mercoledì 27 maggio 2020

Il concetto di rischio

Nell’ultimo “Eppure...”, intitolato “Curiosità doverose”, ho provato ad affrontare il problema dell’obbligo per la politica di riferirsi alla scienza e di prendere in seria considerazione le sue conclusioni, nei casi, come pandemie, terremoti, o altri disastri naturali e no, ma anche in presenza di novità tecnologiche, in cui la scienza stessa possa dare parametri certi per giudicare, dati concreti con cui i cittadini possano ragionare su quello che è chiamato “rischio” e che può essere esemplificato con la domanda: «Quante vittime siamo disposti ad accettare in cambio di qualche risparmio?».

Sul concetto di rischio il professor Marcello Riuscetti, geologo e sismologo, mi ha inviato alcune righe che ben volentieri riporto: «Il rischio, come tu ben sai, è la probabilità di un evento dannoso e, quindi non può che essere calcolato. Accettato che questa ovvietà sia da tutti compresa, rimane da stabilire come si possa utilizzare ai fini pratici il “rischio calcolato”. Io sono stupito che nessuno nei vari “thinktanks” che assistono il governo abbia ragionato in termini di “rischio accettabile” (un patrimonio concettuale del Progetto Finalizzato Geodinamica, elaborato dal professor Giuseppe Grandori, ndr) che, solo, può utilmente indirizzare un’azione di governo, posto che il perseguire il rischio zero significa porsi un obiettivo impossibile. Quindi una scelta difficile, ma non impossibile, potrebbe essere: quali costi sono disposto ad affrontare per ridurre di una certa percentuale le vittime, o altre scelte consimili basate su criteri esclusivamente economici. È da tener presente che introdurre nei calcoli il costo della vita umana richiede un approccio che noi non siamo culturalmente preparati ad affrontare. Non è così negli Stati Uniti dove in campo assicurativo, per esempio, il valore della vita umana viene calcolato sulla base della capacità di produrre reddito cosicché assicurare contro il crollo di un edificio che ospita grandi studi legali ha un costo molto maggiore di quello riferito a una scuola con la medesima popolazione. Condividi?».

Un’esposizione chiara e una domanda apparentemente semplice, in quanto, di primo acchito, una risposta affermativa sembra voler dire «Approvo questa esposizione». Subito dopo, però, ci si rende conto che troppo spesso, la nostra smania di risparmiare tempo ci porta non soltanto a rischiare di sbagliare per mancanza di riflessione, ma anche a essere troppo vaghi nelle risposte e, quindi, a rischiare di dare vita a sgradevoli e pericolosi equivoci.

Per capirci meglio, ritengo utile partire dalla constatazione che in alcuni campi e in alcuni Paesi la vita umana acquista valori differenti a seconda dei parametri che si scelgono. Il professor Riuscetti dice che questo è «un approccio che noi non siamo culturalmente preparati ad affrontare», però parla anche di “rischio accettabile”. Apparentemente questi due concetti appaiono in stridente contraddizione, ma così non è, proprio perché la scienza mira a rendere concreti i sogni, ma non si sogna minimamente, a differenza della pubblicità e, in troppi casi, della politica, di spacciare come reali determinati miraggi.

Per capire che le due affermazioni non si contraddicono, ma che, anzi, la prima è la base fondamentale per praticare la seconda, ci è utile un concetto geometrico, quello dell’“asintoto”, parola che deriva dal greco e che è composta da un’alfa privativo che significa no e dal verbo sympìptein che significa congiungere, cioè che non tocca: in pratica si tratta di una retta alla quale la curva di una funzione si avvicina, ma senza mai toccarla. Quindi, se in realtà non possiamo sapere con esattezza come si comporterebbe una funzione all'infinito, conosciamo bene, però, come all'infinito si comporta una retta e se troviamo l’equazione della retta che accompagna la funzione all’infinito, cioè l’asintoto, appunto, potremo tracciare il grafico della funzione che tende all'infinito con buona approssimazione. In parole meno attentamente rigorose, si sta parlando di una retta alla quale una curva si avvicina continuamente, ma senza mai riuscire ad arrivare a quello zero di distanza che significherebbe contatto.

Riportato al nostro discorso, il significato è che le scienze da sempre, nel campo della riduzione del rischio, sanno che mai arriveranno a creare un rischio zero, ma sanno anche che un ulteriore avvicinamento dalla posizione occupata in quel momento sarà sempre possibile e, quindi, non si stancherà mai di cercare nuove strade che possano salvare anche soltanto una vita umana in più. Perché ogni vita è preziosa, a prescindere da quanto sia in grado di produrre, da quanta ricchezza possegga, da che età abbia. Anche perché i disastri, di qualunque tipo, colpiscono dove vogliono, quasi mai dando avvertimenti tempestivi e sicuramente mai andando a scegliere che tipo di vittime fare. Anche perché da ognuno ci si può attendere qualcosa di fondamentale per un’altra persona, o per un’intera comunità.

Un semplice «Condivido», sarebbe stato, dunque, del tutto sbagliato perché avrebbe potuto innescare tutta una serie di equivoci. E sul concetto espresso dal professor Riuscetti non è possibile avere dubbi, visto che il mio interlocutore, già quando la ricostruzione ancora non era conclusa, continuava a richiamare l’attenzione di tutti sulla necessità di mettere in sicurezza anche gli edifici della zona non propriamente epicentrale, che oggi sono più pericolosi di quelli costruiti, o riadattati con severe norme antisismiche.

E lo stesso concetto di approccio al rischio va applicato in ogni campo: dai sismi, alle pandemie, alle sostanze chimiche, alle esalazioni venefiche, agli sversamenti inquinanti, alle onde elettromagnetiche. Perché il concetto di “rischio accettabile” è e deve essere in continua evoluzione; deve tendere costantemente allo zero anche se si sa che quell’obbiettivo non potrà essere mai raggiunto, ma soltanto ulteriormente avvicinato.

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sabato 23 maggio 2020

Curiosità doverose

Come spesso succede, ancora una volta ai buoni propositi generali non corrispondono altrettanto valide applicazioni pratiche. Lo si è visto e lo si sta vedendo anche con il Covid-19, visto che, dopo aver supplicato la scienza, alla quale si sono tagliati per anni i fondi, di intervenire velocemente e con efficacia per difendere la comunità dagli effetti disastrosi del coronavirus, non appena le cose sono andate un po’ meglio, gli scienziati sono stati fatti rientrare nel recinto nel quale molto spesso la politica li rinchiude: quello dei rompiscatole.

