lunedì 22 marzo 2021

Il peso delle parole

Peso Parole La democrazia è una forma di governo che ha senso soltanto se è frutto di scelte consapevoli; magari non condivisibili da tutti, ma consapevoli. Altrimenti potrebbe andare bene lo stesso l’estrazione a sorte. La dittatura no, sia perché per difendere se stessa inevitabilmente diventa crudele, sia in quanto non prevede mai alcuna alternanza.

E se le scelte devono essere consapevoli, allora appare evidente l’importanza del peso delle parole, sia in fase attiva, quando le si sceglie per dire qualcosa, sia in quella passiva, quando si ascolta e l’importante è capire. Tutti sappiamo che la politica, nella fase della propaganda, è un po’ come la pubblicità, visto che entrambe cercano consensi e non raccontano la realtà, ma illustrano il desiderio. Quindi, soprattutto in un’epoca in cui la tecnologia ha reso sempre più facile che chiunque possa rivolgersi a grandi masse di persone, è importante potenziare sia la capacità di filtro in fase di ricezione, sia la determinazione a mettere sotto i riflettori le furbizie e le bugie; almeno quelle più evidenti.

Questa determinazione, poi, deve diventare ancora più importante in un periodo di grave pericolo per tutti, come quello della pandemia da Covid-19 in cui, al di là delle criminali sciocchezze dei negazionisti e dei no vax, sono condannabili anche dichiarazioni a sensazione, o tentativi di addolcire la pillola. Perché ogni comunicazione non adeguata, o addirittura falsa, non solo modifica la relazione comunicativa fra le persone, ma finisce per modificare addirittura la realtà stessa. Soprattutto quando si comunica in modo asimmetrico, tra professionisti e non esperti.

Tutti ricordano che don Milani diceva: «Un operaio conosce 100 parole, il padrone ne conosce 1.000. Per questo è lui il padrone». Sono passati più di sei decenni da quando è stata pronunciata questa frase e la situazione, pur restando valida nelle sue conclusioni, si è complicata perché, man mano che il livello di istruzione minima è cresciuto, le parole dell’operaio possono essere diventate 300, come si diceva nel titolo di uno spettacolo di Dario Fo e Franca Rame, ma chi detiene il potere ha pensato bene che, per mantenerlo, si doveva ristabilire la forza di questo disequilibrio e che per riuscirci erano possibili svariati sistemi.

Al di là del continuo depotenziamento e impoverimento della scuola in quasi tutti i suoi livelli pubblici, il primo sistema messo in pratica è stato quello di addolcire certe parole. L’esempio tipico è quello dello spazzino diventato “operatore ecologico”: lo scopo non era di certo quello di far star meglio quel lavoratore, ma di fargli credere di stare meglio e, quindi, di disinnescare la sua voglia di protestare e di tentare di cambiare certe situazioni inaccettabili. E, per inciso, comunque oggi le strade sono decisamente meno curate di una volta.

Poi si è giocato sull’etimologia per ingenerare emozioni diverse. “Confine”, per esempio, etimologicamente indica due realtà che hanno in comune la linea che le separa, ma anche che le tiene vicine, in contatto, attraverso una realtà comune, mentre “frontiera” richiama immediatamente il fronteggiarsi, l’avversarsi. E queste due parole non sono mai state usate in maniera indifferente, ma sempre per spingere il sentire verso determinati obbiettivi.

C’è poi il metodo di dare un significato unico a due parole profondamente diverse. Anche qui un esempio: religione e fede. La prima è la somma di una serie di liturgie, di obblighi, di premi e di punizioni che non presuppongono assolutamente la necessità di una fede che, invece, è la fiducia in qualcosa che non può essere toccata con mano, né dimostrata con la forza di un teorema, ma accettata intimamente con l’ineluttabilità di un postulato.

E poi, ancora, l’uso strumentale per inchiodare certe parole a un significato soltanto e, quindi, a indirizzare il pensiero che ne deriva verso la direzione più comoda: pensate alla parola “vulnerabilità” usata per far nascere sentimenti di inadeguatezza, paura e rassegnazione, mentre, nella sua comprensione complessiva, diventa la chiave necessaria per decidersi a trovare la strada per il rafforzamento individuale e sociale.

