venerdì 31 dicembre 2021

Auguri in positivo

2022 Spesso mi sono chiesto come sarebbe diverso il mondo – e probabilmente migliore – se sulle tavole della legge portate a valle da Mosè sul Sinai, i comandamenti fossero stati scritti in forma positiva e non negativa. Tanto per capirci, provate a pensare alla differenza di impegno etico tra il «Non uccidere» e un ipotetico «Difendi la vita di tutti».

Forse è anche per la delusione che nasce dal vedere come si è evoluto un mondo ricco di divieti e poverissimo di esortazioni, che siamo abituati a esprimere in forma positiva i nostri desideri per i regali e, in genere, per il futuro. Ed è sempre per questo che ci sentiamo a disagio in questi giorni, quando ci rendiamo conto che buona parte dei desideri per il prossimo anno sono formulati dalla nostra mente in forma negativa.

Riguardo al Covid, per esempio, troppo spesso ci limitiamo ad augurarci che il virus non dilaghi e scompaia quasi per un miracolo che non dipende da noi, ma da un’eventuale opera sovrannaturale. E, invece, dovremmo augurare e augurarci che la scienza continui a proseguire con successo nel suo lavoro e che i no vax riprendano non soltanto l’uso del proprio cervello, ma anche quello della coscienza per comprendere che è proprio per causa loro che molte persone sono state infettate e sono morte.

Sempre legata al Covid è la situazione economica per la quale ci limitiamo ad augurarci che stipendi, pensioni e guadagni di industria, commercio e servizi continuino ad arrivare, che le tariffe dell’energia fermino la loro crescita e che le differenze economiche e sociali tra gli esseri umani finiscano di crescere in maniera esponenziale. Invece sarebbe auspicabile che si cominciasse a valutare seriamente di cambiare un sistema economico che non può più resistere in un mondo in cui il consumismo vuole continuare a consumare ciò che è ormai quasi esaurito; in cui sta scomparendo quel lavoro che, oltre a essere la base della dignità di ognuno, è anche l’unica fonte da cui arriva quel denaro necessario per sopravvivere; nel quale il guadagno appare talmente importante da aver riesumato, di fatto, quella schiavitù nella quale la vita di un servo era da curare meno del proprio portafogli.

E, a proposito di «Non uccidere», diventa incomprensibile l’augurio che il numero dei femminicidi possa calare, se non è accompagnato dall’impegno a cambiare culturalmente una mentalità di possesso e dominio che nelle violenze contro le donne e i lavoratori trova la punta dell’iceberg, ma che ha un corpaccione nascosto che infetta tantissime altre situazioni umane e sociali.

Infine, per concludere senza farla troppo lunga, la maggior parte degli italiani – forse non dei parlamentari e dei grandi elettori, ma degli italiani, sì – si augura che Berlusconi non venga eletto presidente della Repubblica per non doversi vergognare di nuovo di essere cittadini di un Paese del quale, in condizioni normali, si dovrebbe essere, invece, orgogliosi. Ebbene, pensiamola in positivo e auguriamoci che il prossimo capo dello Stato sia una persona onesta, eticamente sensibile e rispettosa di quella Costituzione che è chiamato a difendere. È evidente che già inizialmente il nome di Berlusconi – e anche quello di qualche altro figuro – non potrebbe rientrare tra i papabili.

Insomma, tanti auguri a tutti per un positivo 2022. Ne abbiamo davvero bisogno.

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giovedì 23 dicembre 2021

Il concetto di privacy

Jansa Il presidente del Consiglio della Slovenia, Janez Janša (nella foto), è stato messo sotto inchiesta dal Garante della Privacy di quel Paese. Il fatto contestato è quello di aver spedito a tutti i maggiorenni della nazione una lettera in cui ringrazia chi si è già vaccinato contro il Covid, mentre chiede a tutti coloro che non lo hanno ancora fatto di ripensare al loro rifiuto. L’accusa è quella di aver fruito illegalmente dei dati dell’anagrafe centrale.

A prima vista si è in dubbio tra l’ipotesi che il Garante della privacy slovena sia un no-vax in posizione dominante e quella che si tratti soltanto di uno degli infiniti casi di burocrazia cieca e inconsapevolmente ridicola che evidentemente non accadono solamente in Italia.

Poi si è colti dal sospetto – subito confutato dalle testimonianze d’oltre confine – che in Slovenia il Garante sia talmente bravo ed efficiente da impedire che, come invece accade in Italia, la privacy sia violata ogni giorno, più volte al giorno, a ogni ora del giorno e della notte da telefonate, o da e-mail pubblicitarie e/o truffaldine che raggiungono telefonini di cui il numero dovrebbe essere a conoscenza soltanto del titolare e di coloro ai quali lui stesso decide di farlo conoscere, o indirizzi di posta elettronica che teoricamente sarebbero riservati, mentre sono aggrediti quotidianamente da decine, se non centinaia, di messaggi che soltanto in parte si riesce a deviare nell’immondezzaio delle spam, perché basta cambiare l’indirizzo del mittente e noi diventiamo nuovamente indifesi.

Ridicolo è poi il sistema con il quale nei siti più seri (come quelli degli organi di informazione) teoricamente si possono rifiutare le intrusioni pubblicitarie. Avete presente quella frase che appare spesso, senza mai essere richiesta, sugli schermi di telefonini, tablet e computer e che ha come titolo “Abbiamo a cuore la tua privacy”? «Noi – più o meno recita così – e i nostri partner archiviamo e/o accediamo alle informazioni su un dispositivo (come i cookie) e trattiamo i dati personali (come gli identificatori univoci e altri dati del dispositivo) per annunci e contenuti personalizzati, misurazione di annunci e contenuti, approfondimenti sul pubblico e sviluppo del prodotto. Con il tuo consenso, noi e i nostri partner possiamo utilizzare dati di geolocalizzazione e identificazione precisi attraverso la scansione del dispositivo». E poi ti domandano di accettare e andare avanti, o di rifiutare di dare in pasto il tuo indirizzo all’intero mondo, anche ai truffatori.

Se non accetti, nella maggior parte dei casi devi rispondete “No” a decine di domande diverse. Ma non basta: perché, mentre se accetti il tuo assenso non sarà mai più messo in dubbio, in caso di rifiuto la medesima richiesta tornerà ad apparire sul tuo video a intervalli irregolari di qualche giorno e dovrai rifare ogni volta tutta la trafila.

Chi permette queste cose può davvero essere chiamato “Garante della privacy”, mentre, per esempio, nel nome della difesa dei cosiddetti “dati sensibili”, per lungo tempo non ha consentito di sapere se chi insegnava, o curava, o serviva o cucinava in un locale pubblico era vaccinato contro il Covid, o aveva fatto soltanto il tampone, o magari non aveva fatto proprio nulla?

Anche questi, e non soltanto i comportamenti degli eletti, sono fatti che minano la fiducia nella democrazia, tanto da indurre sempre più gente a rifiutare l’unico rito che ancora vede protagonisti, almeno nella parte del voto, i cittadini: quello delle elezioni.

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mercoledì 15 dicembre 2021

Distrazione di massa

Costituzione 2 Sembra una regola fissa e, anzi, probabilmente lo è: quando l’opinione pubblica è tutta concentrata su qualcos’altro, quello è il momento in cui in Italia qualcuno tenta di stravolgere il quadro istituzionale. E quasi sempre viene tirata in ballo una delle parole più pericolose del nostro vocabolario: la “governabilità”.

In questo momento, mentre tutti sono concentrati sulla recrudescenza del Covid, sui pericoli portati dalla variante omicron e sulle intollerabili polemiche sollevate da no-vax e no-pass, è la Meloni a tentare di approfittare della generale distrazione sui sistemi democratici. Nel nome della governabilità, infatti, ripropone per l’ennesima volta l’elezione diretta del presidente della Repubblica, ma, se lei non fa altro che tentare di portare acqua al suo mulino, a preoccupare è la distratta reazione degli italiani: secondo un sondaggio fatto da Ilvo Diamanti, infatti, ben 74 italiani su 100 – praticamente 1 su 4 – sarebbero d’accordo con lei. E così torna di scottante attualità una vignetta di Altan che, come sempre, sa mettere il dito nelle tante piaghe politiche che ci angustiano: uno dei due protagonisti dice: «La Costituzione è in pericolo!». E l’altro ribatte: «Interveniamo o ci riserviamo il piacere di dire che l’avevamo detto?».

Al di là del fatto che l’Italia ha saputo rinascere dalle ceneri della guerra proprio rifiutando la “governabilità” a nessuno passa neppure lontanamente per la testa che in tal caso la nostra Costituzione andrebbe totalmente stravolta, che Camera e Senato dovrebbero avere compiti profondamente diversi da quelli disegnati per loro dalla Costituzione e che gli altri sistemi presidenzialisti presentano contrappesi istituzionali dei quali da noi non c’è la minima traccia. Tanto per fare un paio di esempi, negli Stati Uniti le Camere hanno caratteristiche, anche elettive, profondamente diverse ed esistono le elezioni di medio termine che possono far coesistere un presidente con una maggioranza contraria, mentre in Francia la convivenza tra un presidente e una maggioranza parlamentare diversa è stata già piuttosto frequente. Qui da noi, secondo il disegno meloniano, che ha molte assonanze con quello renziano di un po’ più di cinque anni fa, il presidenzialismo sarebbe accoppiato a un sistema elettorale maggioritario con premi sparsi: un ottimo sistema per sostituire “governabilità” con “autoritarismo”.

Ancora una volta, insomma, ci troviamo di fronte a un assalto al sistema elettorale proporzionale da parte degli amanti del maggioritario. A impedire questi rigurgiti maggioritari non bastano gli esempi della “legge Acerbo”, né quelli possibili della “legge truffa”, e neppure le simulazioni fatte sulla fortunatamente fallita riforma costituzionale sognata da quel Renzi, vero cavallo di Troia all’interno di un miope PD, che ora si è avvicinato tanto alla destra da sostenere che (chissà poi perché?) oggi Meloni, Salvini e Berlusconi avrebbero il diritto di indicare il nuovo Presidente della Repubblica.