Il problema non è quello che Renzi ha tentato furbescamente di condensare nella frase «La scienza non può sostituirsi alla politica», che afferma una realtà incontestabile. Il vero problema è che la politica, quando parla ai cittadini che dopo dovranno esprimere un proprio parere con il voto, evita di rendere palesi i veri termini della questione che, brutalmente, possono essere spesso condensati così: «Quante vittime siamo disposti ad accettare in cambio di questa novità che può portare maggiore ricchezza e/o maggiore comodità?». In definitiva: quanto siamo disposti a rinunciare in termini di salute delle persone, o almeno a rischiare, per ottenere qualcosa in cambio?

Messe in questi termini e allargando lo sguardo a molti altri argomenti, tutte le questioni avrebbero un sapore diverso e la decisione potrebbe essere presa almeno con consapevolezza ed equità sociale. Oppure, potrebbe essere rallentata mentre la scienza viene sollecitata a escogitare delle soluzioni che rendano più innocuo il progresso; cosa che, tra l’altro, avviene quasi sempre, ma con tempi più lunghi e non sempre legati alle necessità della gente.

Prendiamo, per esempio la tecnologia del 5G, che sarebbe la quinta generazione dei sistemi per la telefonia mobile che assicura il contemporaneo utilizzo delle infinite possibilità del proprio telefonino a un milione di persone per chilometro quadrato, cioè a una persona per metro quadrato e che prevede che l’importo complessivo per l’assegnazione delle frequenze relative superi i sei miliardi e mezzo di euro. Intorno a questa nuova tecnologia si sono viste prese di posizioni diversissime, che vanno dalla pretesa di assoluta inoffensività a quella di una pericolosità estremamente spinta, con mille sfumature diverse tra i due poli opposti. Curioso è anche il fatto che, politicamente, spesso le posizioni nazionali dei vari raggruppamenti non corrispondono a quelle locali.

Il problema maggiore è, come quasi sempre succede da qualche decennio a questa parte, che sempre più spesso la politica viene portata avanti su scelte di posizione più che su scelte di convinzione. Troppo spesso, per essere chiari, alcune prese di posizione sono dichiarate soprattutto perché sono la reazione quasi automatica di opposizione alle decisioni degli avversari del momento. E questo purtroppo accade anche davanti a problemi che non possono non restare nebulosi se non sono affrontati con le regole di una scienza che cerca dati di fatto e non quelle convenienze che, invece, sono di totale competenza della politica, ma soltanto quando si hanno in mano tutti gli elementi per decidere se di vera convenienza si tratta.

Torniamo al 5G sul quale troppo poco si è discusso a livello davvero scientifico. Si è parlato molto di economia e di vantaggi vari in una società che è convinta di migliorare se stessa soltanto se può aumentare quantità e velocità. Ci si è opposti troppo spesso soltanto ventilando complottismi che in tutti i campi hanno sempre il medesimo valore molto vicino allo zero. Dal punto di vista scientifico, invece, poco si è fatto, o, meglio, si sono effettuati controlli su una tecnologia nuovissima con strumenti e metodologie vecchie.

Personalmente non ho la minima competenza per stabilire se i rischi per la salute ci sono, se sono aumentati, o se tutto può essere accantonato con grande tranquillità, ma sono convinto che una democrazia matura dovrebbe sfruttare tutti gli strumenti a propria disposizione: la scienza soprattutto.

Pongo, per esempio una serie di domande le cui risposte dovrebbero essere rese note a tutti. È lecito definire la pericolosità di onde elettromagnetiche calcolando soltanto la quantità di quelle che arrivano in un’area predefinita? Se da un’antenna parte sempre una certa quantità di onde, quante antenne incidono sulla medesima area? Quanta differenza c’è tra l’emissione di un’antenna 5G e una di generazione precedente? È poi lecito trascurare l’attività di coloro che queste onde ricevono e che spesso, poi, con la loro attività, creano alte onde che rimandano verso le antenne per farle arrivare ai destinatari voluti, Se l’affollamento in un determinato luogo è fortissimo e se le attività di risposta sono altrettanto forti, ci sono conseguenze per le emissioni dei nostri telefonini? E, se non ci sono, perché per un certo periodo abbiamo sentito raccomandare di usare gli auricolari per non tenere a lungo il telefonino troppo vicino al cervello? E potrei proseguire a lungo con le mie curiosità.

Ecco: la politica dovrebbe essere sempre curiosa, come sempre desiderosi di conoscenza dovrebbero essere gli esseri umani. Se questo non accade, vuol dire che la politica ha perduto quello che dovrebbe essere un suo prerequisito fondamentale, oppure che preferisce lasciare nel vago alcune cose per poter prendere decisioni senza doverle spiegare troppo approfonditamente a chi poi sarà chiamato a votare.

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domenica 17 maggio 2020

Sfigocrazia

Poco da fare. Chi per un istante si era illuso che i drammi portati in superficie dal Covid-19 avessero cambiato in meglio il modo di mettere insieme delle concatenazioni illogiche che alcuni si ostinano a chiamare “ragionamento” deve rinfoderare velocemente le speranze. Mi riferisco soprattutto al fatto che il coronavirus ha dimostrato platealmente che non si può programmare – altro verbo attualmente del tutto inadatto – pensando soltanto alle proprie necessità di domani, della prossima settimana, o, se va bene, fino al prossimo appuntamento elettorale, per coloro che vogliono vivere nella politica e quindi cercano il consenso degli elettori, e al conseguente spoil system, per coloro che operano nella pubblica amministrazione e, quindi ambiscono al consenso dei futuri eletti.

Un esempio piccolo, ma clamoroso, arriva da Udine; anzi, per essere precisi da due scuole elementari della parte meridionale della città: la scuola Pellico di via San Pietro e la Garzoni, a indirizzo Montessori, di via Dante.

Dopo aver preteso entro fine gennaio le iscrizioni dei bambini alle scuole preferite, fornendo indicazioni precise su metodi, orari, collocazioni, a un certo punto l’Ufficio scolastico regionale ha deciso di cambiare le carte in tavola: riduzione a una sola classe nella Pellico e passaggio da due classi a tempo pieno a una a tempo pieno e una a tempo parziale nelle prime e nelle seconde della Garzoni-Montessori.