Ma pensate anche alla frase che in questi tempi abbiamo sentito mille volte, riferita alla paura dei vaccini serpeggiata dopo le polemiche sull’AstraZeneca: «I benefici dei vaccini sono superiori al rischi». Il mio pensiero va subito al professor Marcello Riuscetti, geologo e sismologo, che quando parla di terremoti e ricostruzione, fa sempre grande attenzione nell’uso delle parole “rischio”, “pericolosità”, “danno” e “beneficio”. E, infatti, ora punta subito il dito contro questa affermazione. Il rischio, infatti, è la probabilità di un evento dannoso, come la percentuale di morti attesi a causa del Covid, mentre il beneficio sarebbe la diminuzione di questa percentuale che, ovviamente, mai potrebbe diventare maggiore della prima. Corretto, invece, sarebbe dire che i benefici dei vaccini, in termini di contagi e, quindi, di morti evitate, sono sicuramente superiori ai costi, cioè ai contagi reali e ai morti conseguenti.

Perché camuffare le parole? Semplice: perché a parlare di benefici si fa intravvedere qualcosa di desiderabile; a parlare di morti, si rischia di essere sgradevoli. Eppure bisognerebbe chiedersi anche se usare un linguaggio esatto, pur se più crudo, non potrebbe essere la chiave per far prendere davvero sul serio un pericolo terribile, per dare un’esatta dimensione ai rischi che si corrono prendendo un vaccino e a quelli legati al subire il contagio.

Forse un po’ di realtà in più nelle partole di tutto quest’anno sarebbe riuscita a dissuadere più gente dal tenere comportamenti irresponsabili e capaci di allargare il contagio. E forse oggi potrebbe far capire che probabilmente ci saranno persone che moriranno per non aver avuto un vaccino che mai le avrebbe uccise.

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domenica 7 marzo 2021

Scarponi rossi

Otto marzo. La prima cosa da dire è che la locuzione “Festa della donna” è quantomeno impropria, se non sbagliata: forse si potrà parlare di festa quando il numero dei femminicidi si sarà ridotto tanto da far addirittura dimenticare il senso di questo terribile neologismo. Insomma, oggi da festeggiare non si vede proprio nulla e molto più corretto è parlare di Giornata internazionale dei diritti della donna. Poi, se ci si fermasse a guardare il fermo immagine della realtà odierna anche questa seconda definizione basata sul concetto di "diritti" potrebbe sembrare una presa in giro, ma se lo si guarda in divenire, come il fotogramma di un film che è cominciato più di un secolo fa e che ha ancora davanti molto tempo prima di veder comparire la parola “Fine”, allora se ne capisce bene il significato.

Forse mi sbaglio, ma credo che anche in questo campo il procedere tentando di agire su aspetti molto appariscenti, ma tutto sommato di contorno, sia una soluzione che probabilmente darà i suoi frutti, ma impiegandoci una quantità di tempo molto superiore a quella necessaria che comunque non sarà certamente poco.

È sicuramente utile e talvolta anche necessario parlare di un vocabolario che fa fatica ad allargare anche al femminile molti dei suoi appellativi, soprattutto quelli di prestigio, ed è giusto criticare modi di dire, frasi fatte, luoghi comuni e altre particolarità, ma sono convinto che per aggredire davvero lo stillicidio dei femminicidi, la sostanziale mancata parità di genere in termini di opportunità, di merito, di compenso, sia obbligatorio andare alla radice del problema che, a mio modo di vedere, è purtroppo null’altro che una particolare forma di razzismo.

Se ci pensate, infatti, la base da cui nasce il razzismo è di tipo fisico. Questa volta non si tratta di differenze nel colore della pelle, della conformazione degli zigomi, del taglio degli occhi, nella forma del naso, o nel tipo di capelli, ma di altre diversità, alcune molto evidenti. E quando si è trovata di fronte a differenze evidenti l’umanità ha sempre elaborato la convinzione che fossero “gli altri”, in questo caso “le altre”, a essere inferiori e, quindi a dover essere sottoposti, o sottoposte, in una visione di un mondo che da sempre vede il vivere e il progredire fondato sulla base di scontri, di vittorie e di sconfitte. La dizione “sesso debole”, infatti, vuole sicuramente significare qualcosa che va ben oltre l’eventuale minore potenza muscolare.