Meno ricordato e conosciuto, ma di grande importanza è il furto, compiuto durante la Costituente, dai maggioritari che già pensavano alla “legge truffa”. In breve: nel progetto costituzionale approntato dalla Commissione dei 75 e presentato all’Aula il 31 gennaio 1947, la materia poi accorpata nell’attuale articolo 75 era suddivisa tra gli articoli 72 e 73. Il 72 dichiarava che non potevano essere materia di referendum le leggi tributarie, le approvazioni dei bilanci e le ratifiche di trattati internazionali. Quando, il 16 ottobre 1947, l’articolo fu discusso in aula, furono escluse anche le leggi di amnistia e indulto e le leggi elettorali. Gli emendamenti furono approvati pur con l’opposizione del presidente del Comitato dei Diciotto, Meuccio Ruini. A questo punto gli articoli 72 e 73 furono accorpati a opera del Comitato dei Diciotto, ma nel testo, riscritto e ripresentato come articolo 75, di “leggi elettorali” non si parlava più.

Come questa manipolazione poté passare inosservata? Semplicemente perché nella seduta pomeridiana del 21 dicembre 1947 furono considerati in blocco gli articoli che avevano subito variazioni anche solo formali perché l’aula si esprimesse su tali modifiche, ma tra gli articoli ritoccati non figurava l’articolo 75, nuovo e non cambiato e, quindi, capziosamente non segnalato tra quelli su cui votare. Quindi Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea, non lo portò al voto perché convinto fosse rimasto invariato. Ruini lo sapeva bene, ma tacque. E, anzi, mentre nel 1953 infuriava la battaglia parlamentare contro la “legge truffa”, si assunse beffardamente il “merito” di quella “svista”.

Insomma, lo scudo contro i rischi democratici che i costituenti avevano lucidamente previsto è stato affossato da una truffa deliberata alla quale poi nessuno ha avuto la forza di porre rimedio.

Si potrebbe obbiettare che quella volta i costituenti avevano ancora vividi i ricordi delle violenze e dei disastri fascisti e che oggi sono passato più di settant’anni da allora, ma a ben guardare i rigurgiti fascisti, nazisti, razzisti e aliofobi del nostro Paese, e le ben gradite alleanze di Fratelli d’Italia e della Lega con i gruppi nostalgici di estrema destra, non si direbbe proprio che il fascismo sia ormai soltanto un ricordo. Ed è anche in quest’ottica che la proposta della Meloni deve essere valutata.

Si dice spesso che il popolo italiano è più avanti dei propri rappresentanti politici e probabilmente è vero. Ma se così è, sarebbe il caso di cominciare subito a ragionare su proposte pericolose che quasi sempre poi fortunatamente vengono bocciate dai referendum. Farlo subito farebbe risparmiare molta fatica e allontanerebbe anche lo spettro che proprio i referendum possano sparire in una futura revisione costituzionale presidenzialista.

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sabato 4 dicembre 2021

La verifica delle fonti

vacciniSilvio Berlusconi, Enrico Mentana, Maria Laura Rodotà, citati in rigoroso ordine di ingresso in campo. Cosa hanno in comune questi tre personaggi? Il fatto di essersi schierati esplicitamente contro i no-vax e i no-pass, ma anche – è non è secondario – di avere riaperto il confronto sulla professione giornalistica.

Berlusconi – che lo fa per puro interesse personale, visto che ancora si illude di poter andare al Quirinale – ha sospeso i programmi Mediaset di Del Debbio e di Giordano che davano amplissimo spazio ai no-vax. Mentana ha affermato: «Mi onoro di non avere mai ospitato nei tg che dirigo alcun esponente dei no vax». Maria Laura Rodotà, giornalista e figlia di Stefano, ha contestato l’iniziativa di organizzare un evento internet no-vax, al quale parteciperanno, tra gli altri, Massimo Cacciari e Carlo Freccero, usando il nome dell’associazione “Generazioni future Rodotà”; e lo ha fatto senza lasciare spazio a dubbi interpretativi: «Mio padre era un meridionale illuminista, si sarebbe stravaccinato; ascoltava cortesemente i pirla, ma non li amava. Mio padre si è occupato dì beni comuni, non di complottismo vaccinale. Sarebbe corretto se smettessero di usare il suo nome».

Venendo al giornalismo, Mentana afferma: «A chi mi dice che così impongo una dittatura informativa, rispondo che adotto la stessa linea rispetto ai negazionisti dell’Olocausto, ai cospirazionisti dell’11 settembre, ai terrapiattisti, a chi non crede allo sbarco sulla Luna e a chiunque sostiene posizioni controfattuali, come lo sono quelle di chi associa i vaccini al 5G o alla sostituzione etnica, al Grande Reset, a Soros e Gates o scempiaggini varie». E continua: «Per me mettere a confronto uno scienziato e uno stregone, sul Covid come su qualsiasi altra materia che riguardi la salute collettiva, non è informazione. È come allestire un faccia a faccia tra chi lotta contro la mafia e chi dice che non esiste, tra chi è per la parità tra uomo e donna e chi è contro, tra chi vuole la democrazia e chi sostiene la dittatura».

Sono perfettamente d’accordo.Professionalità giornalistica, infatti, non significa soltanto saper trovare le notizie e poi tradurle in un brano letterariamente valido e in un titolo accattivante, inseriti in una pagina graficamente gradevole e arricchita da fotografie incisive: potrebbe farlo chiunque, e con pochissimo addestramento. Perché un mestiere diventi professione deve poggiare, invece, su un solido substrato etico. Nel caso del giornalismo, per spiegarmi meglio, il verbo “informare” non può essere disgiunto dal verbo “formare”, mentre deve essere nettamente separato dal “disinformare”. E, per dare contorni più definiti al tema, dico anche che l’obbligo di una moralità, di una deontologia, esiste non perché la professione giornalistica nasca per educare, ma perché, se questa eticità manca, ne consegue, in maniera praticamente automatica, che finisce per diseducare. Lo vedete succedere ogni giorno e il Covid ha messo questa situazione sotto i riflettori.

Chiunque si sia avvicinato al giornalismo, anche soltanto di sfuggita, non può non aver sentito insistite raccomandazioni sul concetto di verifica delle fonti, proprio perché il verbo “informare”, da solo, ha ben poco significato se non è accompagnato dall’avverbio “correttamente”.

E allora, per venire alla situazione attuale, c’è ben poco di corretto nel presentare ai lettori, o agli ascoltatori, mettendoli sullo stesso piano, scienziati e ciarlatani, o lasciare che ognuno dica quello che vuole senza ribattere. Se qualcuno è convinto che fare un’intervista sia soltanto porre domande e appuntare diligentemente qualunque risposta, vuol dire che confonde il giornalista con un registratore. Se qualche collega crede che si possa fare un’intervista su temi delicati senza prima prepararsi e senza studiare l’argomento per poter – se del caso - ribattere, è meglio che cambi mestiere. Se qualcuno teorizza che non si possa né rifiutare di dare spazio a chiunque, né cancellare parti di quello che si sente dire, diventa un pericolo non soltanto per la professione, ma per l’intera società. Qualcuno forse si scandalizza se, quando un intervistato bestemmia, nel testo pubblicato la blasfemia viene tagliata? No di certo. E qualcuno ritiene davvero che si possa bestemmiare soltanto se ci si riferisce a Dio? E che si possa truffare gli altri affermando falsità rese ormai evidenti dalla realtà?

Per capirci, se qualcuno afferma che i vaccini non coprono al 100 per 100 dai rischi di un contagio, ha perfettamente ragione; ma se poi continua non sottolineando che la percentuale di successi è comunque molto alta, che i vaccini sono efficacissimi nell’evitare ospedalizzazioni severe, che in ogni caso non esistono serie strade alternative e che vaccinandosi non si difende soltanto se stessi, ma anche e soprattutto gli altri, i più fragili – bambini, vecchi, o malati che siano – in un’affermazione di appartenenza a una società civile, o è in malafede, o ha un quoziente intellettivo decisamente basso.

Qualcuno dice che tutti hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero? È vero, ma non necessariamente hanno anche il diritto di avere a disposizione la cassa di risonanza dell’informazione. Soprattutto se palesano progetti di morte, perché chi è contro i vaccini, o contro i controlli su chi è vaccinato, si è reso e si rende responsabile di veri e propri omicidi; magari preterintenzionali, ma sempre omicidi. Perché chi combatte contro vaccini e controlli ha favorito e favorisce i contagi; e i morti, solo in Italia, sono ormai ben più di 130 mila. E non ha lo stesso diritto di parola di chi, invece, studia e opera per salvare le vite e non per distruggerle.

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martedì 30 novembre 2021

Rimpianto delle ideologie

Comune Alla fine il sindaco Fontanini, la sua giunta e la sua maggioranza hanno dovuto cancellare dall’articolo 9 dello Statuto comunale la frase da loro proposta «famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» e sostituirla, come proposto dal consigliere Enrico Bertossi, con «famiglia come società naturale comunque costituita».

Potrebbe sembrare una vittoria per la quale esultare, ma non la vedo assolutamente così. A difendere le unioni non ufficializzate dal matrimonio e i figli che ne possono nascere sarebbero comunque bastate la Costituzione con il suo spirito ribadito da una giurisprudenza abbondante e univoca, e una serie di leggi dello Stato che avrebbero resa comunque carta straccia la piazzata fontaniniana. Resta in piedi, invece, l’arroganza di un personaggio che vuole imporre a tutti il proprio pensiero e non si rassegna al fatto che il progresso sociale ha fatto molti passi in avanti dai tempi, dai luoghi e dagli ambienti in cui si è formato e fermato lui.