Alla prima della Pellico sono iscritti 29 bambini e la prima ipotesi di vedere una classe affollatissima, pur in presenza del maledetto virus, è stata smentita dalla direttrice dell’Ufficio scolastico regionale, Daniela Beltrame: «Non ci sarà una classe da 29 bambini: abbiamo consigliato alla dirigente la ridistribuzione con quattro famiglie alla Garzoni e altre quattro alla Zorutti. Sdoppiare le classi non è giusto a Udine dove ci sono tanti plessi». Secondo l’ineffabile Beltrame è giusto, invece, che le scelte delle famiglie e i calcoli che le hanno prodotte vengano gettate nelle discariche, anche se dipendevano da vicinanze, o da scelte legate all’insegnante.

Più complessa, la situazione alla Garzoni-Montessori: in questo caso c’entrano anche metodi e orari, visto che si parla di ridurre a tempo normale due classi a tempo pieno. Dal punto di vista educativo fa accapponare la pelle la dichiarazione di Paola Floreancig dell’Ufficio scolastico provinciale: «Garantiremo la stessa organizzazione didattica portata avanti per le attuali classi prime». Come se un metodo come quello Montessori potesse essere reso indipendente dalla quantità di spazio e di tempo a disposizione.

Ma anche dal punto di vista orario ci sono pesanti conseguenze. Quante famiglie, per esempio, hanno scelto il tempo pieno per problemi lavorativi dei genitori? E quante ora, in caso di tempo normale, sarebbero in grosse difficoltà nel riorganizzare la vita propria e dei propri figli?

Addirittura incredibile è l’idea di trasformare anche una delle attuali prime e prossime seconde a tempo pieno in tempo parziale. Ai bambini sarebbe imposto un cambio di ritmo e di insegnamento che sicuramente non è pensato per il loro bene, ma soltanto per qualche comodità o qualche risparmio del Moloch scolastico. Senza contare, anche in questo caso, i cambiamenti di vita imposti a diciotto famiglie che già si erano modellate sulle esigenze scolastiche dei figli.

Ma non basta ancora perché, nel caso tutto questo dovesse avvenire la scelta su quali alunni sarebbero da destinare al tempo pieno e quali al tempo normale sarebbe effettuata – così annuncia, o meglio minaccia, una missiva arrivata alle famiglie – tramite sorteggio, con tanto di rimescolamento delle due future seconde e conseguente perdita di compagni con i quali si era già creato un qualche affiatamento. Insomma, la democrazia che cerca il bene del popolo basandosi sulle scelte del popolo, si sta tramutando in qualcosa che non dipende più dal popolo, né punta al bene del popolo, ma soltanto delle organizzazioni che al bene generale dovrebbero provvedere. Una democrazia, in definitiva, che, visto che il sorteggio non indicherà dei premiati, ma soltanto dei puniti, si trasforma - scusate il termine - in una specie di “sfigocrazia”.

Anche da punto di vista sociale questa vicenda conferma che nulla è stato ancora imparato. Infatti, gli unici che potranno sottrarsi a questo sorteggio negativo, o comunque a scelte punitive fatte da dirigenti scolastici che dovrebbero pensare al modo migliore per educare, ancor prima che istruire, i giovani, saranno ancora una volta quelli che economicamente saranno in grado di rivolgersi a una scuola privata, mandando a farsi benedire parecchi diritti e concetti costituzionali, oltre che a decenni di sacrosante lotte fatte per mantenere a livelli di eccellenza la scuola pubblica che non ha compiti meno importanti della sanità pubblica.

Gli altri, quelli più indietro nelle possibilità economiche, si sentiranno ancora più penalizzati, ancora più ultimi. E in un campo, quello scolastico, il cui primo compito sarebbe proprio quello di appianare le diseguaglianze sociali.

È una vicenda che lascia tante delusioni, molto amaro in bocca e almeno una domanda: i dirigenti che vogliono adottare questo modo di “comportamento” si vergognano almeno un pochino?

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martedì 12 maggio 2020

Le parole del virus: Politica

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Con l’uscita di oggi, la cinquantaduesima, si interrompe, almeno quanto a quotidianità, la serie de “Le parole del virus” e l’ultima puntata è dedicata a un vocabolo che, pur non avendo ancora mai avuto la ribalta del titolo, è stato protagonista in ognuno dei ragionamenti che ho tentato di sviluppare: la “politica”.

Ebbene se, visto che permea tutto, mi viene naturale parlarne in riferimento ad altri argomenti, sono sempre un po’ sulle spine nell’affrontarla direttamente in quanto è sempre difficile far convivere un giudizio disperatamente negativo su buona parte dei componenti il sistema politico attuale – e non solo quello italiano – con la convinta raccomandazione di fare in modo che la politica torni a essere la parte determinante della nostra società.

Senza politica, infatti, non può esistere la democrazia con tutte le sue discussioni, le fatiche, la continua ricerca di accordi e miglioramenti che facciano il bene di più persone possibili. Una democrazia del tutto inutile, anzi non tollerata, nei regimi dittatoriali e dispotici che talora tentano di conservarne il simulacro tenendo in vita il rito del voto, ma cancellando tutto il resto: perché è sempre uno che decide, mentre gli altri devono annuire e osannare.

Quando la democrazia si fa viva soltanto a intervalli pluriennali per aprire i seggi e far scegliere, mentre tra un appuntamento e l’altro latita, oppure è rinchiusa in poche stanze, vuol dire che è già stata infettata da una specie di Covid-19 della politica, altrettanto mortifero, e che la guarigione, quando arriverà, sarà costata sacrifici, dolori e delusioni.

Una volta, tra l’altro, si votava per il partito dal quale ci si sentiva idealmente rappresentati. Poi, con l’assurda denigrazione delle ideologie – ovviamente soltanto di quelle scomode – si è cominciato a indicare sulla scheda soprattutto il simbolo che riporta a un teorico leader più che a un'idea. E si esprime un voto che non corrisponde mai perfettamente ai nostri pensieri, ma è sempre quello che ci appare meno lontano, al termine di campagne di propaganda studiate non per promettere quello che servirà alla comunità dei cittadini, ma per modellarsi su quello che i cittadini desidererebbero sentirsi dire.

