martedì 26 giugno 2018

Il dito e la Luna

L’ennesima batosta elettorale del centrosinistra, che ha perso ai ballottaggi anche quasi tutto quel che gli restava della Toscana, forse finalmente indurrà il centrosinistra stesso a non rinnovare l’antico errore: quello che ancora una volta, davanti a un dito che indica la Luna, ci si fermi a guardare il dito e non la Luna, incommensurabile più grande e più importante.
 
D’accordo che in questo caso, trattandosi di Salvini, il dito è molto ingombrante e appariscente, ma rischia di stornare rovinosamente l’attenzione dal problema più importante, che non si materializza nell’energumeno cui, pro tempore, è stata affidata la delicatissima responsabilità del ministero degli Interni, bensì in quella parte di popolo che ha dato il voto a lui, dichiaratamente razzista ed eterofobo. Poi, che in realtà si tratti del 17 per cento dei votanti, e, quindi, soltanto di circa il 12 per cento degli aventi diritto al voto, fa aumentare ancor di più il senso di desolazione, sia perché mette in rilievo che Salvini ha saputo approfittare, con ferma determinazione, della pochezza dei cosiddetti leader degli alleati e degli oppositori, sia in quanto è riuscito ad appropriarsi non soltanto dei voti di Forza Italia e di Fratelli d’Italia, ma anche di quelli di coloro che, avendo scelto di votare 5stelle, oggi si trovano a essere più o meno inconsapevoli, ma sicuramente silenziosi, complici dei suoi comportamenti.

Perché i sondaggi hanno un bel dire che Salvini sta affascinando fette sempre più consistenti dell’elettorato con il suo crudele maramaldeggiare sui più deboli e su coloro che non possono reagire, con il suo forsennato presenzialismo anche in ambiti che toccherebbero ad altri ministri che tutto sopportano pur di non vedersi togliere lo scranno di quel governo in cui sono tanto contenti di aver inopinatamente trovato posto. Ma il fatto più importante – quello che deve preoccupare maggiormente – è che senza una quantità di gente che è stata convinta ad anteporre il proprio benessere a qualunque considerazione umanitaria, Salvini non si sarebbe mai schiodato da quel 4, o 5 per cento che la Lega aveva quando lui ne è diventato segretario e ha cominciato (non certo «da buon papà», come dice lui) a seminare odio e paure a piene mani.

Voglio dire che a preoccuparci non deve essere tanto il fatto che sia Salvini a rovinare il popolo italiano, quanto la considerazione che, senza un terreno fertile, nessuna pianta, neppure quella più infestante, riesce a crescere e a svilupparsi. A preoccuparci, insomma, deve essere il terreno di coltura - parte del popolo italiano - dal quale Salvini ha tratto la forza per inerpicarsi fin dov’è arrivato e da dove sta minando le basi di una società che ha tanto sacrificato, anche in termini di vite umane, per diventare democratica; e che oggi rischia di non esserlo più.

Insomma, è sicuramente giusto e doveroso impegnarsi a fare opposizione contro l’attuale governo, ma se non ci si impegnerà, con molta maggiore forza, a parlare agli italiani, tutto sarà inutile. Dai tempi della nascita delle televisioni berlusconiane e dalla legge Mammì che ne ha permesso l’esplosione a livello nazionale, l’impegno maggiore della destra è stato quello di cancellare la memoria storica, o almeno di confonderne i ricordi; di far perdere i contorni a tutta una serie di valori sociali, etici, politici; di sostenere che tra destra e sinistra non ci sono più differenze; di instillare dubbi e sospetti su tutte le azioni, tranne le proprie; di infarcire i notiziari su carta, o via etere, con notizie pretestuosamente false, tanto da far diventare più importante il cosiddetto “percepito” che la realtà dei fatti; di dileggiare la cultura facendola apparire come una cosa inutile («Nessuno mangia con la cultura»), se non dannosa, e comunque spocchiosa, ben sapendo che era l’unica arma possibile per resistere a questo attacco. Alla fine la cultura è stata cacciata quasi completamente anche dalle organizzazioni politiche che ne avevano fatto la propria bussola, oltre che la propria bandiera. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Dicono che questa è la democrazia e che, quindi, bisognerebbe rassegnarsi alla sconfitta, all’irrilevanza, alla scomparsa. Non è così perché la democrazia, essendo umana, si limita a indicare quello che la maggioranza (quasi sempre molto relativa) vuole, non pretende di stabilire che le idee che ottengono più voti siano quelle giuste. Ed è proprio per questo che ogni cinque anni, o meno, si torna a votare: per tentare di avvicinarsi gradatamente, talvolta anche facendo qualche passo indietro, al meglio; mai all’ottimo.

