Questa
intervista è stata fatta ad me al professor Giorgio Parisi, da ieri
premio Nobel per la fisica, il 25 gennaio 2005, qualche giorno prima
della consegna del Premio Nonino che ancora una volta è riuscito ad
anticipare le scelte della commisssione di Stoccolma.
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– Professor Parisi, per prima cosa
complimenti per il premio Nonino alla cui cerimonia di consegna lei,
fisico teorico, sarà in compagnia di due letterati di cui una è
particolarmente impegnata nel sociale. Dante parlava di «seguir virtute e
canoscenza»: forse finalmente le due sfere del sapere riescono a
riavvicinarsi?
«Mi sentirò in una compagnia
estremamente piacevole e sono molto contento perché questo è un
tentativo importante di avvicinare le due sfere della conoscenza».
– Da un certo punto di vista, lo
sta già facendo, perché, un po’ come i presocratici, nei tempi in cui
fisica e filosofia erano abbastanza unite, lei tenta di indagare la
natura soltanto con la forza del pensiero per intuire e costruire realtà
possibili. Poi ai calcolatori spetta soltanto il compito di fare una
specie di prova del nove. È così?
«Sì, è giustissimo. Ma senza
andare indietro nel tempo fino ai presocratici, anche al tempo di Kant
ed Hegel la fisica newtoniana aveva influenzato moltissimo il pensiero
filosofico».
– E poi come mai questo distacco?
«Perché la scienza è diventata
molto specializzata. La quantità di studi necessari per capire i
fondamenti di Newton era molto inferiore a quella che serve adesso per
comprendere Einstein, o la meccanica quantistica. Inoltre, il tempo che
uno ha è limitato ed è difficile trovare persone che lavorino in
discipline classiche e abbiano contemporaneamente una solida formazione
scientifica».
– Con la sua opera, lei ricorda
che la matematica è il tessuto su cui tutti si basa: fisica, chimica,
biologia, economia. Eppure la purezza e l’assolutezza della matematica
sembra quasi metterla in contrasto con il caos del mondo...
«La matematica da un paio di
secoli ha una certa tendenza a diventare più qualitativa. Alla fisica è
sempre stata molto vicina, ma se ci si vuole confrontare con le scienze
“molli”, quelle che a volte sono al limite tra scienza e conoscenza,
l’unica strada è avere descrizioni il più possibile di qualità».
– Lo sforzo, insomma, è quello di
tramutare cose apparentemente caotiche in qualcosa di comprensibile
lavorando sia in termini di spazio, sia di tempo. Ma nel passato c’è
sicuramente stato qualcosa di caotico che ora a noi sembra ordinato e
comprensibile grazie ai progressi della scienza...
«È vero. Prendiamo il moto dei
pianeti che, riferendosi a un sistema geocentrico, erano quasi
incomprensibili. Quando gli antichi osservano con cura il cielo, una
delle cose che li faceva impazzire era il fatto che Marte, che
normalmente si muove in una direzione, a un certo punto sembra tornare
indietro per un po’. Quello che succedeva, e non lo potevano capire, era
dovuto al fatto che la Terra va più veloce di Marte e che quando la
sorpassa apparentemente Marte va all’indietro; poi torna a muoversi
normalmente. Per secoli molte cose sono sembrate incomprensibili, anche
nella biologia».
– Quindi il caos è un concetto relativo?
«Direi che il caos è diventato un
concetto tecnico; e questo è un fatto che si riesce a controllare perché
esiste una definizione precisa e matematica di cos’è un sistema
caotico, e di come si misurano gli indici della sua caoticità. Mentre
prima di questo concetto non si poteva parlare, ora il caos è una
quantità misurabile, definibile, matematicamente studiabile».