Insomma, un po’ per pigrizia della gente, un po’ per disincentivazione da parte di chi il potere già lo detiene, è sempre più scomparsa la partecipazione e non è certamente la via informatica quella che aiuterà a ridare vita alla nostra democrazia che è inevitabilmente e giustamente rappresentativa. Tenete presente che la democrazia partecipativa – o pomposamente e assurdamente chiamata "diretta" – è tornata alla ribalta verso la fine degli Anni Sessanta, quando le frequentatissime assemblee permettevano ampi dibattiti in cui alcuni diventavano il traino di altri maggiormente disposti al silenzio. Ma in quelle assemblee si parlava, si dibatteva, si confrontavano idee in maniera anche troppo aspra. Nel votare dal proprio computer come vuole la Casaleggio Associati, che ne gestisce la piattaforma, la partecipazione non c’entra proprio più perché cancellando la discussione faccia a faccia rimane soltanto la preferenza, magari anche non razionalmente motivata.

Non si può dimenticare, insomma, che la politica è fatta di valori o principi, cultura, studio, passione, solidarietà e capacità di farsi capire. Se anche una sola di queste qualità manca, è tutto il castello a crollare e i risultati oggi si vedono con chiarezza. Lasciamo pur perdere coloro che fanno politica esclusivamente per loro interessi personali, ed escludiamo in partenza anche quelli che inseguono obbiettivi che non sono compatibili con i nostri principi etici, ma appare incontrovertibile tra tutti gli altri che è inutile avere passione, se poi l’ignoranza e l’impreparazione sono tali da rendere addirittura pericoloso assumere determinati compiti di responsabilità; che è difficile indirizzare utilmente grandi conoscenze specifiche se non esistono i presupposti ideali e sociali che sono la bussola che indica la direzione da prendere; che è pericolosissimo che una qualsiasi attività sia indirizzata soltanto alla ricerca del bene di un gruppo, comunque ristretto, a detrimento degli altri; che è del tutto inutile, per una necessaria continuità d’azione, fare bene tutto quel che si deve fare e poi essere incapaci di narrare, con le giuste argomentazioni, quello che si è fatto; oppure – ancor peggio – ritenere inutile far prendere parte anche agli altri delle motivazioni e delle conclusioni del proprio agire.

Apparentemente la profonda crisi, sanitaria, economica, sociale, indotta dal coronavirus avrebbe potuto aiutare a recuperare un po’ di senso comune nell’agire politico, ma l’illusione è durata pochissimo: poi è subito ricominciata la caccia al voto prossimo venturo. Eppure ci sarebbe stato uno spazio immenso da dedicare ad analisi logiche dei rimpianti per il passato e delle speranze per il futuro.

Ma se in questo il virus non è servito, invece è stato utilissimo per sottolineare ancora una volta le principali urgenze e le necessarie correzioni di rotta che possono essere riassunte in alcuni punti fondamentali. La struttura del mondo del lavoro deve ritrovare quell’importanza che le è attribuita dall’articolo 1 della nostra Costituzione, con rapporti equilibrati, stabili e non ricattatori tra imprenditori e lavoratori, con contratti e compensi che non siano le prese in giro del "Jobs Act" confermatosi vergognosamente ingiusto anche a chi una volta lo difendeva. Non è più possibile accettare quei tagli miliardari che hanno ridotto la sanità allo stremo causando un numero imprecisato di morti che in parte sarebbero stati salvati se personale e dotazioni non fossero stati massacrati da finanziarie vergognosamente miopi, e che sarebbero stati molte di più senza il sacrificio di tutti coloro che nella sanità hanno operato con enorme abnegazione. Lo stesso discorso dei tagli vale per la scuola, l’università e la ricerca perché uno Stato che rinuncia a migliorare i propri cittadini distrugge se stesso.

In quest’ottica diventa sempre più imprescindibile operare seriamente e implacabilmente contro un’evasione fiscale che è materialmente complice della strage acuitasi proprio per mancanza di mezzi perché toglie allo Stato 120 miliardi di euro l’anno che permetterebbero di fare tante cose, tra cui anche ridurre un po’ le tasse a chi già le paga. Lo Stato non può affidarsi completamente al mercato senza alcun tipo di controllo: altrimenti ci si ritroverà nuovamente in situazioni in cui nessuno produrrà più cose indispensabili come mascherine, guanti, reagenti, disinfettanti solo perché i guadagni sarebbero troppo bassi. È importante non dimenticare la cura dell’ambiente che forse non è del tutto estraneo alla nascita e alla diffusione della pandemia. Ma soprattutto, se si vogliono scongiurare rischi di pericolosi sommovimenti sociali, è necessario rispettare i diritti e la dignità di tutti e, così facendo, appianare le diseguaglianze che sono aumentate a dismisura; anche nei mesi dominati dal coronavirus.

Tutto questo costa? Sicuramente sì. Ma soprattutto si tratta di accettare qualche sacrificio adesso per grandi benefici in un futuro che magari interesseranno più i nostri figli e nipoti di noi. Come sempre, in democrazia, si tratta di scegliere. E trovo difficile pensare a obbiettivi più importanti di questi.

Un ringraziamento a tutti coloro che mi hanno seguito e sostenuto in questo percorso.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Ansia, Anziano, Burocrazia, Competenza, Confine, Coraggio, Cultura, Democrazia, Denaro, Dignità, Diritti, Dubbio, Economia, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Pubblico, Quarantena, Regole, Resistenza, Responsabilità, Rispetto, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Solitudine, Sport, Tempo, Uguaglianza, Verità, Vulnerabilità, Zelo.


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lunedì 11 maggio 2020

Le parole del virus: Verità

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Una delle commedie più ridicole, ma per niente divertenti, anche perché già vista infinite volte, andata in scena nell’epoca del Covid-19 è stata quella della discussione tra scienza e politica, sempre nel presunto nome della “verità”. Eppure non dovrebbero esserci dubbi: nella quasi totalità dei casi i politici fanno promesse, propaganda e auto-incensazione, tre attività nelle quali la verità, se c’è, è del tutto casuale; dall’altra parte la scienza si basa su dati di fatto, li riferisce come stanno, mettendo anche bene in chiaro che la verità scientifica è parziale in quanto è sempre in divenire visto che è costantemente sottoposta alle sperimentazioni che la devono confermare galileianamente.