Se, quindi, appare lodevole lo sforzo fatto da Bertossi per silenziare i rigurgiti della destra andando a ispirarsi alle parole usate da Aldo Moro, resto estremamente perplesso sulla sua motivazione: andare a cercare un «contributo per riunificare – ha detto – il Consiglio comunale». Anzi, alla luce, delle dichiarazioni ulteriormente divisive rilasciate in mattinata da Fontanini che poi, in consiglio, ha preferito starsene zitto, viene naturale chiedersi per quale motivo ci si dovrebbe riunificare con chi la pensa in maniera diametralmente opposta su argomenti di importanza primaria.

Tanto per dirne una, visto che Fontanini e i suoi dicono di essere tanto preoccupati per i bambini, perché vogliono difendere soltanto quelli nati all’interno di un matrimonio canonico e non gli altri? Perché, ammesso e non concesso che il matrimonio possa essere considerato l’unico vincolo di convivenza lecito, la colpa dell’eventuale illiceità dovrebbe essere scaricata proprio sugli elementi più deboli di queste unioni? Come si può trascurare la semplice constatazione del fatto che un diritto che non sia per tutti, in realtà è un privilegio per pochi.

In realtà, forse dovremmo ringraziare Fontanini perché ha fatto notare a molta più gente una cosa già evidente: che quelli che hanno berciato, a lungo e insistentemente, contro le ideologie lo hanno fatto non perché ritengono che senza ideologie il mondo possa diventare migliore, ma soltanto per scardinare le ideologie altrui al fine di lasciare più spazio alle proprie. E, quindi, la conseguenza appare naturale: le ideologie non soltanto non sono da demonizzare, ma, anzi, sono le uniche realtà capaci, con il loro serrato confronto democratico, di farci sperare in un futuro migliore.

Tornando alla “condivisione” di cui parla Bertossi, viene naturale chiedersi perché mai dovrebbe essere auspicabile? Anche perché, vista la natura maggioritaria delle elezioni comunali, le maggioranze hanno la tendenza a sentirsi non soltanto autosufficienti, ma anche infallibili, o almeno onnipotenti. E lasciando pur perdere le considerazioni per me molto negative su questo sistema, viene da chiedersi perché una minoranza dovrebbe accettare, mediazioni, non su leggi o regolamenti, ma su principi che, invece, determinano le differenze tra le parti politiche in causa. Perché, tra l’altro, è assurdo pensare che quando si vota per il comune si stia scegliendo soltanto in un’ottica amministrativa e non politica.

Forse tutto nasce da quella assurda vanteria che è andata tanto di moda per troppi anni e che ancora si sente ripetere: «Io non faccio politica». Assurda perché irrealistica in quanto qualunque azione ognuno di noi compia è inevitabilmente politica in quanto presuppone una scelta, o un disinteresse. E anche il disinteresse – anche se molti preferirebbero non sentirlo dire per non sentirsi responsabili – è un’azione politica, proprio come lo è il silenzio, visto che in entrambi i casi si dà inevitabilmente forza a chi sta apparendo di più.

È proprio in quest’ottica che appare doveroso ridare spazio alle ideologie che non sono certamente infallibili, né a destra, né a sinistra, né al centro, ma che portano con sé principi per i quali ci si sente obbligati a combattere idealmente, perché, se non lo si fa, ci si rende colpevoli del peccato di omissione che è il più grave di tutti in quanto, mentre pensieri, parole e opere possono sfuggire in un momento di sovreccitazione. L’omissione è sicuramente deliberata e spesso può portare a disastri immani per la piccina ricerca di ottenere qualche minuscolo vantaggio, o di evitare qualche sopportabile fastidio.

Pensate forse che questa assurda querelle su uno statuto comunale, senza possibili effetti, se non di tipo propagandistico, avrebbe potuto cominciare e durare così a lungo, se tutti quelli che sono contrari avessero fatto capire immediatamente la loro opposizione e se i partiti, ai quali va dato comunque il merito di aver sollecitato le coscienze dei cittadini udinesi, avessero coinvolto gli stessi cittadini nei tempi debiti, e cioè subito?

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giovedì 4 novembre 2021

L'aspetto delle armi

0 no vax Con tutto il rispetto inevitabilmente dovuto alla carica istituzionale, non posso non dichiararmi in totale disaccordo con il prefetto di Udine, Massimo Marchesiello, che ha respinto la richiesta del sindaco di Udine, Fontanini – con il quale per una volta sono perfettamente d’accordo – di far «evitare che cortei e manifestazioni pubbliche si svolgano in spazi ristretti come le vie del centro, o piazza Libertà». La motivazione del prefetto è che «Udine oggi può contare su una situazione epidemiologica molto diversa da quella di Trieste e le manifestazioni sin qui organizzate non hanno causato problemi legati all’ordine pubblico». Cioè, se interpreto bene la decisione, si potrà chiudere la stalla soltanto quando i buoi, come a Trieste, saranno tranquillamente scappati, lasciando dietro di sé focolai di infezione e, purtroppo, anche morti.

Qui non si tratta assolutamente di minare il dettato costituzionale proibendo di manifestare la propria opinione o il proprio dissenso, bensì di rispettarlo proibendo di portare in piazza armi atte e creare pericolo per tutta la comunità. Mi sto riferendo all’articolo 17 della nostra Carta che recita così: «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza, o di incolumità pubblica».

Il problema che mi impedisce di plaudire al rigetto della richiesta del sindaco, al di là della sottile ma importante differenza tra “luogo aperto al pubblico” e “luogo pubblico”, probabilmente, consiste nell’interpretazione della parola “armi” che evidentemente, secondo il prefetto, può essere applicata soltanto a fucili, pistole, coltelli, o, a essere larghi, a bastoni e tirapugni. Secondo me, e anche secondo la maggior parte dei vocabolari, invece, l’interpretazione del concetto di “arma” è quella di qualsiasi cosa che possa essere atta a causare danni, anche gravi, alle persone. E il virus del Covid 19 ha certamente questa capacità, visto che finora ha tolto la vita a circa 140 mila italiani e ad alcuni milioni di persone nel mondo intero.

Vogliamo negare che una cosa invisibile possa essere considerata un’arma? Difficile perché basterebbe ricordare come nell’antichità molti assedi siano stati risolti scagliando con delle catapulte, o dei trabucchi, dentro le mura degli assediati dei cadaveri di persone uccise dalla peste, o anche soltanto i loro vestiti. E il bacillo della peste, pur decisamente più grande di ogni virus, resta comunque invisibile a occhio nudo.

Vogliamo pensare che a Udine, per un qualche miracolo non potrebbe succedere quello che è accaduto a Trieste con centinaia di nuovi infetti e con la concreta possibilità che la città possa tornare in zona gialla soltanto per causa di quell’esigua minoranza che rifiuta i vaccini e i green pass? Vogliamo pensare che davanti a un divieto a Trieste e a una totale libertà a Udine, ricordando anche che alla fine in piazza erano pochissimi i triestini e moltissimi quelli che arrivavano dal resto d’Italia, Friuli compreso, a nessuno verrà mai in testa di spostare la sede di una molto teorica capitale dei no-vax e no-pass?

Vogliamo pensare che non ci siano problemi legati all’ordine pubblico nel fatto che in queste manifestazioni – anche in quelle già viste a Udine – la gente giri senza mascherina e facendosi un baffo della distanza minima da osservare, pur non essendo queste non semplici raccomandazioni, ma parole esplicite contenute in svariati decreti?

Al di là del rischio di veder ammalarsi e morire altre persone per la follia di alcuni, a mio modo di pensare, c’è anche il rischio di veder ulteriormente aggravarsi le condizioni di salute della nostra democrazia; di mettere ad ancor più serio rischio la sua sopravvivenza, perché in questo periodo si sta rovesciando il concetto stesso dell’etimologia della parola “democrazia” in cui il “cratos”, il potere, è delegato al “demos”, al popolo, con il sistema della maggioranza.

Si potrebbe dire che proibendo le manifestazioni, o semplicemente spostandole in periferia, si favorirebbe la maggioranza del momento e si attenterebbe alla libertà di espressione di alcuni. Ma così non sarebbe perché l’eventuale blocco riguarderebbe qualsiasi tipo di manifestazione e in quanto il blocco non dovrebbe nemmeno avere ragione di esistere, se fossero usate le mascherine e rispettate le distanze.

Libertà di parola e di pensiero assolutamente sì, insomma. Libertà di uccidere inevitabilmente no.

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giovedì 21 ottobre 2021

Abbondanza o carenza?

Honsell In questi giorni l’attenzione generale è stata assorbita dall’assalto alla CGIL di Roma e dai tentati blocchi dei porti, soprattutto di quello di Trieste, da parte di coloro che vengono chiamati no-vax, o no-pass, ma che, in realtà, dovrebbero essere definiti “no-lib” visto che attentano pesantemente ai diritti altrui tra i quali è il primo e quello sottolineato dall’articolo 32 della nostra Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».

Ed è forse per questo che è passato quasi sotto silenzio, tranne che per una lodevole interrogazione del consigliere regionale Furio Honsell, il fatto che la casa editrice Kappavu sia stata depennata dal novero degli editori presenti al Salone del libro di Torino nello stand della Regione Friuli Venezia Giulia.

Perché? È stata la stessa assessora Gibelli a confermare il fatto e a lanciarsi in acrobazie dialettiche per giustificare una decisione inqualificabile e in netto contrasto con il dettato della Costituzione che, nell’articolo 21, afferma: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».

Il tema del contendere è sempre quello rappresentato dalla raccapricciante storia delle foibe e dal tentativo delle destre di usarla come contraltare della Shoah, come se fosse possibile che due negatività si annullino a vicenda, mentre, in realtà, finiscono per assommarsi nel cumulo di disumanità di cui è zeppa la storia. Quello che all’assessora non va giù non è che ci sia un negazionismo che nessuno si sogna di sostenere, ma che si pubblichino lavori di storici che, con documentazioni, come per tutte le altre stragi, cerchino di dare contorni numerici definiti alla realtà e che retrocedano nel tempo per ricordare anche i motivi per i quali molti slavi odiassero i fascisti che altre stragi avevano perpetrato durante l’occupazione di gran parte dell’attuale Slovenia e della Croazia. Solo per ricordare un episodio: il 4 agosto 1942 il generale Mario Robotti ha trasmesso per iscritto, in un fonogramma, a margine di un ordine impartito dal generale Roatta, una sua conclusione: «Si ammazza troppo poco!». Intendiamoci: la vendetta, soprattutto quella cruenta, non è mai lecita, come è assolutamente inaccettabile l’idea di pensare che ogni italiano fosse un fascista, ma questo può far capire come si sia arrivati a simili livelli di odio reciproco e di barbarie.

