mercoledì 23 giugno 2021

I significati di “libero”

Monsignor Gallagher
Monsignor Gallagher

Doveva restare riservata, ma, per evidenti motivi, qualcuno ha ritenuto di far trapelare la notizia che attraverso il Segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher, il 17 giugno è stata presentata una richiesta formale al governo italiano per fermare il disegno di legge Zan perché «viola i Patti Lateranensi». Un gesto senza precedenti nella quasi secolare storia dei rapporti tra Italia e Vaticano dopo la firma di quel trattato.

Ma, visto che nella stessa curia romana sembra esserci battaglia sullo stupefacente comunicato contro il ddl Zan, si è certi che Papa Francesco fosse a conoscenza di quello che stava per succedere con l’inedita denuncia della mancata osservanza di un trattato internazionale come i Patti Lateranensi?

La domanda, oltre che preoccupante, è più che lecita visto che l’opposizione ultraconservatrice alle posizioni pastorali del Pontefice (molti preti e prelati non hanno mai digerito quel «Chi sono io per poter giudicare» pronunciato da Bergoglio che ha sottratto loro una buona fetta di potere) ha continuato a imperversare e sta cercando di sferrare colpi terribili al “soglio di Pietro” senza rendersi neppure contro che li sta sferrando anche a se stessa per i contraccolpi che ha e avrà nel popolo cattolico.

Basterebbe pensare alle parole del novantenne cardinale Ruini che è sceso immediatamente in campo e, giulivo, ha dichiarato che è stato giusto denunciare una violazione del Concordato «nel quale la Repubblica Italiana riconosce alla Chiesa Cattolica la piena libertà di svolgere il proprio magistero e garantisce alla Chiesa stessa e ai cattolici piena libertà di pensiero e di espressione».

Ebbene, teniamo per prima cosa presente che il ddl Zan si limita a riferirsi ai crimini di odio e di incitamento all’odio, ed esclude esplicitamente qualsiasi limitazione alla propaganda di idee. Ma soprattutto leggiamo il testo: alla vecchia formulazione dell’articolo 604 bis, più conosciuto come “Legge Mancino”, «È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», si limita ad aggiungere, in coda, «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità».

Questo significa, secondo il cardinale Ruini e coloro che rappresenta e preferiscono restare in secondo piano, che la libertà di magistero della Chiesa e quella di pensiero e di espressione dei cattolici, sarebbero mutilate se fosse proibito per legge di incitare «alla discriminazione o alla violenza» contro quelli che sono diversi per genere, orientamento sessuale, identità di genere, o disabilità? Invocare quella norma concordataria fa pensare che per il Vaticano la libera missione pastorale e la manifestazione del pensiero possano legittimamente tradursi in azioni discriminatorie e repressive.

E assolutamente degno di attenzione, a proposito di “magistero”, è anche il fatto che la Chiesa si opponga a un disegno di legge italiano non in nome di valori etici legittimi, anche se non condivisi da tutti, ma chiamando in causa un trattato internazionale. Lasciar perdere le teoriche leggi morali per aggrapparsi, infatti, a quelle scritte su carte bollate fa trasparire sia la presa di coscienza del fallimento di una “moral suasion” praticata quando da parte del Vaticano si indicavano come salvatori del concetto di famiglia personaggi che di famiglie ne avevano avute ben più di una, sia il grande favore per la destra che contro il ddl Zan si è scagliata perché si sente limitata in quelle che evidentemente considera sue libertà. Difficile dimenticare che poco tempo fa lo stesso cardinal Ruini ha detto che «Giorgia Meloni adesso meritatamente è sulla cresta dell'onda».

Ora c’è da sperare che le istituzioni laiche della Repubblica non si facciano intimidire e che, anzi, portino velocemente in porto l’approvazione di una legge che forse potrebbe ridurre gli schifosi episodi di cronache di aggressioni discriminatorie che ogni giorno appaiono sui nostri giornali.

Auspicando che i giochi di curia non possano aver ragione sulle considerazioni evangeliche di Papa Francesco, ritengo sia inutile sperare che monsignor Gallagher, il cardinale Ruini e tutti coloro che li seguono riescano a capire che nella storica frase «Libera Chiesa in libero Stato», coniata dal conte di Montalembert e poi pronunciata più volte da Cavour e legata alla fine del potere temporale dei Papi, gli aggettivi “libero” e “libera” vogliano dire esattamente la medesima cosa.

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martedì 1 giugno 2021

Il concetto di festa

Repubblica Domani, 2 giugno, Festa della Repubblica. Ma se il concetto di “festa”, inteso come celebrazione di una data, come quella della nascita, può andar bene per una persona, o per un’organizzazione, è del tutto inadeguato, se non addirittura fuorviante, per una realtà come uno Stato democratico.