Anche in quest’ottica adesso è necessario riprendere praticamente da zero. Proponendo certamente delle ricette alternative alla destra – e ai grillini con questa – nei settori economici e produttivi, nella lotta alla povertà e alle disuguaglianze, nella maniera di amministrare regioni e comuni, ma anche e soprattutto andando a recuperare valori e principi di solidarietà umana a prescindere, ideali che sono sempre stati nel patrimonio genetico della sinistra, e dei quali bisogna recuperare l’orgoglio. Perché non si tratta soltanto di vincere le prossime elezioni, ma di far imboccare alla società la strada che riteniamo più giusta; o, meglio, irrinunciabile.

E, allora, tutti devono impegnarsi, ma mettendo in primo piano gli ideali comuni e non le pur legittime ambizioni personali.

Il PD, con i suoi iscritti, deve ritrovare la propria massa gravitazionale ripulendo se stesso da scorie che, almeno dal punto di vista della sinistra, sono venefiche ed evidenti come quelle portate da un personaggio, Matteo Renzi, che fin dall’inizio aveva dichiarato che per lui «le uniche bandiere rosse sono quelle della Ferrari» e che, perseguendo questa strada, ha stravolto l’anima del partito e, prendendolo con un 40 per cento sicuramente gonfiato da simpatie che gli provenivano da destra, l’ha ridotto a un 19 per cento provocato da irriducibili antipatie che gli sono arrivate da sinistra e che lui ha inevitabilmente trasferito a tutto il partito che per troppo tempo è stato suo personale e quasi incontrastato dominio.

Gli altri gruppi della sinistra, e i loro aderenti, devono operare, sia rendendosi conto che i satelliti – e qui torniamo alla Luna - sembrano dipendenti dal pianeta attorno al quale gravitano, ma che su quel pianeta finiscono per influire in maniera determinante con maree marine e terrestri, sia non dando per scontato che le loro idee siano facili da instillare nelle menti altrui. Sono idee faticose, foriere di fastidi e sacrifici, inevitabilmente portate a far rinunciare a qualcosa di proprio pur di far star meglio tutti. La sinistra deve imprimersi nella mente che non assolve il proprio compito dicendo soltanto quello che pensa, bensì sforzandosi in maniera inesausta di convincere gli altri. E non con slogan che ormai sembrano fatti di plastica, ma con argomenti che trasudino umanità e speranza.

Sono tutti ragionamenti su cui si deve ritornare con più tempo e con maggiori approfondimenti, ma credo che una cosa la si possa già dire: che in questo momento il centrosinistra avrebbe bisogno di politici capaci, ma soprattutto di predicatori che cerchino di parlare con orgoglio e convinzione non pensando alle prossime elezioni, ma ai propri convincimenti, di predicatori pazienti, capaci di farsi capire da tutti, e di far sentire che stanno parlando sinceramente di qualcosa che deve essere di tutti nella realtà e non soltanto nella teoria; di predicatori che sappiano farsi ascoltare non soltanto attraverso il comodo canale di internet, ma tornando a guardare negli occhi la gente con cui parlano.