Nella sua risposta l’assessora curiosamente afferma di essere contro il pensiero unico; quello altrui, naturalmente. E facendo ciò ricorda da vicino, pur se su altri temi, quelli che affermano: «Non sono razzista, ma…». Poi elenca una serie di titoli editi dalla Kappavu dei quali, come lei stessa fa capire, ha letto soltanto le brevi note di presentazione e annovera tra quelli che lei chiama «ladri di verità» vari storici di cui alcuni scrivono anche per il Mulino, una delle case editrici più serie e rispettate a livello internazionale, nel campo della saggistica.

A contraltare quelli che scrivono di storia pone il cantautore (o l’artista, come preferisce chiamarlo lei) Simone Cristicchi, che viene portato a esempio di difensore della verità perché ha avuto molto successo nei suoi spettacoli dedicati all’esodo e, quindi, anche alle foibe. Nessuno mette in dubbio la buona fede con cui Cristicchi ha scritto e portato sul palco “Magazzino 18”, ma se l’unico metro di giudizio per Tiziana Gibelli è dato dal successo di pubblico, immagino che il suo riferimento filosofico attuale sia quello dei pur musicalmente bravissimi e pluripremiati Måneskin.

Da applausi è, poi, la veronica con la quale tenta di annacquare le più che giustificate accuse: dapprima chiama a correo Pordenonelegge che, visto come si è sempre comportato, non posso assolutamente pensare sia complice di una simile censura, e poi se ne esce con dei distinguo davanti ai quali l’Azzeccagarbugli manzoniano appare come un piccolo dilettante: «La Kappavu non è stata esclusa dal Salone del libro di Torino», ma il suo nome non compare nell’elenco degli editori presenti nello stand della Regione». E poi, ancora più virtuosistica: «Non ho impedito loro di partecipare; semplicemente non li ho accettati», e, specificando, «ho impedito loro, non abbiamo consentito di esporre il loro catalogo», cancellando così circa trecento titoli che, tra l’altro, con la storia delle foibe non hanno neppure il più piccolo aggancio.

Davanti a simili atteggiamenti di un’assessora regionale e al terribile silenzio che ha accompagnato questa censura è difficile non tentar di far ricordare a tutti che la ragione dell’ascesa al potere di Mussolini non è stata una sovrabbondanza di fascisti, bensì una drammatica carenza di democratici.

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mercoledì 13 ottobre 2021

Una Costituzione da leggere

Costituzione 2Probabilmente i fatti di Roma hanno finito per far aprire gli occhi a molti sulla realtà fascista di una parte non trascurabile dei cosiddetti movimenti no-vax e no-green pass, ma non sono pochi quelli che continuano imperterriti a recitare le loro formulette dialettiche imparate a memoria nei non pochi siti infarciti di fake-news.

Lasciando perdere coloro che fideisticamente credono a qualunque fantasiosa ipotesi complottistica venga loro fatta passare per reale e quelli che sanno benissimo che quelle fake news sono proprio nient’altro che bufale utili a fini elettoralistici, restano alcune persone che non credono alla scientificità della scienza e altre che si affidano a una lettura parziale e capziosa della nostra Costituzione, che probabilmente è uno dei testi più citati e insieme meno letti al mondo.

A coloro che tirano in ballo la Costituzione, vorrei suggerire la lettura di quel testo in maniera completa e, nello specifico, segnatamente l’articolo 32 che, nel secondo comma, recita: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», ma anche l’articolo 16, che, al primo comma, afferma: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza».

Viste queste due brevi citazioni la prima delle ipotesi possibili fa pensare che i contestatori, al netto delle suggestioni fasciste, non concepiscano il concetto di una legge emanata, in democrazia, per stato di necessità. Quindi questo vuol dire che, o non si considera eccezionale e grave l’accadimento di una pandemia che solo in Italia ha mietuto oltre 130 mila vittime, o non si ha fiducia nella scienza. Eventualità che sono molto lontane dalle mie convinzioni e – ne sono certo – anche dalla realtà.

È in quest’ottica che va inquadrato il fatto che da venerdì l’obbligo del green pass diventerà cogente in tutte le situazioni, anche di lavoro, pubblico o privato che sia, con sanzioni, multe e sospensione dello stipendio per gli inadempienti.

Su questo obbligo si sta assistendo a spettacolari tentativi di equilibrismo logico che non riescono a nascondere una contrarietà concettuale al vaccino. Stante il fatto che l’obbligatorietà – grazie a Dio già esistente per altri vaccini – avrebbe sicuramente precluso la possibilità di opposizioni se non per concreti problemi di salute, le richieste minacciose e spesso violente di una gratuità dei tamponi per chiunque voglia farne uso appare decisamente contraddittoria con il fatto che i vaccini che puntano a combattere la pandemia sono già completamente a carico dello Stato e, quindi della collettività. E questa richiesta appare decisamente ingiusta anche dal punto di vista dell’equità contributiva generale visto che farebbe pagare a tutti gli italiani il rifiuto da parte di alcuni di seguire la strada che invece è quella più sicura e utile per l’intera comunità.

Se poi si rifiuta un controllo tramite green pass, implicitamente si vuol concedere a tutti di andare da qualunque parte sempre e comunque e quindi, in pratica, si finisce per negare anche la validità e la necessità del vaccino. Già sarebbe inaccettabile in via di speculazione filosofica, ma, sapendo che chiunque potrebbe contagiare chiunque altro (e già questo purtroppo è già successo alcune centinaia di migliaia di volte), la cosa è inammissibile anche dal punto di vista pratico oltre che costituzionale.

A tale proposito, per coloro che amano citare la nostra Carta fondamentale senza conoscerla consiglio la lettura dell’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti involabili dell'uomo...», il primo dei quali è quello alla salute e alla vita e quindi alla difesa dalla possibilità di venir contagiato da chi rifiuta, per motivi non fondati, non soltanto di difendere se stessi, ma soprattutto di non mettere in pericolo gli altri.

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domenica 10 ottobre 2021

Il punto di vista

CGILSono sempre più convinto che stiamo guardando le cose da un punto di vista sbagliato. Anche il vergognoso assalto alla sede centrale della CGIL a Roma durante una manifestazione dei no-vax e no-green pass viene interpretata come la manipolazione da parte dei fascisti (non mi sembrano davvero neo-) di una massa di persone che volevano protestare pacificamente per quelli che ritengono essere loro diritti. E, quindi ci si limita a lanciare proclami contro ogni restaurazione dei gruppi politici che si rifanno alla cupa violenza del ventennio dittatoriale italiano, dicendo che mai il fascismo tornerà nel nostro Paese. Il tutto mentre impunemente Meloni e Salvini chiedono a gran voce le dimissioni della Lamorgese, ministra degli Interni.

Per prima cosa, dovrebbero essere gli italiani a chiedere a gran voce a Meloni e Salvini le dimissioni dal loro ruolo di segretari di partiti perché sono proprio loro ad aver allevato, coccolato, ispirato, tentato di sdoganare i vari gruppuscoli violenti che si ispirano al fascismo e al nazismo che, a parte che per il colore delle camicie, proprio tanto diversi non erano. E già qui un primo errore comincia a essere evidente. Abbiamo sempre ritenuto che i due leader si comportassero così per bassi interessi elettorali: ora, con tutte le cose che sono accadute e che stanno accadendo, appare sempre più evidente che il loro comportamento non dipende da pur schifose convenienze, ma che probabilmente deriva da vere e proprie convinzioni sociali e politiche.

Secondo aspetto, ancora più importante: siamo davvero sicuri che ci sia tanto da distinguere tra i fascisti che godono nel trasformare in violenza tutto quello che riescono a toccare e i gruppi di no-vax e no-Green pass che, con il loro comportamento, si mettono nelle condizioni di essere dei potenziali assassini? Perché non ci sono dubbi possibili sul fatto che, se, anche a differenza di molti altri Paesi, siamo riusciti a limitare all’enorme cifra, comunque ancora in crescita, di oltre 130 mila morti il numero delle vittime del Covid, lo dobbiamo esclusivamente ai vaccini e alle forme di limitazione nelle partecipazioni comuni a luoghi e avvenimenti e all’obbligo di praticare certe prevenzioni personali, come l’uso delle mascherine. Ripeto: non ci sono dubbi possibili, almeno se non si è in malafede, o non si è in grado di leggere la realtà.

Non vedo differenze sostanziali tra chi mette a repentaglio la vita altrui con la violenza fisica e chi fa la stessa cosa esponendo a un contagio potenzialmente mortale chiunque incontri. In entrambi i casi si tratta di disprezzo per la vita umana (quella altrui, ben s’intende).

E non si venga a parlare di dittatura sanitaria, o di libertà conculcata. C’è qualcuno che seriamente può pensare che l’esame della patente sia previsto per dimostrare semplicemente di saper usare contemporaneamente volante, freno, acceleratore e frizione e non per assicurare la società che sulle strade possano andare soltanto persone in grado di evitare di trasformare le automobili in potenziali armi mortali nei confronti dei passanti, o di altri automobilisti?

Forse l’errore da cui tutto discende consiste nel fatto che si pensa che sentirsi democratici corrisponda a dover lasciare che ognuno dica e faccia tutto quello che gli passa nella testa. Non è così. Chi può ritenere lecito che si possa incitare alla violenza, o all’omicidio? Chi accetta che la propria proprietà possa essere messa in discussione? Chi andrebbe a bere un caffè in un bar nel quale chi sta dietro il banco è affetto da quella tubercolosi ormai quasi del tutto scomparsa grazie al progredire di quella scienza che i no-vax rifiutano? Eppure non c’è più alcun obbligo, come una volta, di possedere un libretto sanitario che controlli periodicamente le eventuali malattie in atto.

