mercoledì 6 ottobre 2021

Non solo uno scienziato

Giorgio ParisiQuesta intervista è stata fatta ad me al professor Giorgio Parisi, da ieri premio Nobel per la fisica, il 25 gennaio 2005, qualche giorno prima della consegna del Premio Nonino che ancora una volta è riuscito ad anticipare le scelte della commisssione di Stoccolma.

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– Professor Parisi, per prima cosa complimenti per il premio Nonino alla cui cerimonia di consegna lei, fisico teorico, sarà in compagnia di due letterati di cui una è particolarmente impegnata nel sociale. Dante parlava di «seguir virtute e canoscenza»: forse finalmente le due sfere del sapere riescono a riavvicinarsi?

«Mi sentirò in una compagnia estremamente piacevole e sono molto contento perché questo è un tentativo importante di avvicinare le due sfere della conoscenza».

– Da un certo punto di vista, lo sta già facendo, perché, un po’ come i presocratici, nei tempi in cui fisica e filosofia erano abbastanza unite, lei tenta di indagare la natura soltanto con la forza del pensiero per intuire e costruire realtà possibili. Poi ai calcolatori spetta soltanto il compito di fare una specie di prova del nove. È così?

«Sì, è giustissimo. Ma senza andare indietro nel tempo fino ai presocratici, anche al tempo di Kant ed Hegel la fisica newtoniana aveva influenzato moltissimo il pensiero filosofico».

– E poi come mai questo distacco?

«Perché la scienza è diventata molto specializzata. La quantità di studi necessari per capire i fondamenti di Newton era molto inferiore a quella che serve adesso per comprendere Einstein, o la meccanica quantistica. Inoltre, il tempo che uno ha è limitato ed è difficile trovare persone che lavorino in discipline classiche e abbiano contemporaneamente una solida formazione scientifica».

– Con la sua opera, lei ricorda che la matematica è il tessuto su cui tutti si basa: fisica, chimica, biologia, economia. Eppure la purezza e l’assolutezza della matematica sembra quasi metterla in contrasto con il caos del mondo...

«La matematica da un paio di secoli ha una certa tendenza a diventare più qualitativa. Alla fisica è sempre stata molto vicina, ma se ci si vuole confrontare con le scienze “molli”, quelle che a volte sono al limite tra scienza e conoscenza, l’unica strada è avere descrizioni il più possibile di qualità».

– Lo sforzo, insomma, è quello di tramutare cose apparentemente caotiche in qualcosa di comprensibile lavorando sia in termini di spazio, sia di tempo. Ma nel passato c’è sicuramente stato qualcosa di caotico che ora a noi sembra ordinato e comprensibile grazie ai progressi della scienza...

«È vero. Prendiamo il moto dei pianeti che, riferendosi a un sistema geocentrico, erano quasi incomprensibili. Quando gli antichi osservano con cura il cielo, una delle cose che li faceva impazzire era il fatto che Marte, che normalmente si muove in una direzione, a un certo punto sembra tornare indietro per un po’. Quello che succedeva, e non lo potevano capire, era dovuto al fatto che la Terra va più veloce di Marte e che quando la sorpassa apparentemente Marte va all’indietro; poi torna a muoversi normalmente. Per secoli molte cose sono sembrate incomprensibili, anche nella biologia».

– Quindi il caos è un concetto relativo?

«Direi che il caos è diventato un concetto tecnico; e questo è un fatto che si riesce a controllare perché esiste una definizione precisa e matematica di cos’è un sistema caotico, e di come si misurano gli indici della sua caoticità. Mentre prima di questo concetto non si poteva parlare, ora il caos è una quantità misurabile, definibile, matematicamente studiabile».