Per capirci. È praticamente impossibile che razionalmente si possa dare torto ai tanti virologi, infettivologi e rianimatori assortiti che abbiamo sentito in questi mesi per dare ragione – che so? – a Salvini, Meloni, Berlusconi, Renzi. Direte: non ti fideresti di quello che dicono questi quattro neanche se dall’altra parte, nel contraddittorio ci fosse Pinocchio. È vero, ma perché li ho visti sempre cambiare radicalmente posizione senza alcuno sforzo se pensavano che questo potesse far loro comodo. Mentre il metodo scientifico è ottimo a prescindere da chi cerca di sminuirlo

Detto questo, è evidente che il concetto di verità assoluta è del tutto sfuggente, come quello di giustizia assoluta. E, infatti Dante ben descrive l’impossibilità, per l’uomo, di raggiungere la giustizia, e quindi la verità, nel XIX Canto del “Paradiso”, quando l’aquila formata dalle luci delle anime dei beati rimprovera il poeta con una famosa terzina: «Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?».

Ma il fatto che la verità sia un’entità scivolosissima non significa che la menzogna sia troppo difficile da individuare; ovviamente se uno ne ha voglia. Pensate alle fake news, notizie false messe in giro intenzionalmente da chi vuole agire sulle emozioni della gente. Pensate al neologismo “postverità” addirittura scelto, dopo l’elezione di Trump come “parola dell’anno" dall’Oxford English Dictionary che lo considera una voce che si basa sull’emotività, su credenze diffuse e non su fatti verificati, ma pretende di essere accettata come vera. E, del resto, quando mai, nella storia, sono stati i fatti verificati a decidere l’orientamento della pubblica opinione? Pensate anche alle sciocchezze tanto assurde da non poter essere neppure confutate razionalmente, come le “scie chimiche” su cui qualcuno ha costruito la sua fortuna politica. Pensate anche a persone teoricamente degne di fede, come Luc Montagnier che confeziona teorie sul coronavirus senza portare uno straccio di prova e senza trovare in tutto il mondo neppure uno scienziato che lo supporti. A conferma che il Nobel premia uno scienziato per l’attività fatta fino a quel momento; non per quella che eventualmente arriverà dopo.

Ma perché la menzogna va così alla grande? Semplice: perché fa in modo di essere comoda e, quindi, solleva dal peso di pensare, o addirittura, dalla ripetuta fatica di cui parlava Karl Popper quando sosteneva che la ricerca della verità non finisce mai perché ogni apparente successo altro non è che il momento in cui si rende necessaria un’ulteriore verifica. Ma oltre che essere comoda, fa anche leva sulle arrabbiature e sulle frustrazioni della gente che troppo spesso non vede l’ora di scaricare il proprio livore su qualcosa, o su qualcuno. E magari si autogratifica convincendosi di essere uno dei pochissimi al mondo a conoscere davvero la “verità”.

Eppure bisognerebbe far diventare parte di sé il concetto che la verità va sempre cercata, ma senza mai pensare di poterla raggiungere davvero, e di ritenerla, così, inoppugnabile. Perché una simile convinzione porta con sé rischi terribili. Tzvetan Todorov aveva messo questo concetto perfettamente a fuoco con una folgorante intuizione che ha racchiuso in quella che, con splendida sintesi filosofica e semantica, ha chiamato la “tentazione del bene”, cioè la certezza di possedere il concetto di bene e di vederlo incarnato in noi, collegata con l’assoluta determinazione di volerlo imporre agli altri, anche con la forza, anche a costo di seminare violenza e morte. E purtroppo, paradossalmente, la storia insegna che ha fatto molto più male, e su più larga scala, la tentazione del bene che quella del male.

Tutto questo non vuol dire che non si deve tendere alla verità perché scetticamente la si ritiene irreale, ma soltanto che la “verità rivelata” può avere senso, se uno ci crede, soltanto nelle religioni, mentre in tutti gli altri casi si deve parlare di “verità relativa”. Le uniche basi assolutamente inamovibili e non negoziabili sono i valori dei quali si è convinti.

Quella della “verità relativa” può apparire come una “diminutio”, ma invece è la chiave di volta per una convivenza sociale che, almeno in democrazia, ha assoluta necessità di un dibattito politico e, quindi, di un compromesso che non significa complicità per turlupinare gli altri, bensì accettazione etica del fatto che, pur sapendo che non esistono verità “mediane”, nessuno è il depositario della verità in toto, che in ogni punto di vista ci può essere una parte di ragione che deve essere colta in qualsiasi discorso. E questa attività oggi è molto difficile perché quasi tutti i discorsi sono stati sostituiti da poverissimi slogan. Anche Norberto Bobbio sosteneva che «La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati e la non-verità degli scettici c’è posto per le verità da sottoporsi a continua revisione con la tecnica di addurre ragioni pro o contro».

Per rendere possibile tutto questo, però, sono necessarie almeno due doti. La prima è costituita dal fatto che la propria verità bisogna saperla esprimere con chiarezza ed efficacia, rifuggendo dall’“ipse dixit”. La seconda è rendersi conto che in ogni dibattito che si proponga di arrivare a un accordo migliorativo è necessario rispettare tutti gli interlocutori; o, meglio, quelli che, ovviamente, meritano rispetto. Anche in questo, purtroppo il coronavirus sembra aver fatto più male che bene.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Ansia, Anziano, Burocrazia, Competenza, Confine, Coraggio, Cultura, Democrazia, Denaro, Dignità, Diritti, Dubbio, Economia, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Pubblico, Quarantena, Regole, Resistenza, Responsabilità, Rispetto, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Solitudine, Sport, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


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domenica 10 maggio 2020

Le parole del virus: Solitudine

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Almeno in parte lo si sarebbe potuto immaginare, ma le immagini di quella folla senza mascherine e con tanti contatti fisici all’ora dell’aperitivo sui Navigli di Milano ha sorpreso anche il meno ottimista sulla durata del nuovo senso di responsabilità degli italiani nel difendere se stessi e tutta la comunità dal Covid-19. Poi il sindaco Giuseppe Sala ha minacciato la chiusura della zona, l’infettivologo Massimo Galli ha dichiarato di temere che questa breccia, se non bloccata subito, possa far crollare la diga. E tutti si sono domandati cosa possa aver provocato questa nuova epidemia di incoscienza collettiva.