Probabilmente bisognerebbe fare un ripasso non soltanto dell’idea di “delega”, ma anche del significato della parola “libertà” e della sua differenza con il concetto di “arbitrio”. Se non lo si farà, sarà sempre più priva di ostacoli la strada che permetterà non il ritorno del fascismo che, nonostante le parole della Costituzione, è già tornato e ha messo non poche radici, ma del suo rafforzamento che mette in pericolo non soltanto la democrazia, ma la civiltà stessa del nostro Paese.

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mercoledì 6 ottobre 2021

Non solo uno scienziato

Giorgio ParisiQuesta intervista è stata fatta ad me al professor Giorgio Parisi, da ieri premio Nobel per la fisica, il 25 gennaio 2005, qualche giorno prima della consegna del Premio Nonino che ancora una volta è riuscito ad anticipare le scelte della commisssione di Stoccolma.

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– Professor Parisi, per prima cosa complimenti per il premio Nonino alla cui cerimonia di consegna lei, fisico teorico, sarà in compagnia di due letterati di cui una è particolarmente impegnata nel sociale. Dante parlava di «seguir virtute e canoscenza»: forse finalmente le due sfere del sapere riescono a riavvicinarsi?

«Mi sentirò in una compagnia estremamente piacevole e sono molto contento perché questo è un tentativo importante di avvicinare le due sfere della conoscenza».

– Da un certo punto di vista, lo sta già facendo, perché, un po’ come i presocratici, nei tempi in cui fisica e filosofia erano abbastanza unite, lei tenta di indagare la natura soltanto con la forza del pensiero per intuire e costruire realtà possibili. Poi ai calcolatori spetta soltanto il compito di fare una specie di prova del nove. È così?

«Sì, è giustissimo. Ma senza andare indietro nel tempo fino ai presocratici, anche al tempo di Kant ed Hegel la fisica newtoniana aveva influenzato moltissimo il pensiero filosofico».

– E poi come mai questo distacco?

«Perché la scienza è diventata molto specializzata. La quantità di studi necessari per capire i fondamenti di Newton era molto inferiore a quella che serve adesso per comprendere Einstein, o la meccanica quantistica. Inoltre, il tempo che uno ha è limitato ed è difficile trovare persone che lavorino in discipline classiche e abbiano contemporaneamente una solida formazione scientifica».

– Con la sua opera, lei ricorda che la matematica è il tessuto su cui tutti si basa: fisica, chimica, biologia, economia. Eppure la purezza e l’assolutezza della matematica sembra quasi metterla in contrasto con il caos del mondo...

«La matematica da un paio di secoli ha una certa tendenza a diventare più qualitativa. Alla fisica è sempre stata molto vicina, ma se ci si vuole confrontare con le scienze “molli”, quelle che a volte sono al limite tra scienza e conoscenza, l’unica strada è avere descrizioni il più possibile di qualità».

– Lo sforzo, insomma, è quello di tramutare cose apparentemente caotiche in qualcosa di comprensibile lavorando sia in termini di spazio, sia di tempo. Ma nel passato c’è sicuramente stato qualcosa di caotico che ora a noi sembra ordinato e comprensibile grazie ai progressi della scienza...

«È vero. Prendiamo il moto dei pianeti che, riferendosi a un sistema geocentrico, erano quasi incomprensibili. Quando gli antichi osservano con cura il cielo, una delle cose che li faceva impazzire era il fatto che Marte, che normalmente si muove in una direzione, a un certo punto sembra tornare indietro per un po’. Quello che succedeva, e non lo potevano capire, era dovuto al fatto che la Terra va più veloce di Marte e che quando la sorpassa apparentemente Marte va all’indietro; poi torna a muoversi normalmente. Per secoli molte cose sono sembrate incomprensibili, anche nella biologia».

– Quindi il caos è un concetto relativo?

«Direi che il caos è diventato un concetto tecnico; e questo è un fatto che si riesce a controllare perché esiste una definizione precisa e matematica di cos’è un sistema caotico, e di come si misurano gli indici della sua caoticità. Mentre prima di questo concetto non si poteva parlare, ora il caos è una quantità misurabile, definibile, matematicamente studiabile».

– Cercando di stabilire regole ed equilibri dentro sistemi caotici lei, in un certo senso, sembra lavorare anche per confermare l’esistenza del determinismo pensato da Laplace. È un’impresa che, ammesso io ne avessi le capacità, mi farebbe paura perché, se avessi successo, dovrei essere d’accordo con Laplace non soltanto quando dice che Dio diventa superfluo, ma anche quando implicitamente sostiene che non esiste neppure il libero arbitrio. Non la intimorisce l’idea di aprire una porta che potrebbe farle capire che lei quella porta ha dovuto e non voluto aprirla?

«Io non sono assolutamente d’accordo con l’affermazione metodologica di Laplace, perché a noi non serve assolutamente descrivere le scienze utilizzando metodi deterministici. Laplace dice che se fossimo matematici infinitamente abili saremmo in grado di costruire il futuro e ricostruire il passato. Ma non siamo matematici infinitamente abili, né siamo infinitamente precisi per sapere esattamente com’è il presente. Quindi si tratta di un’affermazione di principio del tutto irrilevante nella vita di tutti i giorni e anche nel fare scienza perché la descrizione di un sistema, non appena questo diventa un po’ complicato, deve essere fatta in termini probabilistici».

– Insomma, i concetti di Laplace sono più utili per fare filosofia che per fare scienza...

«Esattamente. Fondamentalmente, dal punto di vista matematico, io sono un probabilista. Tutto il mio lavoro si basa sull’uso, a volte molto sofisticato, delle probabilità perché, per poter fare scienza, quando sono molti i sistemi che interagiscono fra di loro, è assolutamente necessario utilizzare i concetti probabilistici».

– Quindi il libero arbitrio, da questo punto di vista, è salvo?

«Quella del libero arbitrio mi sembra una questione filosofica. Se guardo una persona nel passato non necessariamente vedo la sua libertà, ma solo che ha fatto una determinata cosa. Se era libero o no, chi può dirlo?».

– Può dipendere da molte cose...

«Anche senza parlare di determinismo, noi abbiamo tanti di quei condizionamenti sociali, più o meno inconsci, che il problema del libero arbitrio va visto in altra maniera. Uno è talmente condizionato da dove è nato, dalla propria educazione, dalla storia che vive, dalle esperienze che ha fatto, che, in fondo, di vero libero arbitrio ne rimane relativamente poco. Si potrebbe pensare che serve per utilizzare al massimo le occasioni che uno ha, ma anche questa la volontà è condizionata da tutta una serie di fattori esterni».

– L’anno scorso Marcello Cini, che l’ha preceduta nel Premio Nonino a un maestro italiano, mi aveva ripetuto che secondo lui la scienza non è neutrale. Per non esporla esclusivamente i voleri dei poteri economici e politici deve essere una scienza democratica. O bisogna limitarsi a sperare che le individualità scientifica di spicco abbiamo contemporaneamente anche uno spiccato senso etico e sociale?

«Secondo me è importante dare ai cittadini le capacità di poter capire quello che sta succedendo intorno a loro. Ci sono delle scelte tecnologiche che sono piene di significato politico e se i cittadini non hanno alcuna capacità scientifica, queste decisioni dipendono da interessi particolari. In una democrazia completa è molto importante che i cittadini possano capire cosa accade sopra le loro teste».

– La certezza che la scienza possa postulare un progresso infinito si è ormai sbriciolata. E anche le cosiddette scienze sociali sembrano aver accettato la certezza di non riuscire a progredire indefinitamente e, quindi, di non poter superare certe ingiustizie. Questo deve portare a una specie di pessimistica rassegnazione, o a una costruttiva arrabbiatura?

«Progredire, specialmente dal punto di vista sociale, vuol dire fare dei paragoni fra sistemi diversi che, alla fine, sono incommensurabili. Io spero che la scienza porti non a un progresso infinito, ma a cercare una sempre maggiore comprensione. Poi sul fatto che il progresso della società possa avere dei momenti di stagnazione, o di regresso, questo è certamente possibile».

– Lei dice che la gente deve sapere per poi valutare e decidere. In Italia il sapere scientifico è molto trascurato, forse anche perché manca una vera divulgazione scientifica, genere letterario in coda sia per le vendite, sia probabilmente anche per la qualità rispetto a quella di altri paesi...

«Sicuramente manca la divulgazione scientifica, ma molto dipende anche dal fatto che i programmi dei licei e delle medie sono fatte con i piedi. Vengono presentate una fisica e una matematica completamente astratte, che non servono per capire il mondo che ti sta accanto. Se uno studente di liceo si domanda come funziona un frigorifero, non lo sa ed è portato a credere che tutta la tecnologia sia una cosa lontana, quasi che molte macchine funzionino per virtù magiche».

– In pratica si tratta di programmi che non affascinano, ma addirittura allontanano?

«Non solo non affascinano, ma non danno nemmeno gli strumenti per comprendere quello che abbiamo accanto. Andrea Prova ha scritto un bellissimo libro “Perché accade quel che accade” in cui tenta, con linguaggio abbastanza semplice, di spiegare una serie di fenomeni della vita di tutti i giorni utilizzando concetti fisici. Secondo me la fisica e la matematica al liceo dovrebbero insegnare che il mondo che vediamo è comprendibile e che certe cose, anche se non tutte, hanno spiegazioni semplici, che tutti possono capire».

– Tra i problemi italiani, uno di quelli più sentiti è la mancanza di fondi destinati alla ricerca e, quindi, l’inevitabile fuga di cervelli. E la cosa sta peggiorando...