Ed è proprio con il concetto di razzismo che meglio si possono spiegare le pretese di proprietà, di diritto di vita e di morte, di schiavitù, di subordinazione, di umiliazione che da sempre infettano una consistente parte dei rapporti tra uomini e donne in questo mondo.

Che la parola razza non abbia significato neppure a livello scientifico è un dato ormai assodato, ma non per questo sono finiti i razzismi. E che questo sia vero anche nei rapporti tra i sessi non ha minimamente significato la fine del sessismo. Mi sembra quindi fondamentale che si cominci ad aggredire il problema mirando direttamente al suo cuore e non soltanto limitandosi a eliminare certe pur importanti storture superficiali. Del resto, come scrisse James Baldwin nel suo “Nessuno sa il mio nome”, «Esiste un unico miglioramento possibile per un ghetto: eliminarlo». Per capirci, nell’America di Lincoln, ma anche in molti altri luoghi più vicini a noi nel tempo e nello spazio, il problema non era certamente quello di rendere più accoglienti i dormitori degli schiavi, ma quello di eliminare la schiavitù alla radice.

È stata in quest’ottica che era nata un’iniziativa che poi purtroppo è stata cancellata per i problemi legati al Covid e rinviata a data da destinarsi: avrebbe voluto mettere in evidenza il fatto che la lotta per l’emancipazione femminile non può e non deve riguardare soltanto le donne, ma tutta l’unica razza esistente, quella umana, e, quindi, in prima persona anche i maschi. “Uomini in scarpe rosse” era il motto sotto il quale era stata pensata la manifestazione per significare che i responsabili di questa situazione sono proprio i maschi e che le scarpe rosse con cui si vogliono mettere in evidenza, per non farle dimenticare, le vittime dei femminicidi, almeno idealmente dovrebbero essere calzate anche dagli uomini. Partito dalle piazze di Torino e di Biella il movimento avrebbe dovuto manifestarsi anche da noi, ma se il Covid può bloccare una manifestazione non potrà certo impedire che l’idea si faccia strada nelle menti non ottenebrate dal razzismo sessista.

Forse per gli uomini sarebbe il caso di usare lo slogan “Scarponi rossi” perché troppo spesso l’incedere maschile ha assunto quel tono cupo e cadenzato proprio delle marce militari. E quegli scarponi metaforici sarebbe proprio il caso di lasciarli marcire in qualche piazza sotto le intemperie.

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venerdì 5 marzo 2021

Il ritorno a quel bivio

 ZingarettiNon ci sono dubbi: le dimissioni di Zingaretti da segretario del PD sorprendono. Ma non perché le abbia date, ma in quanto è riuscito a resistere così a lungo sotto il fuoco incrociato dei cosiddetti “compagni” di partito e anche per l’inconsueta chiarezza con cui ha motivato la sua decisione: «Mi vergogno che nel PD da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid. C’è il problema – ha detto – del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni». C’è anche il problema – aggiungo io – di coloro che si sentono di sinistra e che vedono sempre più lontana la possibilità di votare per un simbolo che davvero li rappresenti e che contemporaneamente abbia la forza, o almeno la possibilità, di tentare di trasformare i sogni in realtà.

Ma del PD parlerò tra qualche riga perché il primo messaggio che deriva da questa vicenda riguarda il sistema di voto e l’assurdità che in un Paese come l’Italia si possa parlare di sistema maggioritario da adottare al posto del proporzionale cercando quel bipolarismo nel nome del quale, nel discorso del 2007 al Lingotto di Torino, Veltroni sventolò l’esca della “vocazione maggioritaria” del partito. Il fatto è che il sistema maggioritario funziona se ad affrontarsi ci sono soltanto due anime sociali e, comunque, tende a impedire la nascita di altre posizioni. Se le anime sono di più il maggioritario diventa una iattura.