Insomma, sembra evidente che tra le tante conseguenze imposte dalla lotta al coronavirus, una delle più importanti, ma anche delle più sottovalutate, sia stata quella solitudine che, a ben guardare, era già stata anticipata inconsciamente nella scelta dell’orrenda locuzione “distanziamento sociale” al posto di “distanziamento fisico”, quasi a sottolineare che il metro abbondante di distanza richiesto tra le persone non era soltanto funzionale a bloccare il passaggio del virus da un corpo all’altro, ma lasciava anche presupporre una qualche ulteriore incomunicabilità tra le persone: in definitiva, una scomposizione della società. Quasi un modo per fissare che dal concetto di solitudine si sarebbe passati velocemente alla tangibile realtà di tante solitudini.

Se così è stato, appare quasi inevitabile la reazione di tanti milanesi: stupida, insensatamente temeraria, ma del tutto istintiva, come del tutto istintiva – e, quindi, non ragionata – è la ricerca di un abbraccio da parte di una persona cara alla fine di un lungo viaggio, o nel momento in cui una situazione di pericolo appare superata. Il problema è che il “viaggio” è ancora ben lontano dalla conclusione e che il pericolo è sempre incombente in maniera terribile.

Del resto il concetto di solitudine ha subito nei secoli vari cambiamenti nel grado di accettazione, o, addirittura, di desiderabilità, ma ha sempre portato con sé un vago sentore di tristezza, noia, sacrifici, sospetto e diffidenza. Ha avuto un momento in cui la solitudine è diventata di moda, pur sempre sotto una cappa di malinconia, in una certa fase del romanticismo che la vedeva come una possibile esperienza capace di trasformare chi la praticava, sia sul piano spirituale, sia su quello emotivo. Oggi generalmente si pensa alla solitudine come a una sensazione di avvilimento, quasi come se si fosse scollegati dal mondo: “distanziamento sociale”, appunto.

È, insomma, qualcosa da evitare anche perché, come molte altre parole, anche la solitudine ha allargato il ventaglio dei suoi significati. Ha aggiunto, infatti, al concetto di isolamento fisico, anche quello del doloroso sradicamento da un contesto di affetti e amicizie, di un’emozione che rischia concretamente di portare verso lo scoramento, o, ancor peggio, alla depressione. Ed è stato proprio in questo senso che si è cominciato a dire di “sentirsi soli” anche mentre si è circondati da tante altre persone, magari in un’affollatissima via, o piazza, di una città. Magari, anche se l’apparenza è del tutto diversa, proprio come sui Navigli di Milano.

Un’altra considerazione che si può trarre da questa “corsa al contatto umano” è che evidentemente i social si sono confermati un ben misero surrogato digitale dell’interazione diretta tra le persone ed è apparso tristemente inadeguato definire “amici” coloro con i quali si intrattengono fugaci rapporti telematici. Sono, ovviamente, soprattutto i giovani a praticare i social e sono stati soprattutto loro a precipitarsi nelle strade alla ricerca di quel calore umano senza “distanziamenti” che prima del coronavirus comunque avvertivano, anche senza cercarlo, durante le attività della giornata e di cui, in questi ultimi mesi, hanno avvertito acutamente una mancanza che ha messo a nudo i limiti delle cosiddette frequentazioni a distanza che non permettono, però, di percepire le sfumature si stato d’animo negli occhi, nel gesticolare, nella postura, nel protendere una mano, nel lasciarsi andare a un gesto di affetto.

Identificare la parola “amico” usata nei social con l’identico vocabolo adoperato nella vita reale, sarebbe un po’ come dire che elemosina e carità siano la stessa cosa, mentre, invece, aiutare con qualche soldo chi ne ha bisogno è cosa degnissima, ma estremamente meno ricca della carità, visto che in latino “caritas”, da cui deriva, indica l’amore che dovrebbe unire ogni essere umano al proprio prossimo. E, a proposito di prossimo, visto quello che è accaduto, andrebbe anche sottolineato che la prossimità è una vicinanza che non è da misurare in centimetri, ma in contatto umano.

In momenti in cui domina quella che Papa Francesco ha definito “la cultura dello scarto”, quello che è accaduto sui Navigli può essere, dopo aver stigmatizzato la sua assurda rischiosità, molto utile per riportare in primo piano alcune cose di grande importanza tra cui, per esempio, quella che è chiamata “confidenza” nel suo significato primario di fidarsi reciprocamente l’uno dell’altro, una realtà della quale noi percepiamo quasi sempre soltanto uno dei suoi due aspetti fondamentali, quello più faticoso e rischioso del dare fiducia agli altri, del mettersi nelle loro mani. Mentre, invece, ne trascuriamo l’altro aspetto: quello del fatto che anche gli altri si fidano di noi e che, quindi, ci sentiamo compresi, e, dunque, ci sentiamo più autenticamente noi stessi. È una realtà magnificamente descritta dal filosofo e teologo Raimon Panikkar: «Nella confidenza – ha scritto – l’uomo incontra se stesso; forse si scopre per la prima volta. I nostri occhi hanno bisogno di riflettersi in un’altra persona forse anche per poter essere. Sulla Terra non esiste “logos” (parola) senza “dia-logos” (colloquio)»

Se riuscissimo a capire e ad assimilare che questa realtà può esistere anche a distanza fisica, ma non sociale, e anche tra diversi, ma non pregiudizialmente opposti, molti dei problemi della nostra società svanirebbero come neve al sole.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Ansia, Anziano, Burocrazia, Competenza, Confine, Coraggio, Cultura, Democrazia, Denaro, Dignità, Diritti, Dubbio, Economia, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Pubblico, Quarantena, Regole, Resistenza, Responsabilità, Rispetto, Scelta, Scienza, Scuola, Sport, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


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sabato 9 maggio 2020

Le parole del virus: Sport

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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La tempesta scatenata dal Covid-19 potrebbe permettere di fare un po’ di ordine anhe in un mondo che apparentemente sembrerebbe lontano mille miglia dai tanti problemi creati dalla più terribile pandemia scatenatasi al mondo dalla Spagnola in poi. Sto riferendomi allo sport e al fatto che se qualche alieno cercasse di capire quante discipline agonistiche o amatoriali esistono nella nostra società leggendo soltanto i giornali nell’epoca del coronavirus, potrebbe benissimo pensare che sulla Terra si pratica soltanto il calcio.

È al gioco del pallone, infatti che si dedicano praticamente tutti i titoli delle notizie di questi mesi. Anzi, a essere più precisi, si parla quasi esclusivamente di serie A e, in parte, di serie B. Dalla serie C in giù non si sa praticamente nulla: tutti pensano che i campionati interrotti a febbraio siano dati per conclusi, ma questa ipotesi non è mai stata confermata, né tantomeno ufficializzata. Anzi, per la C si stanno ancora ipotizzando i play off.