«La cosa sta certamente peggiorando perché gli investimenti nelle università e nella ricerca non riescono a stare dietro all’inflazione, mentre c’è assoluto bisogno di assumere del personale giovane: anche le persone che lavorano nella ricerca invecchiano di un anno ogni anno e non ci sono giovani che li sostituiscano».

– Anche perché nella ricerca il precariato è difficilmente sostenibile...

«Il fatto è che in Italia la gente rimane precaria fino a 35 anni, o anche di più, e così quelli più brillanti se ne vanno all’estero. In Francia di norma la gente viene assunta fino ai 31-32 anni: ci sono delle disposizioni in proposito. Inoltre la finanziaria 2005 ha bloccato per tre anni le assunzioni negli enti di ricerca».

– Una specie di autocastrazione di Stato?

«È uno stupido condannarsi a regredire perché – dicono – anche se ci sono i soldi non li potete usare. Infatti gli enti di ricerca sono costretti a fare concorsi per scegliere le persone, ma poi non possono assumerle in forma permanente e cercano di dare loro un posto provvisorio in attesa di poterlo tramutare in definitivo. È una follia assoluta. La spesa è la stessa, ma si impedisce di utilizzare i fondi nel modo più razionale».

– Molto spesso gli scienziati si sono tenuti un po’ ai margini della vita sociale vera e propria, anche perché totalmente assorbiti dalle loro ricerche. Adesso sono molti di più quelli che si impegnano nel prendere posizione davanti a certe realtà. Per esempio, moltissimi scienziati, tra cui anche lei, si sono dichiarati contrari alla guerra. Questo cambio di atteggiamento deriva da una maggiore coscienza, o dall’avvertire un maggiore pericolo?

«Forse da tutte e due. Ma più che di maggiore pericolo, parlerei di maggior degrado. Per esempio, prima non accadeva che l’Italia non rispettasse la Costituzione. C’era la guerra del Vietnam, ma non si è mai pensato di mandare italiani in Vietnam. Adesso, invece, sia con governi di sinistra sia con governi di destra, si mandano tranquillamente soldati italiani in zone di guerra. Penso che da questo punto di vista la situazione si sia degradata. Poi le persone che lavorano nel campo scientifico non soltanto hanno probabilmente acquisito una maggiore consapevolezza, ma tendono anche ad avere, per formazione, uno sguardo più obiettivo sulla realtà e generalmente possono parlare a voce alta senza paura di rappresaglie».

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martedì 5 ottobre 2021

Due mondi o due epoche

Elezioni A guardare i risultati delle elezioni a livello nazionale paragonandoli con quelli che sono usciti dalle urne regionali, viene il dubbio che i responsi riguardino due mondi, o due epoche diverse.

In Italia spicca una debacle assoluta della Lega salviniana, la quasi totale scomparsa, tranne che in Calabria, di Forza Italia e una buona affermazione di Fratelli d’Italia che, però, non è assolutamente all’altezza delle aspettative suggerite alla Meloni dai sondaggi.

Nel Friuli Venezia Giulia, invece, c’è stato un largo dominio dei partiti di destra, con una tenuta, ma non certamente una clamorosa riscossa, da parte del PD, con punte a Trieste dove la serietà e l’impegno di Francesco Russo gli ha permesso, pur in forte svantaggio, di arrivare al ballottaggio con Di Piazza, e a San Vito al Tagliamento dove la tradizione di sinistra è evidentemente ancora abbastanza radicata.

Unico tratto in comune tra nazione e regione, la quasi totale scomparsa dei 5stelle che ormai è difficile chiamare grillini visto che il loro inventore, Beppe Grillo, non amando l’odore della sconfitta, si è decisamente allontanato dalla sua creatura.

La domanda, inevitabile per un elettore di centrosinistra nostrano, è: ma cosa abbiamo fatto di male per avere un centrosinistra così debole?

La prima risposta è immediata, evidente e incontrovertibile: la colpa è nostra. Ci siamo limitati ad andare a votare – e nemmeno tutti – quando siamo stati chiamati alle urne e per il resto ci siamo dimenticati di reagire davanti a ogni errore, o a ogni mancanza, o per assoluto disinteresse, o, ancor peggio, per un’errata interpretazione del concetto di delega che in una democrazia rappresentativa è doverosa per demandare alcune scelte ai competenti e agli esperti che teoricamente dovremmo scegliere con il voto, ma che non può assolutamente comprendere anche la delega di responsabilità che non può che essere personale e riferirsi anche alle scelte sbagliate.

La seconda può presupporre l’esistenza di una destra talmente forte da cancellare ogni buona cosa che odori, pur vagamente di sinistra. Questa ipotesi può essere consolatoria e suggestiva, ma in realtà la destra di questa regione e delle sue varie articolazioni territoriali, ha soltanto saputo moderare i deliri sovranisti, no-vax e no-green pass di Salvini e della Meloni. Per il resto ha saputo nascondere, sotto la coperta di un’accettabile gestione dell’emergenza del Covid, un’ulteriore spinta verso la sanità privata anche se la stessa pandemia ha dimostrato ad abundantiam che i danni in termini di vite umane sarebbero stati decisamente minori se la sanità pubblica non fosse stata così ferocemente depredata nei decenni precedenti. Ha poi scaricato sulle leggi salviniane ogni disumanità nei confronti dei migranti e ha saputo nascondere, non soltanto a Udine, sotto spessi manti di asfalto steso a coprire buche di strade e marciapiedi, anche l’assoluta mancanza di progettualità per un futuro capace di proporre miglioramenti sociali, amministrativi e culturali.

La terza risposta è probabilmente quella che più si avvicina alla realtà, o che, almeno, compone la maggior parte del mosaico che rappresenta le scelte regionali: il centrosinistra, con il PD in testa, non ha saputo, o non ha voluto, parlare agli elettori. E non soltanto questa non è la prima volta, ma sembra ormai diventata una deprecabile tradizione.

Questo non accade perché questa parte politica non ha nulla da dire in campo sociale, economico, culturale, legislativo – bene o male Enrico Letta che pure non è un fuoriclasse della comunicazione ha saputo dare molte indicazioni evidentemente ben accettate nel resto d’Italia – ma soprattutto in quanto il partito appare del tutto chiuso in se stesso, sempre deciso a bloccare le liste per non permettere agli elettori di esprimere preferenze reali, capace di discutere anche animatamente, ma soltanto al suo interno, impiegando nelle dispute interne una parte non trascurabile delle proprie energie che invece sarebbero più preziose per combattere gli avversari esterni. E questo fatto riguarda tutti i partiti di sinistra, più impegnati a mettere in rilievo le piccole cose che li dividono che le grandi che li uniscono.

Tutto questo evidentemente non solo non dà buoni frutti, ma tende ad allontanare tutti coloro che pur sarebbero vicini a un centrosinistra che dovrebbe essere capace di unire i principi della sinistra laica con quelli del cristianesimo sociale.

Nel 2022 ci saranno elezioni di non piccola importanza, tra cui quelle comunali di Gorizia e di Monfalcone. Nel 2023 ci saranno quelle regionali e le comunali di Udine. Il centrosinistra di questa regione ha intenzione di reagire velocemente, oppure preferisce rassegnarsi a perdere ancora, ma soprattutto a condannare alla sconfitta i suoi possibili elettori?

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domenica 3 ottobre 2021

Veniali e mortali

Mimmo LucanoLa frase tipica con cui si tenta di darsi un contegno di equanimità davanti a un giudizio che non si condivide è: «Ovviamente attendo di leggere il dispositivo della sentenza, ma…», come se questa frase concedesse un lasciapassare assoluto a qualsiasi critica non soltanto al giudizio, ma anche ai giudici che lo hanno emesso. Ecco: davanti alla sentenza di primo grado che ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e due mesi di carcere, quasi raddoppiando le richieste del pubblico ministero, questa frase mi sembra del tutto inutile e non soltanto perché per chi non ha fatto studi giuridici spesso i dispositivi delle sentenze hanno un grado di comprensibilità simile a quello di un antico documento in sanscrito, ma soprattutto in quanto ci sono alcuni elementi di critica che mi sembrano oggettivi e incontestabili.

Ovviamente non mi riferisco a una possibile lettura politica della sentenza perché una simile critica sarebbe esposta a una controcritica uguale e contraria e, in quanto, insieme con l’altrettanto trita accusa di “giustizia a orologeria”, l’ho sempre ritenuta del tutto inutile, se non a contribuire a far crollare la fiducia nel sistema giudiziario delle democrazie, con gli inevitabili corollari che buona parte della popolazione finirebbe per auspicare l’avvento di una cosiddetta “giustizia” in cui le sentenze seguono sempre i voleri del capo al potere e la nascita di realtà sul tipo dei Lager o dei Gulag, o all’altrettanto improbabile “giustizia” basata su sondaggi di opinioni eseguiti tra gente che sa poco, o nulla dei fatti, e che portano a realtà simili ai linciaggi, fisici o morali che siano.

Le mie critiche si appuntano su due realtà. La prima riguarda il fatto sostanziale che probabilmente nulla sarebbe mai successo se non fossero stati in vigore dei dispositivi di legge sull’immigrazione clandestina voluti da Salvini, Meloni e loro seguaci, non per limitare i clandestini, ma per combattere l’immigrazione tout court. Non ci fossero state queste leggi disumane che addirittura volevano punire chi salvava una vita dall’annegamento, nulla sarebbe successo. Intanto perché tutto il procedimento contro l’allora sindaco di Riace nasce proprio da quelle leggi, anche se poi proprio da quelle accuse è stato assolto perché «il fatto non sussiste», mentre per altre è stato inevitabilmente condannato. E poi perché molto probabilmente, se non ci fossero state quelle leggi criminali, Mimmo Lucano non avrebbe sentito la necessità etica di infrangere quelle e altre leggi di tipo amministrativo per tentare di salvare alcune vite, non dalla morte per annegamento, ma dall’abbandono a una vita fatta di stenti, emarginazione e, con buone probabilità, destinata ad andare a ingrossare la malavita; in forma attiva, da delinquenti, o passiva, da schiavi.