– Cercando di stabilire regole ed equilibri dentro sistemi caotici lei, in un certo senso, sembra lavorare anche per confermare l’esistenza del determinismo pensato da Laplace. È un’impresa che, ammesso io ne avessi le capacità, mi farebbe paura perché, se avessi successo, dovrei essere d’accordo con Laplace non soltanto quando dice che Dio diventa superfluo, ma anche quando implicitamente sostiene che non esiste neppure il libero arbitrio. Non la intimorisce l’idea di aprire una porta che potrebbe farle capire che lei quella porta ha dovuto e non voluto aprirla?

«Io non sono assolutamente d’accordo con l’affermazione metodologica di Laplace, perché a noi non serve assolutamente descrivere le scienze utilizzando metodi deterministici. Laplace dice che se fossimo matematici infinitamente abili saremmo in grado di costruire il futuro e ricostruire il passato. Ma non siamo matematici infinitamente abili, né siamo infinitamente precisi per sapere esattamente com’è il presente. Quindi si tratta di un’affermazione di principio del tutto irrilevante nella vita di tutti i giorni e anche nel fare scienza perché la descrizione di un sistema, non appena questo diventa un po’ complicato, deve essere fatta in termini probabilistici».

– Insomma, i concetti di Laplace sono più utili per fare filosofia che per fare scienza...

«Esattamente. Fondamentalmente, dal punto di vista matematico, io sono un probabilista. Tutto il mio lavoro si basa sull’uso, a volte molto sofisticato, delle probabilità perché, per poter fare scienza, quando sono molti i sistemi che interagiscono fra di loro, è assolutamente necessario utilizzare i concetti probabilistici».

– Quindi il libero arbitrio, da questo punto di vista, è salvo?

«Quella del libero arbitrio mi sembra una questione filosofica. Se guardo una persona nel passato non necessariamente vedo la sua libertà, ma solo che ha fatto una determinata cosa. Se era libero o no, chi può dirlo?».

– Può dipendere da molte cose...

«Anche senza parlare di determinismo, noi abbiamo tanti di quei condizionamenti sociali, più o meno inconsci, che il problema del libero arbitrio va visto in altra maniera. Uno è talmente condizionato da dove è nato, dalla propria educazione, dalla storia che vive, dalle esperienze che ha fatto, che, in fondo, di vero libero arbitrio ne rimane relativamente poco. Si potrebbe pensare che serve per utilizzare al massimo le occasioni che uno ha, ma anche questa la volontà è condizionata da tutta una serie di fattori esterni».

– L’anno scorso Marcello Cini, che l’ha preceduta nel Premio Nonino a un maestro italiano, mi aveva ripetuto che secondo lui la scienza non è neutrale. Per non esporla esclusivamente i voleri dei poteri economici e politici deve essere una scienza democratica. O bisogna limitarsi a sperare che le individualità scientifica di spicco abbiamo contemporaneamente anche uno spiccato senso etico e sociale?

«Secondo me è importante dare ai cittadini le capacità di poter capire quello che sta succedendo intorno a loro. Ci sono delle scelte tecnologiche che sono piene di significato politico e se i cittadini non hanno alcuna capacità scientifica, queste decisioni dipendono da interessi particolari. In una democrazia completa è molto importante che i cittadini possano capire cosa accade sopra le loro teste».

– La certezza che la scienza possa postulare un progresso infinito si è ormai sbriciolata. E anche le cosiddette scienze sociali sembrano aver accettato la certezza di non riuscire a progredire indefinitamente e, quindi, di non poter superare certe ingiustizie. Questo deve portare a una specie di pessimistica rassegnazione, o a una costruttiva arrabbiatura?

«Progredire, specialmente dal punto di vista sociale, vuol dire fare dei paragoni fra sistemi diversi che, alla fine, sono incommensurabili. Io spero che la scienza porti non a un progresso infinito, ma a cercare una sempre maggiore comprensione. Poi sul fatto che il progresso della società possa avere dei momenti di stagnazione, o di regresso, questo è certamente possibile».