– Cercando di stabilire regole ed
equilibri dentro sistemi caotici lei, in un certo senso, sembra lavorare
anche per confermare l’esistenza del determinismo pensato da Laplace. È
un’impresa che, ammesso io ne avessi le capacità, mi farebbe paura
perché, se avessi successo, dovrei essere d’accordo con Laplace non
soltanto quando dice che Dio diventa superfluo, ma anche quando
implicitamente sostiene che non esiste neppure il libero arbitrio. Non
la intimorisce l’idea di aprire una porta che potrebbe farle capire che
lei quella porta ha dovuto e non voluto aprirla?
«Io non sono assolutamente
d’accordo con l’affermazione metodologica di Laplace, perché a noi non
serve assolutamente descrivere le scienze utilizzando metodi
deterministici. Laplace dice che se fossimo matematici infinitamente
abili saremmo in grado di costruire il futuro e ricostruire il passato.
Ma non siamo matematici infinitamente abili, né siamo infinitamente
precisi per sapere esattamente com’è il presente. Quindi si tratta di
un’affermazione di principio del tutto irrilevante nella vita di tutti i
giorni e anche nel fare scienza perché la descrizione di un sistema,
non appena questo diventa un po’ complicato, deve essere fatta in
termini probabilistici».
– Insomma, i concetti di Laplace sono più utili per fare filosofia che per fare scienza...
«Esattamente. Fondamentalmente,
dal punto di vista matematico, io sono un probabilista. Tutto il mio
lavoro si basa sull’uso, a volte molto sofisticato, delle probabilità
perché, per poter fare scienza, quando sono molti i sistemi che
interagiscono fra di loro, è assolutamente necessario utilizzare i
concetti probabilistici».
– Quindi il libero arbitrio, da questo punto di vista, è salvo?
«Quella del libero arbitrio mi
sembra una questione filosofica. Se guardo una persona nel passato non
necessariamente vedo la sua libertà, ma solo che ha fatto una
determinata cosa. Se era libero o no, chi può dirlo?».
– Può dipendere da molte cose...
«Anche senza parlare di
determinismo, noi abbiamo tanti di quei condizionamenti sociali, più o
meno inconsci, che il problema del libero arbitrio va visto in altra
maniera. Uno è talmente condizionato da dove è nato, dalla propria
educazione, dalla storia che vive, dalle esperienze che ha fatto, che,
in fondo, di vero libero arbitrio ne rimane relativamente poco. Si
potrebbe pensare che serve per utilizzare al massimo le occasioni che
uno ha, ma anche questa la volontà è condizionata da tutta una serie di
fattori esterni».
– L’anno scorso Marcello Cini, che
l’ha preceduta nel Premio Nonino a un maestro italiano, mi aveva
ripetuto che secondo lui la scienza non è neutrale. Per non esporla
esclusivamente i voleri dei poteri economici e politici deve essere una
scienza democratica. O bisogna limitarsi a sperare che le individualità
scientifica di spicco abbiamo contemporaneamente anche uno spiccato
senso etico e sociale?
«Secondo me è importante dare ai
cittadini le capacità di poter capire quello che sta succedendo intorno a
loro. Ci sono delle scelte tecnologiche che sono piene di significato
politico e se i cittadini non hanno alcuna capacità scientifica, queste
decisioni dipendono da interessi particolari. In una democrazia completa
è molto importante che i cittadini possano capire cosa accade sopra le
loro teste».
– La certezza che la scienza possa
postulare un progresso infinito si è ormai sbriciolata. E anche le
cosiddette scienze sociali sembrano aver accettato la certezza di non
riuscire a progredire indefinitamente e, quindi, di non poter superare
certe ingiustizie. Questo deve portare a una specie di pessimistica
rassegnazione, o a una costruttiva arrabbiatura?
«Progredire, specialmente dal
punto di vista sociale, vuol dire fare dei paragoni fra sistemi diversi
che, alla fine, sono incommensurabili. Io spero che la scienza porti non
a un progresso infinito, ma a cercare una sempre maggiore comprensione.
Poi sul fatto che il progresso della società possa avere dei momenti di
stagnazione, o di regresso, questo è certamente possibile».
