domenica 17 maggio 2009

Il reato e la colpa

Premetto che non conosco Jennifer Millia: non so neppure che faccia abbia. E che non intendo assolutamente dare l’idea di voler influenzare un giudizio che non spetta a me. Vorrei soltanto approfittare di queste fotografie che ritraggono personale sanitario sorridente accanto a pazienti gravi e inconsapevoli di quello che sta accadendo accanto a loro per cercar di distinguere tra la gravità del reato e la colpa di chi lo ha commesso.
Sulla gravità del fatto non si discute, ben al di là di quanto prescriva la legge sulla privacy. È pur vero che non stiamo parlando né di imperizia, né di incuria, ma la gravità dell’azione è assoluta perché le foto sono state scattate vicino a persone in possibile fin di vita e neppure la familiarità con la morte e con la sofferenza, con cui medici e infermieri sono costretti a convivere quotidianamente soprattutto in certi reparti, può cancellare il rispetto per gli altri. Non è possibile che i degenti perdano il loro valore di esseri umani e diventino soltanto parte dello sfondo di un ambiente di lavoro.
Ovviamente non mi sogno minimamente di dire che medici e infermieri, pur nella sofferenza in cui sono immersi, non debbano mai sorridere, non debbano mai parlare di altre cose, non cerchino di darsi una parvenza di normalità. Anzi, al di là delle necessità lavorative, medici e infermieri devono vivere il più possibile normalmente perché altrimenti la loro psiche finirebbe per esserne compromessa.
Però – sempre secondo me – certe ostentazioni vanno al di là del lecito: sorridere, fare gesti scherzosi, mettersi in posa e farsi fotografare mentre nella medesima immagine si vedono anche volti di persone che potrebbero essere agli ultimi atti della loro vita resta comunque qualcosa di non accettabile.
E il fatto che magari, per puri scopi di sopravvivenza, questo diventi un ostentato modo di essere non è certamente un’attenuante se non, forse e parzialmente, per chi, da poco entrato, inconsciamente si senta obbligato ad assumere le abitudini dei colleghi per sentirsi accettato dal gruppo.
Jennifer, quindi, molto probabilmente ha accettato, assorbito e replicato un modo di fare che già c’era e a questo punto viene logico chiedersi cosa abbia fatto l’Azienda ospedaliera per prevenire ed evitare comportamenti di questo genere, quanto abbia saputo dare ai propri dipendenti codici comportamentali che evidentemente la società non è più in grado di fornire.
Ma c’è un’altra colpa di cui Jennifer è apparentemente responsabile: quella di essersi accostata a mezzi così potenti come internet e Facebook senza saperli dominare, senza essere capace di restringere a un ristretto gruppo di amici – così ha detto che avrebbe voluto fare – un album di una cinquantina di immagini che invece è finito in pasto al mondo intero.
Dico “apparentemente responsabile” perché in realtà la colpa è nostra, dell’intera società, di una società che ha perduto la coscienza che il progresso tecnico è buono soltanto se governato con l’intelligenza perché, in caso contrario, è il progresso a diventare padrone e l’uomo schiavo. E di questo abbiamo prove ogni giorno e non soltanto nel mondo del lavoro, anche se è il più esposto a rischi di questo tipo.
Ci siamo consegnati, mani e piedi legati, ai computer perché ci era comodo pensare che grazie a programmi ben costruiti potevamo, da un momento all’altro, diventare fotografi, artisti, ingegneri, architetti, impaginatori, scrittori, registi, ragionieri e praticamente tutto quello che volevamo. Era comodo pensare che non occorressero più sacrifici per raggiungere una qualsiasi meta. E, del resto, questo si inserisce alla perfezione in una società che proclama incessantemente che ottenere il risultato è l’unica cosa che conta, anche se per raggiungerlo è necessario imbrogliare o drogarsi.
E così, alla fine, molti hanno pensato di saper far tutto, mentre, invece, tutti sappiamo fare molto poco. E certi piccoli errori causati dall’ignoranza, dalla sufficienza, o dalla disattenzione, finiscono per diventare catastrofi che alla fine non fanno male soltanto alle vittime, ma anche al colpevole che rischia di veder spazzata via la propria vita per una somma di gravi colpe in totale incoscienza di dolo. Incoscienza sua, non della società in cui il colpevole è cresciuto ed è stato allevato.

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