– Lei dice che la gente deve sapere per poi valutare e decidere. In Italia il sapere scientifico è molto trascurato, forse anche perché manca una vera divulgazione scientifica, genere letterario in coda sia per le vendite, sia probabilmente anche per la qualità rispetto a quella di altri paesi...

«Sicuramente manca la divulgazione scientifica, ma molto dipende anche dal fatto che i programmi dei licei e delle medie sono fatte con i piedi. Vengono presentate una fisica e una matematica completamente astratte, che non servono per capire il mondo che ti sta accanto. Se uno studente di liceo si domanda come funziona un frigorifero, non lo sa ed è portato a credere che tutta la tecnologia sia una cosa lontana, quasi che molte macchine funzionino per virtù magiche».

– In pratica si tratta di programmi che non affascinano, ma addirittura allontanano?

«Non solo non affascinano, ma non danno nemmeno gli strumenti per comprendere quello che abbiamo accanto. Andrea Prova ha scritto un bellissimo libro “Perché accade quel che accade” in cui tenta, con linguaggio abbastanza semplice, di spiegare una serie di fenomeni della vita di tutti i giorni utilizzando concetti fisici. Secondo me la fisica e la matematica al liceo dovrebbero insegnare che il mondo che vediamo è comprendibile e che certe cose, anche se non tutte, hanno spiegazioni semplici, che tutti possono capire».

– Tra i problemi italiani, uno di quelli più sentiti è la mancanza di fondi destinati alla ricerca e, quindi, l’inevitabile fuga di cervelli. E la cosa sta peggiorando...

«La cosa sta certamente peggiorando perché gli investimenti nelle università e nella ricerca non riescono a stare dietro all’inflazione, mentre c’è assoluto bisogno di assumere del personale giovane: anche le persone che lavorano nella ricerca invecchiano di un anno ogni anno e non ci sono giovani che li sostituiscano».

– Anche perché nella ricerca il precariato è difficilmente sostenibile...

«Il fatto è che in Italia la gente rimane precaria fino a 35 anni, o anche di più, e così quelli più brillanti se ne vanno all’estero. In Francia di norma la gente viene assunta fino ai 31-32 anni: ci sono delle disposizioni in proposito. Inoltre la finanziaria 2005 ha bloccato per tre anni le assunzioni negli enti di ricerca».

– Una specie di autocastrazione di Stato?

«È uno stupido condannarsi a regredire perché – dicono – anche se ci sono i soldi non li potete usare. Infatti gli enti di ricerca sono costretti a fare concorsi per scegliere le persone, ma poi non possono assumerle in forma permanente e cercano di dare loro un posto provvisorio in attesa di poterlo tramutare in definitivo. È una follia assoluta. La spesa è la stessa, ma si impedisce di utilizzare i fondi nel modo più razionale».

– Molto spesso gli scienziati si sono tenuti un po’ ai margini della vita sociale vera e propria, anche perché totalmente assorbiti dalle loro ricerche. Adesso sono molti di più quelli che si impegnano nel prendere posizione davanti a certe realtà. Per esempio, moltissimi scienziati, tra cui anche lei, si sono dichiarati contrari alla guerra. Questo cambio di atteggiamento deriva da una maggiore coscienza, o dall’avvertire un maggiore pericolo?

«Forse da tutte e due. Ma più che di maggiore pericolo, parlerei di maggior degrado. Per esempio, prima non accadeva che l’Italia non rispettasse la Costituzione. C’era la guerra del Vietnam, ma non si è mai pensato di mandare italiani in Vietnam. Adesso, invece, sia con governi di sinistra sia con governi di destra, si mandano tranquillamente soldati italiani in zone di guerra. Penso che da questo punto di vista la situazione si sia degradata. Poi le persone che lavorano nel campo scientifico non soltanto hanno probabilmente acquisito una maggiore consapevolezza, ma tendono anche ad avere, per formazione, uno sguardo più obiettivo sulla realtà e generalmente possono parlare a voce alta senza paura di rappresaglie».

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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