La storia del PD è esemplare: nato per mettere insieme quelle che una volta erano orgogliosamente le anime comuniste e democristiane, è diventato soltanto il posto in cui si è abbassato di livello il confronto, per molti versi difficilmente conciliabile, tra queste due anime. Una volta lo scontro si consumava nelle aule del Parlamento, mentre adesso si infiamma già nelle stanze del partito e i risultati si vedono: al di là della reciproca e insanabile diffidenza tra i due filoni politici principali, gli ex democristiani hanno continuato a tenere in vita la loro tradizionale competizione tra correnti, ma hanno finito per contagiare anche gli ex comunisti che, come una volta, vivono ancora le loro divisioni interne, ma non sanno più, alla fine delle discussioni, accettare che vinca la linea scelta dalla maggioranza.

Così finisce che, mentre il compromesso raggiunto a livello di discussione governativa e parlamentare, può diventare per tutti “un passo in avanti”, a livello inferiore – di vita di partito – si trasforma in un’insopportabile sconfitta da parte di coloro che con i vincenti devono ancora convivere e la conseguenza è che la maggior parte delle forze è impiegata per rovesciare questa situazione. Il proporzionale, insomma, non sparisce mai perché in una democrazia le opinioni personali non possono sparire, ma semplicemente lo si abbassa di livello e lo si colloca dove riesce a fare la quantità maggiore di danni, a meno che non ci si trovi a destra dove il capo ha sempre ragione, o in formazioni come quella dei 5stelle nelle quali chi dissente dal capo del momento viene semplicemente espulso.

Con il proporzionale i governi cadevano troppo spesso? Vero. Ma si guardi a come è cresciuta l’Italia, in ogni senso, con governi che cadevano e a come si è sgretolata con i governi, da Berlusconi in poi, teoricamente capaci di durare.

E veniamo al PD che innegabilmente si porta ancora dietro i nefasti esiti dell’infezione renziana. Negli attacchi a Zingaretti, infatti, a distinguersi sono stati soprattutto gli ex compagni di strada del pagatissimo amico dei sauditi. Ma non è questo il punto importante perché ogni virus riesce a fare molto più male se il corpo in cui si attacca è già debole di suo. E il PD è debolissimo in quanto praticamente sprovvisto di quegli anticorpi che si chiamano ideali e che sono talmente forti e totalizzanti da accendere quel fuoco che non soltanto è capace di illuminare speranze lontanissime, ma può anche incenerire ogni tentazione di trasformare il significato della parola “politica” dall’arte di cercare il bene della polis, al mestiere di rincorrere i vantaggi per se stessi a danno dei “polli” che si rassegnano e, magari, non votano nemmeno più.

Detto così potrebbe sembrare che il problema sia soltanto quello di riuscire a recuperare gli astenuti e gli indecisi che ormai sono molto più della metà degli aventi diritto al voto, ma intanto molti di coloro che non votano più a sinistra non lo potranno più fare perché purtroppo non ci sono proprio più per ragioni anagrafiche. Ma soprattutto manca la ragione per votare a sinistra perché manca proprio il fuoco degli ideali che in ogni epoca della storia umana sono stati gli unici motori del progresso sociale che è il progresso di tutti e non soltanto di pochi.

Perché indecisi o astenuti dovrebbero votare per un partito incapace di prendere posizioni ferme e decise su temi come il lavoro, il diritto alla salute, quelli alla dignità, all’istruzione e alla cultura, la parità di genere, la difesa delle minoranze, dei migranti, delle conquiste laiche di uno Stato non confessionale? Tutte cose, tra l’altro, ben esplicitate nella nostra Costituzione. Di tutto questo ogni tanto si sente parlare con un momentaneo calore che, però, serve solo a procurare un po’ di visibilità perché subito dopo l’argomento torna in archivio.

Il fatto è che quando si sbaglia strada e si finisce in un vicolo cieco, l’unico modo per uscirne è tornare al bivio in cui la scelta è stata sbagliata e cambiarla; a quel bivio in cui, in nome di una teorica unità si è deciso di rinunciare a molti dei propri ideali.

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