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sabato 16 giugno 2018

I numeri e la vita

La notizia è di quelle che non possono lasciare indifferente nessuno, ma soprattutto chi ha lavorato per quarant’anni sotto le insegne del Messaggero Veneto e, grazie agli orari di una volta, ha passato innumerevoli notti a contatto di gomito con i rotativisti. Eccola: poco prima delle 3 di notte un caporeparto di 49 anni, friulano, si è tolto la vita in un ufficio dello stabilimento del centro stampa di Savogna, vicino a Gorizia, dove si trovano le rotative che stampano il Messaggero Veneto e Il Piccolo. Lascia la moglie e un figlio di 11 anni. Il fatto si verifica cinque giorni dopo che il gruppo Gedi News Network, di cui sono parte integrante le due testate, aveva annunciato la chiusura del centro stampa isontino con il trasferimento dell’attività e del personale non interessato da possibili prepensionamenti nel centro stampa di proprietà del gruppo a Padova. La produzione è stata subito fermata e poligrafici e giornalisti hanno proclamato un giorno di sciopero. Il Gruppo Gedi, dal canto suo, si è dichiarato «profondamente colpito e addolorato». «Siamo vicini alla famiglia ha continuato – alla quale non faremo mancare il nostro aiuto». Va anche ricordato che il Centro stampa di Gorizia era in funzione da circa sei anni, dopo la dismissione delle rotative di Udine e di Trieste e il loro conseguente accorpamento nell’Isontino.

Le segreterie regionali di Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom-Uil, nel commentare la notizia sottolineano: «Temiamo che anche questa possa essere una delle ragioni della tragica decisione». «Temiamo», dicono; e, infatti, nessuno può permettersi di trinciare giudizi di correlazione tra quello che è avvenuto e il perché questo è avvenuto, ma è altrettanto certo che se anche la notizia del trasferimento obbligato a Padova è stato soltanto la goccia che ha fatto traboccare un vaso, bisogna pur dire che è stata una goccia terribilmente, drammaticamente importante.

Non si può pensare, infatti, che, al di là dei dettagli di legge e di contratto, un trasferimento di città, a una distanza di circa 160 chilometri, possa essere qualcosa che lascia indifferenti, specie se la quantità di denaro a disposizione non è tale da cancellare ogni preoccupazione legata a uno spostamento di residenza, visto che un simile pendolarismo non è ipotizzabile. E non si può pensare nemmeno che non abbiano peso la quasi certa perdita di amicizie e di abitudini anche per la moglie e il figlio.

Intendiamoci: nessuna colpa particolare al Gruppo Gedi, ma, casomai, al sistema–lavoro, alla società che abbiamo costruito. Il Gruppo si è comportato come avrebbero fatto quasi tutte le altre aziende: ha deciso tenendo d’occhio soltanto i bilanci e non quelli che, lavorando, rendono possibili quei bilanci stessi. Come tutti, anche il Gruppo Gedi ha guardato i numeri e non la vita.

Nulla da eccepire se non che è semplicemente, abitudinariamente, del tutto asimmetrico pretendere dedizione, fedeltà e massimo impegno dai dipendenti, se l’azienda non li ripaga con la stessa moneta.

Ma anche l’asimmetria è diventata di moda e purtroppo non soltanto tra aziende e lavoratori, ma anche tra tante persone e la loro coscienza. Un esempio emblematico in tal senso mi sembra quello fornito in questi giorni da Alessandro Di Battista che ha ceduto per 50 mila euro i diritti per un suo prossimo libro di memorie alla Mondadori, editore Berlusconi. Alla maliziosa domanda del giornalista che gli chiedeva se non gli creasse imbarazzo ricevere soldi da uno degli imprenditori più disprezzati da lui e da tutti i 5stelle, l’ex onorevole ha risposto che come guadagna denaro «sono cavoli miei», anche se, a dire il vero, non ha usato la parola “cavoli”, ma un’altra che comincia sempre con la “c”, ma poi prosegue in modo diverso. E, asimmetricamente, non gli è venuto neppure in testa che come risponde lui, potrebbero rispondere tutti; Berlusconi compreso.