La seconda realtà riguarda il fatto che – sembra incredibile – nella cattolicissima Italia si sia persa la capacità di distinguere tra il concetto di “peccato mortale” e di “peccato veniale”, che, per chi ci crede, può comportare la non piccola diversità di destinazione tra l’inferno e il purgatorio. Che Mimmo Lucano abbia infranto leggi amministrative e regolamenti burocratici falsificando alcuni atti e documenti non lo nega nessuno, come è inevitabile la critica che la disobbedienza civile deve essere accompagnata – anche se per un sindaco può essere molto più difficile che per un parlamentare, o anche per un privato cittadino – dalla dichiarazione palese che questo atteggiamento di protesta esiste proprio per opporsi a una legge ritenuta ingiusta. Ma francamente appaiono incomprensibili i 13 anni e due mesi comminati per una serie di reati amministrativi, oltretutto senza che nelle tasche del condannato sia rimasto impigliato neppure un centesimo, mentre per una tentata strage ne sono stati inflitti 12 e per altri omicidi realizzati le pene siano scese addirittura a 5 anni, o anche meno.

Quelli che sono felici che Mimmo Lucano sia stato condannato affermano che così deve essere perché le “tariffe” della giustizia sono quelle, ma dimenticano che proprio nella quantificazione delle pene i giudici possono esprimere al massimo la loro discrezionalità e se non lo fanno dimostrano quantomeno di aver perduto, appunto, la cognizione dei significati di “veniale” e “mortale” e finiscono per far ricordare una frase di François Mauriac che scrisse: «Quel che v’è di più orrendo al mondo è la giustizia separata dalla carità».

Se l’applicazione delle pene dovesse essere sempre rigida i giudici potrebbero essere sostituiti da dei computer. A qualcuno potrebbe sembrare una cosa auspicabile perché potrebbe garantire una costanza nel metro di giudizio, ma vorrei ricordare che ogni computer deve essere programmato e in quel caso saremmo in balia del programmatore.

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sabato 4 settembre 2021

I limiti della delega

piazza È un libretto piccolissimo, ma non può non attirare l’attenzione perché l’unione del nome dell’autore con il titolo del volumetto edito da Garzanti appare come l’esemplificazione del concetto di ossimoro. Sopra il titolo “Ribellatevi!”, infatti, campeggia il nome del Dalai Lama colui che universalmente è indicato come l’esempio del pacifismo. E allora non può non venire in mente che ribellione e pacifismo non sono assolutamente termini antitetici.

Tra l’altro è un titolo che non può non far tornare in mente quel piccolo pamphlet liberatorio e corrosivo “Indignatevi!”, scritto nel 1998 da Stéphane Hessel, partigiano, allora novantatreenne ancora combattivo, al quale poco dopo Pietro Ingrao aveva risposto con un altro piccolo saggio: “Indignarsi non basta!”. Ingrao non aveva torto, ma già l’indignazione sarebbe stata – e a maggior ragione sarebbe oggi – un grande successo sociale.

Pensateci: negli anni Sessanta e Settanta l’indignazione era generale e palpabile, si inalava con ogni respiro, dava corpo a idee e a fatti. Poi, pian piano, tutto si è illanguidito, tranne certi estremismi sanguinari che mai avrebbero dovuto apparire. Poi, con l’arrivo del reaganismo, del thatcherismo, del berlusconismo, l’indignazione è apparsa come un vocabolo desueto. Tanto che il successo di Hessel ha colto quasi tutti di sorpresa, anche se non avrebbe dovuto sorprendere nessuno in quanto era come vedersi offrire a prezzi bassissimi un raro oggetto di antiquariato, davvero autentico: chi avrebbe rinunciato a quell’occasione? Inoltre buona parte degli acquirenti erano proprio quelli che avevano smesso da tempo di entrare in quei negozi di riferimenti etici e sociali che sono i seggi elettorali dove non trovavano più alcun simbolo che indicasse il proprio valore di riferimento.

A leggere oggi il libretto del Dalai Lama non si può non pensare che anche oggi i motivi per scende in piazza a protestare, a indignarsi, a ribellarsi sarebbero moltissimi: dalle discriminazioni razziali che oggi non hanno alcuna legge a sostenerle, eppure sono ancora fortissime, alla distruzione del valore del lavoro sostituito dall’idolatria della finanza e dell’arricchimento; dalla rinuncia a regolamentare seriamente settori strategicamente sensibili come la comunicazione e l’informazione, alla noncuranza con la quale si accetta che una parte sempre maggiore della società sia emarginata, se non addirittura esclusa, sia per censo, sia per questioni legate al sesso, o alla religione. Non si manifesta praticamente più nemmeno davanti ai tentativi di distruzione di importanti principi costituzionali.

Eppure a scendere nelle piazze sono soltanto i no-vax e i no-pass, proprio coloro che non ne avrebbero diritto perché le manifestazioni sono accettabili, se non addirittura auspicabili, quando postulano un impegno per il bene comune; non quando si sbandierano termini sacri come “libertà” per difendere i propri egoismi a scapito degli altri.

La domanda è inevitabile: questa inazione, questa timidezza nell’agire deriva da rassegnazione, insensibilità, individualismo egoista e miope? Oppure – ed è la cosa che più mi fa paura perché mette in crisi il concetto stesso di democrazia – si tratta un eccesso di abitudine alla delega?

Il quesito è drammatico perché la democrazia rappresentativa è insostituibile visto che quella diretta, basata sul supporto informatico, non ha il minimo senso in quanto la democrazia non si nutre soltanto di voti, ma prima di tutto è confrontarsi, parlare, discutere, mettere a paragone idee diverse, trovare mediazioni che possano risolvere i problemi della maggior parte della popolazione possibile. La democrazia, poi, vive per mettere a confronto idee e ideologie, non personaggi e leader.

La democrazia rappresentativa si regge sulla delega, ma il problema è che non molti si rendono conto che il concetto di delega può riguardare l’ambito decisionale, ma non quello della responsabilità: se sbagliano quelli che abbiamo delegato, siamo noi i responsabili perché abbiamo sbagliato a sceglierli e, quindi, dobbiamo intervenire al più presto. Anche scendendo in strada, o in piazza. Anche tornando a parlare un po’ più di politica e un po’ meno di calcio e di gossip. Anche lasciando perdere gli slogan e illustrando concetti che richiedono più di pochi secondi per poter essere compresi.

Anche per questo non amo la cosiddetta “governabilità” e il maggioritario che elargisce deleghe a lungo termine che devono vivere con pochi controlli e che hanno come caratteristica voluta proprio quella di non cambiare, anche se la scelta, a mandato ancora ben lontano dalla fine, si rivela drammaticamente sbagliata.

Adesso, dopo una lunga interruzione riprendono i periodi elettorali, sia a livello amministrativo, sia a livello politico. Per risvegliare un po’ di speranza ci sarebbe bisogno di persone che dicano davvero quello che pensano non soltanto nelle aule dove si riuniscono gli eletti e nelle stanze dei raggruppamenti politici, ma anche e soprattutto, faccia a faccia, in luoghi che non siano lo schermo di un computer, o di un telefonino. E, soprattutto, di persone disposte nuovamente a indignarsi, a ribellarsi e magari a scendere in piazza. I motivi e le occasioni non mancano anche perché la gestione della nostra coscienza non possiamo continuare a delegarla ad altri.

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sabato 31 luglio 2021

La parola che manca

CovidQuesto “Eppure…” sarà sicuramente definito “divisivo”, ma la cosa non mi infastidisce perché, anzi, tendo a considerarla come un complimento. È ben vero, infatti, che le cose che dividono fanno individuare gli avversari, ma, contemporaneamente, anche coloro che ci sono vicini, che condividono i nostri valori e ideali, le esigenze e gli obbiettivi. E, del resto, è l’unire più che il dividere a creare le partizioni, a indurre a prendere parte, a diventare partigiani, aderendo a quei partiti che tanti oggi vituperano, ma che sono le organizzazioni politiche che hanno permesso il pur incostante progresso della società e che ora sono in netta crisi davanti a un mare di indeterminatezze nei valori e di personalismi che vivono e prosperano proprio grazie all’eclisse delle cosiddette ideologie che, tra l’altro, non necessariamente erano estremistiche.

Comunque, durante il primo lock-down questo blog ha ospitato per 52 giorni consecutivi “Le parole del virus” con dei testi che poi, assieme ad alcuni saggi del professor Ugo Morelli, sono andati a formare il libro “Virus. Il grande esperimento”, sottotitolato “Noi umani al cambio di un’epoca”, edito da KappaVu. Ebbene, in ogni presentazione, in rete o in presenza, c’è stata sempre una domanda: «C’è qualche parola che rimpiange di non aver inserito nell’elenco?». La risposta, invariabilmente, è stata sempre la stessa: «Sì. La parola che vorrei aver inserito è “omicidio”». E sempre c’è stato qualcuno che ha trovato esagerato pensare a questa parola legandola ai nostri comportamenti in tempo di pandemia.

Oggi, mentre la variante Delta fa aumentare nuovamente contagi, ricoveri, terapie intensive e morti, assistiamo a ripetute e deliranti manifestazioni no-vax e a non infrequenti sconfinamenti nell’intolleranza; sentiamo qualche plagiato che straparla di «dittatura sanitaria» e addirittura azzarda paragoni blasfemi con quello che è successo ad Auschwitz, perché gli si dice di usare la mascherina se è a contatto con altre persone; le cronache raccontano che addirittura molti accampano un teorico diritto di rifiutare un tampone che, se positivo, potrebbe rovinare loro le vacanze; e intanto Salvini, Meloni e altri incoscienti, si oppongono all’obbligo del green pass per poter accedere a luoghi chiusi in cui c’è molta gente, con la segretaria di Fratelli d’Italia che addirittura dice che «l’obbligo dell’uso del green pass nuocerebbe al turismo» lasciando capire che per lei la vita di una persona è decisamente meno importante del pur fondamentale settore turistico.

