraverso il quale vedo e valuto le cose: io non sono un non credente. E questa doppia negazione non vuole assolutamente dire che sia un credente convinto. Sono uno che non sa, che al massimo vorrebbe; uno che si sente molto vicino a François Rabelais che, sul letto di morte, disse: «Vado a cercare un Grande Forse».
Ma, allora, perché parlare di Dio? Perché per chi crede, ma anche per chi non crede, a Srebrenica Dio non c’era, ma c’era sicuramente la religione, c’era l’odio religioso ancora prima che razziale. Intendiamoci: non voglio dire che Karazdic, Mladic e compagnia agissero nel nome di Dio, sia pure di una specie di Moloch odioso e sanguinario. Sostengo che, come è successo e succede in altri tempi e da altre parti, sono stati altri a credere in questa fanfaluca, a essere senza le difese che può creare quel relativismo etico che pure è stato avversato senza mezzi termini da parte di Papa Benedetto XVI.
Ebbene, se il relativismo etico è sicuramente riprovevole a livello individuale, non può essere evitabile a livello sociale. Un relativismo che, dal punto di vista dello scorrere del tempo, è presente anche all’interno della stessa Chiesa, com’è stato soffertamente palesato anche da Giovanni Paolo II, quando ha chiesto perdono a nome di tutti i cristiani che «molte volte – ha detto – cedendo alla logica della forza, hanno violato i diritti di etnie e di popoli, disprezzando le loro culture e le loro tradizioni religiose».
E, se ci pensate, il relativismo all’interno di una società è addirittura necessario, perché se scomparisse lasciando il posto esclusivamente a verità assolute, ne deriverebbe che la democrazia, in cui ognuno vota per quello in cui crede sia giusto, null’altro sarebbe che un terribile peccato di superbia e si tenderebbe inevitabilmente ad andare verso un fondamentalismo. Perché chi crede in un Dio unico in maniera integralista, oltre a guardare con sospetto maggiore gli altri monoteisti rispetto ai praticanti di altre religioni, corre un pericolo grandissimo in quanto inevitabilmente è indotto a pensare che il regno del suo Dio debba essere attuato hic et nunc, qui e ora. Su questa terra e, ovviamente, con il massimo rigore e con assoluta purezza di leggi e di riti. Qualsiasi rinvio nel tempo, o compromesso nella sostanza, sarebbero configurabili come un tradimento gravissimo: il più alto tradimento possibile perché perpetrato ai danni dell’entità più alta possibile. Ebbene, nessuna idea è stata più pericolosa; nessuna ha portato a maggiori disastri nella storia.
Ricordando un grande del pensiero, Hans Jonas che nel suo Il concetto di Dio dopo Auschwitz ha messo in piedi nei confronti dell’Entità suprema una penetrante requisitoria che contemporaneamente è stata anche una sofferta arringa difensiva, è evidente che per molti non può non essere cambiato il concetto di Dio dopo Srebrenica. Ma intentare un procedimento contro Dio, facendo un po’ il paio con Il processo di Shamgorod, di Elie Wiesel, sarebbe un’assurdità perché il processo deve vedere noi sul banco degli accusati, visto che la connivenza con i punti di riferimento della malvagità è una storia che si è ripetuta troppo spesso. E non vale neppure dire che si è travolti dalla storia, perché, come dice in modo poetico un cantautore intelligente e sensibile come Francesco De Gregori, «la storia siamo noi. Attenzione. Nessuno si senta escluso». Oppure, se vogliamo andare a cercare una citazione più dotta e anche leggermente più approfondita e complessa, perché, come ha scritto Albert Camus ne L’uomo in rivolta, «l’uomo non è del tutto colpevole, poiché non ha cominciato la storia; né del tutto innocente, perché la continua».
Srebrenica ci ricorda che non dobbiamo mai smettere di parlare degli uomini, di ogni singolo uomo, di quegli uomini che tutti dicono di voler mettere al centro dell’attenzione, mentre spesso sono messi soltanto al centro di un mirino. E dobbiamo farlo ridando valore alla memoria, inorridendo davanti al fatto che i ricordi di certi orrori siano ormai sbiaditi visto che in molta parte d’Europa, Italia compresa, sono tornati a galla e hanno ripreso forza idee come xenofobia, eterofobia, razzismo; vedendo come si sia nuovamente gonfiata quella intolleranza contro coloro che sono avvertiti come diversi per pelle, lingua, religione, usi e costumi, addirittura abbigliamento e gastronomia; e che giungono da noi perché a casa loro non possono più stare, per fame, pericolo di vita, assenza di libertà.