Ed è proprio per questo che l’asimmetria ha successo: solo perché i numeri, il guadagno, hanno sempre la precedenza sulla vita. Sarebbe assurdo se cercassi di illustrare bene questo concetto quando c’è già stato chi lo ha fatto alla perfezione. Si tratta di Robert Kennedy che il 18 marzo del 1968, tre mesi prima di essere assassinato mentre era in campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti, ha tenuto un discorso all’università del Kansas. Ve ne ripropongo, parola per parola, la parte che interessa l’argomento di cui sto parlando.

«Non troveremo mai un fine per la nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo».
«Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari».
«Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere, o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi».
«Il PIL non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. In breve, misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».

Le mie più sentite e commosse condoglianze alla famiglia e ai colleghi che non sono soltanto suoi, ma anche miei, perché nei vecchi giornali i poligrafici esistevano ancora ed erano della stessa famiglia dei giornalisti in quanto entrambe le categorie sapevano che l’una senza l’altra non poteva esistere. E sono convinto che la stessa regola, pur con il dilagare dei computer, sia ancora del tutto valida, se si vuole sfruttare al massimo due professionalità e non accontentarsi di ibridi che non potranno mai – e non per colpa loro – dare il massimo, né in un campo, né nell’altro.

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lunedì 4 giugno 2018

Per sempre coinvolti

Con la consueta lucidità Umberto Galimberti, nell’ultimo numero della sua rubrica su D la Repubblica, sotto il titolo “Il terribile è già accaduto”, agganciandosi agli infiniti massacri siriani, afferma: «Quello che succede in Siria è terribile, ma ancora più terribile è l’indifferenza che ci avvolge e ci rende insensibili quando si è già paralizzata la nostra immaginazione, la nostra percezione e il nostro sentimento». E poi specifica che noi vediamo immagini di distruzioni, ma non percepiamo più quello che dietro quelle immagini si agita: fame, sete, dolore; e così «s’inceppa anche il nostro sentimento» perché «è fuori misura rispetto al nostro quieto modo di vivere, dove non manca chi agita i fantasmi di un’insicurezza che in nessun modo è possibile paragonare alle condizioni di chi vive sotto le bombe». E, ancora: «il nostro sentimento di reazione si arresta alla soglia di una certa grandezza e, ridotti a un totale analfabetismo emotivo, continuiamo la nostra vita a colpi di rimozione», concludendo che «Questa amputazione che ci rende insensibili alle sorti dei nostri simili, è peggiore persino di quello che sta accadendo in Siria, o in qualunque altro teatro di guerra».
Ineccepibile; ma credo che, oltre alla tranquillità data dalla rimozione, a spingerci verso un generale rifiuto dell’orrore sia anche una specie di autoconsolazione: quando vediamo i “cattivi” per noi è più facile sentirci “buoni” e, una volta autocollocatici nella casella che più ci soddisfa, la rimozione diventa ancora più facile.

Il fatto è che per innestare questi meccanismi e trovare i “cattivi” non occorre andare in Siria e neppure ai confini tra Israele e la striscia di Gaza dove un militare israeliano può sparare da lontano e uccidere un’infermiera palestinese ventunenne mentre sta soccorrendo un ferito, senza neppure subire un rimprovero: basta stare qui da noi.

Continua a essere vero che non ci può essere paragone tra il vivere sotto le bombe e le nostre insicurezze, ma, proprio per questo, a maggior ragione, sono ingiustificabili certi atteggiamenti come quello del nuovo ministro degli Interni, Matteo Salvini che, forse spinto dal fatto che è ancora in campagna elettorale visto che tra poco ci saranno nuove elezioni amministrative, distribuisce frasi orrende sul tipo: «Nessun vicescafista deve attraccare nei porti italiani» che, tradotto, significa che le navi delle Ong che soccorrono i migranti naufraghi nel Mediterraneo è meglio che se ne stiano a casa perché quelli che riusciranno a salvare non saranno accettati più nemmeno in Italia. E, visto il comportamento delle altre nazioni costiere, ai migranti resterebbe solo la scelta tra il morire in mare e l’essere restituiti agli aguzzini libici; soluzione che probabilmente – checché ne dica Minniti – tanto meglio non è.