Tutto il resto è praticamente scomparso: pallavolo, pallacanestro, rugby, atletica leggera, nuoto, per non parlare poi dei cosiddetti sport minori che sono stati citati soltanto di sfuggita soltanto per dire che dovranno attendere un anno in più prima di tornare a essere visibili nelle Olimpiadi di Tokyo, le prime che si disputeranno in un anno non bisestile. Soltanto il ciclismo e l’automobilismo continuano ad avere qualche titolo qua e là; a non è certamente un caso se stiamo parlando di due discipline che, con il calcio, muovono più denaro e i cui campioni sono i più pagati.

È proprio tenendo conto di questa realtà che, pur senza rispolverare le antiquate categorie dei “professionisti” e dei “dilettanti”, bisognerebbe distinguere tra sport e spettacolo, o, almeno, visto che a certi livelli, le due cose coesistono, indicare quali sono gli ambiti in cui a essere più importante, per la quantità di denaro che muove, è lo spettacolo. Ed è soltanto per questo – il denaro, non lo spettacolo – che ci si sta dando tanto da fare, che si accetta, mantenendo il pubblico bel lontano, o magari soltanto davanti alla televisione, di trattare gli atleti come antichi gladiatori, tanto ben pagati da dover rischiare, come loro, anche la vita.

Se, infatti, il “distanziamento sociale” è tanto importante da far sanzionare coloro che si avvicinano tra loro a meno di un metro, come mai è possibile che tornino a essere lecite discipline agonistiche nelle quali il contato fisico è la norma? Possono bastare tamponi effettuati ogni due o tre giorni? E, se dovessero essere sufficienti, può sembrare eticamente possibile che a medici, infermieri e OSS ancora si lesinino questi tipi di esami, mentre nel calcio non ci dovrebbero essere problemi di reperibilità dei reagenti necessari? Anche per quanto riguarda la vita, o meglio la morte, il denaro può fare premio su tutto?

Dicono che se il campionato si ferma qui e le televisioni pretendono giustamente di riavere i milioni che hanno già anticipato senza avere nulla in cambio, l’intero settore rischia il tracollo, che moltissime società finirebbero in fallimento. È vero, ma è mai possibile che, al di là di tentare di mettere una difficilissima pezza sia sui problemi economici, sia su quelli etici del momento, nessuno pensi al futuro? Che non si sfiori neppure una discussione che l’intero settore non soltanto ha goduto di gigantismo, ma che, anzi, ha cercato di crescere economicamente sempre di più, con la complicità di dirigenti, atleti, allenatori e altri addetti che hanno continuato a puntare a strappare contratti sempre più lucrosi. Eppure, lo si sa, le bolle crescono, ma alla fine, scoppiano tutte. Il coronavirus probabilmente ha soltanto anticipato di qualche tempo la deflagrazione.

E la stessa deflagrazione è vicina anche per tanti altri sport le cui federazioni hanno fatto lievitare i costi dell’attività con tasse-gara e costi arbitrali che hanno ridotto sul lastrico e fatto sparire già molte società e che probabilmente adesso ne cancelleranno tante altre.

Dicono anche che è soltanto grazie alle quote versate dal calcio al Coni che gli altri sport possono sostenere le spese che sono necessarie per tenersi ad alto livello internazionale. È vero, ma lo Stato potrebbe spiegare perché ha impoverito fino a sopprimerlo il “Totocalcio” che fino a qualche decennio fa provvedeva alla bisogna e ha deciso di non versare al Coni una percentuale sui pingui proventi che entrano nell’erario da tutto il mondo delle sommesse e, soprattutto dal “Superenalotto”?

Da questa vicenda lo sport dovrebbe uscire con meno compromessi e un maggiore senso della realtà. Per i professionisti dello spettacolo si tratta comunque di ridurre certi compensi che non possono avere giustificazioni se non nelle dissennate concorrenze al rialzo che infiammano i mercati di teorico rafforzamento, mentre per chi pratica lo sport senza la mira di arricchirsi dovrebbe essere più semplice accostarsi alla propria disciplina senza eccessive spese e praticarla poi senza eccessive speranze di guadagno.

Dicono che calerebbe l’interesse? Sono sicuro di no: per decenni abbiamo visto entusiasmo anche e soprattutto sui campi dove dominava ancora il dilettantismo. E ancora oggi, tra i giovani, anche se mancano i compensi, non manca mai la gioia di fare quello sport che, tra l’altro, originariamente non dava soltanto soddisfazioni a chi vinceva, ma insegnava a vivere con gli altri accettando regole comuni. Magari servirebbe ancora.

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venerdì 8 maggio 2020

Le parole del virus: Economia

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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«Così come il comandamento “Non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “No” a un’economia dell’esclusione e della inequità. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati”, ma sono rifiuti, “avanzi”».

Queste parole sono state scritte da Papa Francesco nel novembre del 2013, nella sua prima Esortazione apostolica, la “Evangelii gaudium”. A quasi sette anni di distanza potrebbero essere riproposte senza dover cambiare neppure una virgola. Anzi, lo sdegno potrebbe ribollire ancora più forte al di sotto delle parole perché ancora una volta, e in maniera più vergognosa di sempre, si è visto che ai protagonisti di tutta la finanza e di buona parte dell’economia non interessa davvero nulla della sorte degli uomini e delle donne che non siano loro stessi.

Durante i momenti peggiori della crisi umanitaria fatta scoppiate dal Covid-19 abbiamo visto le quotazioni di borsa muoversi come se nulla stesse succedendo attorno, come se nel mondo non stessero morendo centinaia di migliaia di persone, come se la povertà non stesse incombendo su milioni di uomini e di donne. Anzi, forse certi rialzi sono stati realizzati proprio nei momenti di più acuto orrore. A guardare l’agitarsi di una Borsa valori non può non venire in mente un covo di allibratori che cercano di sapere in anticipo se un cavallo è imbolsito, se è in forma, oppure se è dopato.