Io credo sinceramente che dal mio cuore e dalla mia mente non vi sia cosa più lontana del razzismo. Eppure la lettura di certi libri e la visione di certi drammi teatrali, film e documentari mi lasciano con il groppo in gola e mi fanno sentire ancora colpevole, colpevole di appartenere a quello stesso genere umano da cui sono usciti coloro che sono stati capaci di inventare i lager di Auschwitz, Dachau, Buchenwald, ma anche le foibe, i cappucci bianchi del Ku Klux Klan e l’apartheid sudafricana, o le vecchie e sanguinose pulizie etniche staliniste e quelle più moderne e non meno tremende della ex Jugoslavia di cui Srebrenica è soltanto un pur terribile esempio, o l’odio etnico strettamente intrecciato alla reciproca insofferenza religiosa che insanguina da sempre il Medio Oriente. Mi sento colpevole di appartenere a quello stesso genere umano che non è stato capace di estirpare da sé il seme dell’odio razziale, nazionale e religioso e che continua a tramandarlo, per drammatica incuria, oltre che per criminale calcolo, ai più giovani. Colpevole, in prima persona, di aver fatto comunque troppo poco per oppormi alla negazione dell’uomo da parte di chi si sente superuomo. Sono fortemente convinto che non riuscirò mai a disfarmi del peso di una specie di rimorso personale per quanto è stato fatto dall’umanità all’umanità, ma sono anche certo che ogni mia lacrima palese, solitamente nascosta per convenzionale pudore, sarà uno stimolo in più a ricordare e a combattere pubblicamente, e non solo nel chiuso delle nostre coscienze, contro quel razzismo che non vuole morire, da qualunque parte esso arrivi; sia di pelle, sia di credo, sia di convinzioni.
E sono convinto che quando nella preghiera cristiana del Confiteor si dice «…perché ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni», l’ordine delle parole – come tutto nella Chiesa – non sia stato messo lì a casaccio, ma che chi lo ha scritto abbia realizzato scientemente un ordine crescente di gravità. L’omissione, il restare inerti, il far finta di non vedere, infatti, è probabilmente la colpa più grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma deliberato, perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della pigrizia sul dovere. Perché si possono permettere futuri danni incommensurabili per piccini desideri di tranquillità. La testimonianza esplicita, l’esempio, il rifiuto del relativismo individuale, insomma, sono il vero, grande obbligo morale.
Il film di questa sera ha in sé molte parti di A come Srebrenica, il cui titolo non può non richiamare alla memoria A come Andromeda, famoso romanzo di plausibile fantascienza scritto da Michael Crichton, che, dopo un crescendo di tensione, sfocia in un lieto fine, in una specie di miracolo.
Qui siamo a pochi chilometri da Casarsa dove Pasolini nel ’43, in piena guerra, ha scritto il suo I Turcs tal Friul. Nel testo pasoliniano, come sempre, sono contemporaneamente ben presenti il desiderio di una presenza di Dio e la coscienza che lui non ci sarà, sia perché il Dio degli eserciti non può esistere se non come sicura forma di blasfemia, sia in quanto, come dice uno dei casarsesi, nel timore dell’incursione dei Turchi, «Tu sei troppo più in alto della nostra pioggia, del nostro sole, dei nostri affanni». È il 30 settembre 1499 e, quando tutto sembra perduto, inattesa e improvvisa, una tempesta alza la polvere dai campi, annulla la visibilità, i turchi cambiano strada, e tutti inevitabilmente pensano al miracolo divino.
Ma, in realtà, il fatto che i Turchi se ne vadano è un evento fortunato; non è un miracolo. Perché i Turchi potrebbero tornare e, infatti, con loro se ne va il terrore che attanaglia la gente di Casarsa per i pericoli immediati, non la continua paura legata alla loro esistenza. Il vero miracolo sarebbe se fosse sparita anche la paura, se i Turchi fossero stati visti finalmente simili a noi, pur se con vestiti di foggia diversa, con credenze e abitudini spesso stridenti con le nostre. E se lo stesso fosse accaduto anche nel campo avverso.
E, allora, anche nei nostri giorni, bisognerebbe cambiare punto di vista perché forse la realtà è che, mentre noi attendiamo i miracoli da Dio, è Dio che si aspetta i miracoli da noi. Se li aspetta dalla nostra piccola, e pur spesso tanto gravosa, fatica quotidiana. Miracoli che non si estrinsechino in un momento di abbagliante meraviglia e che poi si fermino a quel pur splendido istante – come una fotografia che suscita emozioni, ma ingiallisce nel tempo – ma che ci mettano anni e secoli per essere costruiti, anche con sofferenza; che poi però continuino a esistere, sicuramente, insieme al progredire dell’umanità.
Questa non è, né sarà una serata allegra, perché la ferita di Srebrenica è ancora aperta. Per farla guarire non serve dimenticare, occorre pulirla e medicarla ancora. Anche se ogni volta può fare ancora davvero molto male.