– Lei dice che la gente deve
sapere per poi valutare e decidere. In Italia il sapere scientifico è
molto trascurato, forse anche perché manca una vera divulgazione
scientifica, genere letterario in coda sia per le vendite, sia
probabilmente anche per la qualità rispetto a quella di altri paesi...
«Sicuramente manca la divulgazione
scientifica, ma molto dipende anche dal fatto che i programmi dei licei
e delle medie sono fatte con i piedi. Vengono presentate una fisica e
una matematica completamente astratte, che non servono per capire il
mondo che ti sta accanto. Se uno studente di liceo si domanda come
funziona un frigorifero, non lo sa ed è portato a credere che tutta la
tecnologia sia una cosa lontana, quasi che molte macchine funzionino per
virtù magiche».
– In pratica si tratta di programmi che non affascinano, ma addirittura allontanano?
«Non solo non affascinano, ma non
danno nemmeno gli strumenti per comprendere quello che abbiamo accanto.
Andrea Prova ha scritto un bellissimo libro “Perché accade quel che
accade” in cui tenta, con linguaggio abbastanza semplice, di spiegare
una serie di fenomeni della vita di tutti i giorni utilizzando concetti
fisici. Secondo me la fisica e la matematica al liceo dovrebbero
insegnare che il mondo che vediamo è comprendibile e che certe cose,
anche se non tutte, hanno spiegazioni semplici, che tutti possono
capire».
– Tra i problemi italiani, uno di
quelli più sentiti è la mancanza di fondi destinati alla ricerca e,
quindi, l’inevitabile fuga di cervelli. E la cosa sta peggiorando...
«La cosa sta certamente
peggiorando perché gli investimenti nelle università e nella ricerca non
riescono a stare dietro all’inflazione, mentre c’è assoluto bisogno di
assumere del personale giovane: anche le persone che lavorano nella
ricerca invecchiano di un anno ogni anno e non ci sono giovani che li
sostituiscano».
– Anche perché nella ricerca il precariato è difficilmente sostenibile...
«Il fatto è che in Italia la gente
rimane precaria fino a 35 anni, o anche di più, e così quelli più
brillanti se ne vanno all’estero. In Francia di norma la gente viene
assunta fino ai 31-32 anni: ci sono delle disposizioni in proposito.
Inoltre la finanziaria 2005 ha bloccato per tre anni le assunzioni negli
enti di ricerca».
– Una specie di autocastrazione di Stato?
«È uno stupido condannarsi a
regredire perché – dicono – anche se ci sono i soldi non li potete
usare. Infatti gli enti di ricerca sono costretti a fare concorsi per
scegliere le persone, ma poi non possono assumerle in forma permanente e
cercano di dare loro un posto provvisorio in attesa di poterlo
tramutare in definitivo. È una follia assoluta. La spesa è la stessa, ma
si impedisce di utilizzare i fondi nel modo più razionale».
– Molto spesso gli scienziati si
sono tenuti un po’ ai margini della vita sociale vera e propria, anche
perché totalmente assorbiti dalle loro ricerche. Adesso sono molti di
più quelli che si impegnano nel prendere posizione davanti a certe
realtà. Per esempio, moltissimi scienziati, tra cui anche lei, si sono
dichiarati contrari alla guerra. Questo cambio di atteggiamento deriva
da una maggiore coscienza, o dall’avvertire un maggiore pericolo?
«Forse da tutte e due. Ma più che
di maggiore pericolo, parlerei di maggior degrado. Per esempio, prima
non accadeva che l’Italia non rispettasse la Costituzione. C’era la
guerra del Vietnam, ma non si è mai pensato di mandare italiani in
Vietnam. Adesso, invece, sia con governi di sinistra sia con governi di
destra, si mandano tranquillamente soldati italiani in zone di guerra.
Penso che da questo punto di vista la situazione si sia degradata. Poi
le persone che lavorano nel campo scientifico non soltanto hanno
probabilmente acquisito una maggiore consapevolezza, ma tendono anche ad
avere, per formazione, uno sguardo più obiettivo sulla realtà e
generalmente possono parlare a voce alta senza paura di rappresaglie».
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