Perché di questo si tratta. E sarebbe ora di dirlo con chiarezza, anche e soprattutto a livello politico: chi contagia gli altri perché non ha ottemperato alle disposizioni sanitarie, o non ha voluto usare di strumenti di protezione attiva e passiva a disposizione in quel momento, si rende responsabile di mettere a repentaglio la vita altrui; purtroppo in molti casi degli oltre 125 mila totali, di aver causato la morte di altri esseri umani.
Poi è evidente che non si tratta di omicidio premeditato e – spero – neppure preterintenzionale, ma colposo sicuramente sì. Anzi, lo paragonerei all’omicidio stradale che prende corpo se uccidi qualcuno non rispettando le regole del comportamento comune che, in quel caso, è rappresentato dal Codice della strada.

Ed è altrettanto chiaro che nei primi mesi del 2020 ben pochi sapevano cosa stesse succedendo, che i vaccini non esistevano ancora e che sono stati tantissimi quelli che, pur in assoluta buona fede, hanno finito per essere veicoli involontari dell’infezione da Cvid-19. Ma tutto questo non vale per chi non accetta di vaccinarsi, per chi rifiuta l’uso della mascherina, per chi schiva i tamponi e le quarantene, per chi pensa di guadagnare qualche voto opponendosi all’uso del green pass e richiamandosi alla parola “libertà” che, invece, è soltanto arbitrario egoismo, perché la propria libertà è tale soltanto se non va a tarpare la libertà altrui tra le quali quella di vivere è la più importante.

È vero: non ci sono leggi che regolamentino la diffusione delle pandemie, se non in caso – e questo non lo è – di deliberato dolo e comunque sarebbe sicuramente difficile provare legalmente il passaggio del virus da un vettore all’altro, ma vi domando: se voi sapeste che, per leggerezza o comodità, avete portato l’infezione in una casa di riposo, o in un altro tipo di comunità, provocando la morte di decine di persone, vi sentireste a posto soltanto perché la legge non può raggiungervi, oppure sareste schiacciati dal rimorso?

È una domanda semplice, ma importantissima perché, almeno per me, il tipo di risposta è il discrimine per capire se chi risponde è un essere umano, o ne ha soltanto le sembianze.

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venerdì 2 luglio 2021

La neutralità non esiste

Quando sentite qualcuno dire «Non faccio politica; non sono né di destra, né di sinistra», dovete stare attenti: o sta cercando di fregarvi, o vi ha già fregato, oppure è un “minus habens” che non sa quello che sta dicendo. La neutralità non esiste, o, dovesse esistere, sarebbe da condannare con decisione.

Il concetto della truffa è stato ben condensato nella pubblicità che ha accompagnato la nascita, ben più di mezzo secolo fa, di un quotidiano che ha avuto momenti di gloria: “Il Giorno”. Lo slogan era «I fatti separati dalle opinioni». Ma era uno slogan coniato dai pubblicitari e mai condiviso da nessuno dei giornalisti che vi hanno lavorato tra i quali ho avuto l’orgoglio di essere per un po’ di anni corrispondente regionale. «Noi raccontiamo i fatti – si diceva – ma non tagliamo i sentimenti, i valori, le convinzioni: non faremmo giornalismo. E non perché il giornalismo nasca per educare, ma perché se non educa finisce inevitabilmente per diseducare».

A riportare in primo piano questa realtà è stato il calcio, o per essere più precisi, la nostra nazionale di calcio che, non riuscendo a mettersi d’accordo sull’inchinarsi, o meno, contro il razzismo prima del fischio d’inizio delle partite, ha curiosamente deciso di seguire quello che fa la squadra contro cui gioca, «per rispetto dell’avversario».

Lasciamo pur perdere che la nostra nazionale di basket, invece, si inginocchia comunque a prescindere dai pensieri dell’avversario, ma la motivazione dei calciatori appare decisamente curiosa. Il pensiero dell’avversario è più importante del proprio? Si può essere neutrali davanti a una realtà come quella del razzismo? Non è forse lecito che ognuno, come Costituzione prescrive, possa esprimere il proprio parere senza doverlo sottoporre al giudizio della maggioranza della squadra?

Per non fare polemiche prima della partita contro il Belgio si è preferito mettere la sordina alla questione, ma a riportarla in primo piano sono stati i ragazzi neofascisti del “Blocco studentesco”, movimento giovanile di Casapound, che hanno copiato il murale di Harry Greb che aveva raffigurato un giocatore della nazionale italiana in versione Subbuteo inginocchiato e con il pugno chiuso e alzato in omaggio al movimento “Black lives matter” (le vite nere meritano) e lo hanno affiancato a un loro disegno in puro stile ventennio, con tanto di saluto romano e affiancato alla scritta «Resta in piedi».

Non fosse bastata la dichiarazione di Salvini che incitava gli azzurri a non inginocchiarsi, ora i fascisti fanno ben capire che l’inginocchiarsi, o il non inginocchiarsi hanno significati etici ancor prima che politici ben definiti.

Probabilmente i calciatori pensano che, a seconda del loro atteggiamento, perderanno il tifo di qualche fascista, o di qualche antifascista e quasi sicuramente hanno ragione. Ma sta di fatto che lo sport è da apprezzare se fa parte del mondo e, quindi, se partecipa alle sue gioie e alle sue disgrazie, ai suoi pregi e ai suoi difetti. Altrimenti diventa un qualcosa di staccato dalla realtà, una specie di videogioco nel quale riesce difficile pensare di fare il tifo per qualche figurina elettronica che si muove sullo schermo senza sentimenti.

Prendere parte, essere partigiani, porta con sé sempre qualche rischio, piccolo o grande che sia. Ma è la stessa vita a essere rischiosa. La neutralità non soltanto non esiste: non è nemmeno umana.

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mercoledì 23 giugno 2021

I significati di “libero”

Monsignor Gallagher
Monsignor Gallagher

Doveva restare riservata, ma, per evidenti motivi, qualcuno ha ritenuto di far trapelare la notizia che attraverso il Segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher, il 17 giugno è stata presentata una richiesta formale al governo italiano per fermare il disegno di legge Zan perché «viola i Patti Lateranensi». Un gesto senza precedenti nella quasi secolare storia dei rapporti tra Italia e Vaticano dopo la firma di quel trattato.

Ma, visto che nella stessa curia romana sembra esserci battaglia sullo stupefacente comunicato contro il ddl Zan, si è certi che Papa Francesco fosse a conoscenza di quello che stava per succedere con l’inedita denuncia della mancata osservanza di un trattato internazionale come i Patti Lateranensi?

La domanda, oltre che preoccupante, è più che lecita visto che l’opposizione ultraconservatrice alle posizioni pastorali del Pontefice (molti preti e prelati non hanno mai digerito quel «Chi sono io per poter giudicare» pronunciato da Bergoglio che ha sottratto loro una buona fetta di potere) ha continuato a imperversare e sta cercando di sferrare colpi terribili al “soglio di Pietro” senza rendersi neppure contro che li sta sferrando anche a se stessa per i contraccolpi che ha e avrà nel popolo cattolico.

Basterebbe pensare alle parole del novantenne cardinale Ruini che è sceso immediatamente in campo e, giulivo, ha dichiarato che è stato giusto denunciare una violazione del Concordato «nel quale la Repubblica Italiana riconosce alla Chiesa Cattolica la piena libertà di svolgere il proprio magistero e garantisce alla Chiesa stessa e ai cattolici piena libertà di pensiero e di espressione».

Ebbene, teniamo per prima cosa presente che il ddl Zan si limita a riferirsi ai crimini di odio e di incitamento all’odio, ed esclude esplicitamente qualsiasi limitazione alla propaganda di idee. Ma soprattutto leggiamo il testo: alla vecchia formulazione dell’articolo 604 bis, più conosciuto come “Legge Mancino”, «È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», si limita ad aggiungere, in coda, «oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità».

Questo significa, secondo il cardinale Ruini e coloro che rappresenta e preferiscono restare in secondo piano, che la libertà di magistero della Chiesa e quella di pensiero e di espressione dei cattolici, sarebbero mutilate se fosse proibito per legge di incitare «alla discriminazione o alla violenza» contro quelli che sono diversi per genere, orientamento sessuale, identità di genere, o disabilità? Invocare quella norma concordataria fa pensare che per il Vaticano la libera missione pastorale e la manifestazione del pensiero possano legittimamente tradursi in azioni discriminatorie e repressive.

E assolutamente degno di attenzione, a proposito di “magistero”, è anche il fatto che la Chiesa si opponga a un disegno di legge italiano non in nome di valori etici legittimi, anche se non condivisi da tutti, ma chiamando in causa un trattato internazionale. Lasciar perdere le teoriche leggi morali per aggrapparsi, infatti, a quelle scritte su carte bollate fa trasparire sia la presa di coscienza del fallimento di una “moral suasion” praticata quando da parte del Vaticano si indicavano come salvatori del concetto di famiglia personaggi che di famiglie ne avevano avute ben più di una, sia il grande favore per la destra che contro il ddl Zan si è scagliata perché si sente limitata in quelle che evidentemente considera sue libertà. Difficile dimenticare che poco tempo fa lo stesso cardinal Ruini ha detto che «Giorgia Meloni adesso meritatamente è sulla cresta dell'onda».

Ora c’è da sperare che le istituzioni laiche della Repubblica non si facciano intimidire e che, anzi, portino velocemente in porto l’approvazione di una legge che forse potrebbe ridurre gli schifosi episodi di cronache di aggressioni discriminatorie che ogni giorno appaiono sui nostri giornali.

Auspicando che i giochi di curia non possano aver ragione sulle considerazioni evangeliche di Papa Francesco, ritengo sia inutile sperare che monsignor Gallagher, il cardinale Ruini e tutti coloro che li seguono riescano a capire che nella storica frase «Libera Chiesa in libero Stato», coniata dal conte di Montalembert e poi pronunciata più volte da Cavour e legata alla fine del potere temporale dei Papi, gli aggettivi “libero” e “libera” vogliano dire esattamente la medesima cosa.

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