Ricordare, infatti, la data del referendum del 1946, quello che vide gli italiani scegliere la forma istituzionale repubblicana e abbandonare quella monarchica è necessario, ma non sufficiente, perché se è vero che quel giorno deve essere ricordato con orgoglio ancor prima che con gioia, è altrettanto incontestabile che di quei sacrifici, di quei sentimenti, di quelle persone che resero possibile l’arrivo della democrazia in Italia ci restano quasi soltanto i ricordi. E spesso sono ormai pallidi e indistinti.

La storia insegna che nessuno ha mai regalato la democrazia. La democrazia è stata sempre prima conquistata e poi difesa. Quando non la si è difesa con l’impegno personale, civile e sociale, è prima appassita e poi morta; o, spesso, è stata sostituita da altre cose che hanno sempre voluto mantenere il medesimo nome, ma ne hanno invariabilmente stravolto la sostanza. La conquista è stata effettuata dai nostri padri. La difesa sarebbe stata compito nostro. E uso il condizionale perché, alla lunga, mi riesce veramente difficile dissentire dalla frase cantata da Giorgio Gaber in “La razza in estinzione”: «La mia generazione ha perso».

A rivedere quello che è successo negli ultimi decenni, non possiamo sfuggire a delle domande che mi sono già fatto, ma che è giusto ripetere fino alla nausea. Come abbiamo fatto a permettere di tradire così tanto quei sacrifici? Come abbiamo fatto a deludere tanti sogni? Come abbiamo fatto a disattendere così tanto quelle speranze? Non ci possono essere scuse, ma la constatazione della sconfitta, fortunatamente non coincide obbligatoriamente con la perdita della speranza. Anzi, può essere la base di partenza per riprendere a salire dopo gli scivoloni e le cadute.

Ricordo che Luciano Canfora, in “La natura del potere” aveva scritto che ogni democrazia – sia essa embrionale, come durante una rivolta popolare, o raffinata come in una repubblica che si è data regole precise – tende a diventare sempre più organizzata, centralizzata e autoritaria; a negare, cioè, le ragioni per cui è sorta. Ed Ekkehart Krippendorff, in “Lo Stato e la guerra”, aveva rincarato la dose negando che uno Stato possa rimanere indenne dalla spinta verso la violenza nei confronti di chi ritiene più deboli.

Verrebbe quasi da pensare che ci si debba trovare di fronte a un obbligato circolo vizioso nel quale ogni liberazione debba essere inevitabilmente seguita da un deterioramento che peggiora sempre di più fino a quando non diventa necessaria un'altra liberazione, quasi sempre traumatica e comunque sempre temporanea.

Verrebbe da pensare così, ma soltanto se si trascura un fatto che balza, invece, agli occhi con tutta evidenza: che il decadimento prende il via quando comincia l’appagamento, quando la democrazia comincia a perdere il punto fondamentale della sua essenza, cioè la voglia del “demos”, del popolo, di esercitare il “kratos”, il potere; quando si comincia a dare tutto per scontato; quando si comincia a credere che i diritti possano essere considerati acquisiti; quando si delega tutto ad altri perché si pensa di aver già fatto quello che si doveva e che tocchi agli altri il compito di andare avanti. Quando davanti alle ingiustizie ci limitiamo a criticarle, ma senza più indignarci veramente e, quindi, reagire.

Per noi la Resistenza per antonomasia è la lotta antifascista su cui sono nate la nostra Repubblica e la nostra Costituzione, ma sappiamo benissimo che nazisti e repubblichini chiamavano i partigiani “Banditen” e che, già prima mandavano al confino, o peggio, coloro che contestavano le loro scelte.

Nel dialogo platonico del "Critone", Socrate preferisce perdere la vita piuttosto che minare l’autorità dello Stato opponendosi clamorosamente, con la fuga, a una legge, pur ritenuta ingiusta. Nell’"Antigone" di Sofocle, la protagonista sostiene con fierezza che non al potere bisogna obbedire, ma alla propria coscienza e va incontro alla pena capitale sostenendo con forza che è giusto disobbedire a una legge sbagliata a costo di perdere la vita. Socrate e Antigone ci portano agli estremi opposti dello spettro di possibilità: obbedienza cieca all’ordine costituito e resistenza inflessibile di coscienza.

Perché, a ben guardare, il dilemma nella resistenza non è, come potrebbe sembrare, tra obbedire e non obbedire. Il vero dilemma etico è tra obbedire e disobbedire. Lo vediamo anche nei nostri giorni; ogni giorno. E resistere, dunque, non è solo possibile, ma in certi casi è doveroso.

Come è doveroso cominciare seguendo lo spirito dell’articolo 21 della nostra Costituzione, al quale a San Daniele sono stati dedicate tre giornate di approfondimento. «Tutti – recita – hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Più che un diritto sarebbe un dovere e sarebbe anche un buon modo per rendere davvero una festa, e non soltanto una celebrazione, il 2 giugno.

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