Noi oggi possiamo guardare Salvini e ripetere che è un barbaro, sia perché tratta da “vicescafisti” donne e uomini che si sacrificano per salvare più vite possibili, sia in quanto, da uomo politico che ostenta di giurare sul Vangelo e sul rosario, continua a ignorare che la parola “prossimo” per il cattolicesimo non significa “vicino”, ma semplicemente “essere umano”. Avremmo ragione, ma la rimozione e l’autoconsolazione ci impedirebbe di vedere una realtà più sconvolgente e anche più importante: che barbari siamo anche noi, intesi come italiani, che abbiamo consentito che si arrivasse a questa situazione.

Alcuni alzeranno i sopraccigli, offesi da questa mia affermazione in quanto sono convinti di avere fatto il possibile perché questo non si verificasse. Ma sono la minoranza e con loro mi scuso. E non parlo nemmeno di quelli che hanno votato Lega convinti di far bene e che sia giusto lo slogan “Prima gli italiani”; con loro è inutile farlo. Mi rivolgo, invece, a quelli che hanno deciso di votare per il nuovo governo perché non hanno previsto che si potesse verificare un’alleanza di cui si parlava da almeno un anno, nonostante le indignate smentite di Grillo, Di Maio Di Battista, Salvini eccetera; a coloro che hanno votato pensando a promesse che andavano a solleticare soltanto i propri interessi personali, soprattutto economici, e non quelli dell’intera comunità, o a evitare i propri fastidi; ai tantissimi – troppi – che non hanno visto nessuno dotato di adamantina coincidenza con i loro ideali e si sono sentiti troppo nobili per abbassarsi ad andare votare per il meno peggio; ai non pochi che hanno svilito e confuso tanto la politica da farla sentire lontanissima a un numero enorme di persone. Sono anche questi i barbari che hanno consentito a un barbaro di provare a trascinare nel fango, oltre che a svariate decine di anni indietro nel tempo, la nostra civiltà che era cresciuta anche e soprattutto basandosi sulla solidarietà generale.

E adesso? Adesso pochi si pentono, mentre la maggior parte degli altri è impegnata nell’individuare gli errori che ci hanno portati a questo disastro. Errori, ovviamente, che si trovano sempre negli altri e mai in se stessi.

Un suggerimento? Proviamo a usare di nuovo le parole con il loro significato, magari dicendo davvero quello che pensiamo e mandando a quel paese quella falsa e melliflua diplomazia che non fa mai avvicinare davvero due parti in disaccordo, ma le fa soltanto convenire sul fatto che è giusto mentire esclusivamente a scopo di propaganda.

Per esempio recuperiamo il senso di parole ormai svuotate di significato, oppure non usiamole più. Pensiamo a "unità", antica chimera della sinistra: una volta, giustamente, significava mediazione tra le varie idee fino allo sfinimento; oggi è diventata adeguamento obbligatorio alle idee non di chi dirige, ma di chi comanda. Dimenticando clamorosamente che uno dei grandi pregi della democrazia sta nel fatto che non è detto che chi ha la maggioranza abbia contemporaneamente anche ragione.

Già questo dovrebbe bastare per cancellare ogni desiderio di rimozione e di autoconsolazione e per mettersi a lavorare con l'unico obbiettivo di risalire la china; ma, per sicurezza, sarebbe anche utile non dimenticare mai una frase cantata da Fabrizio De Andrè nella “Canzone di maggio” e poi ripetuta in “Nella mia ora di libertà”: «Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti».

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