E anche l’economia – non quella spicciola che permette la vita di milioni di persone, ma quella che si autodefinisce “dispensatrice di ricchezza” – in questo periodo sembra aver fatto di tutto per non distinguersi, almeno quanto a insensibilità, dalla finanza. Il neo presidente di Confindustria Carlo Bonomi si scaglia contro il governo perché distribuisce «soldi a pioggia senza metodo», tranne quello di cercar di far sopravvivere chi non ha neppure quel che serve per mangiare, mentre, a suo dire, dovrebbe darli agli imprenditori, magari a quelli che non si sono mai fermati, o a quelli che accusano perdite settimanali superiori alla dichiarazione dei redditi dell’anno prima, o a quelli che vanno a pagare le tasse in Olanda, o in altri paradisi fiscali, e non in Italia e ora chiedono aiuti a fondo perduto.
Intanto sono pochissimi coloro che si vantano di essere economisti e che cominciano a pensare che tutto il sistema andrebbe cambiato perché questo ha soltanto creato, e poi esacerbato, disuguaglianze senza che ormai si tenti neppure di dissimulare che ormai sono sempre di più quelli che non vogliono creare ricchezza, bensì profitto.

E sono gli stessi che già negli anni Novanta facevano finta di non vedere cose che scrivevamo perché sembravano così evidenti che anche chi di economia sa ben poco non poteva non vedere. E, cioè, che tanti più sarebbero stati i disoccupati e tanti più i lavoratori precari e pagati al limite della sussistenza, tanti meno sarebbero stati coloro che avrebbero potuto permettersi di acquistare molti prodotti e perfino alcuni generi di prima necessità, innescando, così, una reazione a catena che, visto che non è stata bloccata in tempo, ha finito per spingere nel baratro quel consumismo su cui si è basata l’economia del mondo Occidentale, un consumismo che, per sopravvivere a se stesso, pretenderebbe un giro sempre più vorticoso di merci e, ovviamente, di denaro. Molti di coloro, insomma, che si sono dichiarati paladini del capitalismo, ne hanno indebolito e compromesso profondamente le stesse fondamenta soltanto per calcoli di tornaconto individuale.

Ma non basta, perché è dalla compressione del tempo in un presente dilatato all’inverosimile che il consumismo trae la sua linfa vitale in quanto, non riservando energie e risorse per un futuro che non si vuole vedere, si finisce per indirizzarle in maniera praticamente esclusiva sull’oggi. Con l’aggravante che non ci si rende conto che sono i desideri attuali ad aver creato il consumismo, mentre sono quelli della sicurezza per il domani ad avere formato il capitalismo e che è proprio la convivenza tra queste due realtà, che sembrano strettamente imparentate, ad avere creato una crisi di cui non si vede la fine, in quanto sono inconciliabili visto che il consumismo trae linfa da un continuo movimento di denaro, mentre il capitalismo e la finanza tendono, per incrementarlo, a farlo muovere soltanto virtualmente.

E, a proposito di contraddizioni, si è visto ancora una volta che passare dall’Europa dei mercati all’Europa dei popoli non è facile perché democrazia vuol dire ricerca di equilibri, mentre concorrenza e mercato sono, invece, ricerca di disequilibri. È una pura constatazione che deriva anche dal fatto che in questa nostra epoca si finisce per privilegiare il pensiero semplice rispetto a quello complesso, il pensiero corto, che arriva a breve distanza temporale, rispetto a quello lungo che si spinge a considerazioni strategiche e non solo tattiche. E la democrazia è un pensiero lungo e complesso, che si proietta nel futuro e richiede grandi sforzi per essere mantenuto vivo. Insomma, non è possibile basare l’Europa Unita soltanto sull’economia: servono disperatamente anche politica ed etica; cultura e visione sociale delle cose.

Se poi ci soffermiamo sull’enorme debito che già abbiamo e che doverosamente si ingigantirà ancora, allora ci si rende ancor più conto che dall’inferno del coronavirus dovrebbero uscire almeno alcuni insegnamenti: che ci si salva soltanto agendo insieme, che per poter agire insieme occorre abbassare, se non eliminare, le diseguagliane e che per ottenere uguaglianze di fatto occorrerebbe un’enorme flessibilità, cioè la capacità di trovare le soluzioni giuste non proseguendo testardamente sulla propria strada abituale, ma cercando altri percorsi più fruttuosi per tutti.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Ansia, Anziano, Burocrazia, Competenza, Confine, Coraggio, Cultura, Democrazia, Denaro, Dignità, Diritti, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Pubblico, Quarantena, Regole, Resistenza, Responsabilità, Rispetto, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


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giovedì 7 maggio 2020

Le parole del virus: Rispetto

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Tra le tante parole che il Covid-19 ha riportato alla ribalta, alcune sono subito tornate, dopo essere salite brevemente alla ribalta, a essere bellamente ignorate, o per fastidio, o per deliberato calcolo. Una di queste è il sostantivo “rispetto”, in tutte le sue molteplici sfumature di significato. Perché, al di là dei giudizi di merito su come è stata affrontata la pandemia dal punto di vista medico ed epidemiologico, è incontestabile che, pur con moltissime giustificazioni legate all’emergenza, il concetto di rispetto è stato troppo spesso sacrificato su altri altari.

Può essere anche vero quello che Lev Tolstoj ha fatto dire ad Anna Karenina – «Hanno inventato il rispetto per nascondere il posto vuoto dove dev’esserci l’amore» – eppure, pur in questa connotazione negativa e se davanti ai lutti e ai contagi il rispetto potrebbe sembrare un orpello inutile, in una società che si è deformata sotto le spinte di esasperati interessi e visioni di parte, il recupero del rispetto reciproco sarebbe fondamentale perché, se molti tipi di società ne hanno fatto deliberatamente a meno, nessuna democrazia può dirsi veramente tale se viene a mancare stima, o almeno considerazione, tra i cittadini che ne sono l’anima. Purtroppo, però, questo obbiettivo è ancora molto lontano se non si riesce ad applicarlo neppure nei confronti dei più deboli.

È ben difficile, per esempio, credere che potranno essere dimenticate le immagini, ma soprattutto le emozioni, legate alla morte di tantissimi anziani, sia per il fatto che poco rispetto è stato usato nei loro confronti quando si è deciso di lasciar trasformare molte RSA e case di riposo in veri e propri lazzaretti nei quali sono stati troppi coloro che hanno perduto la vita. Né è possibile dimenticare che la quasi totalità delle vittime ha passato gli ultimi istanti di vita da sole, senza neppure il conforto, se non arrivavano da umanissimi medici, infermieri e operatori socio-sanitari, di una voce amica, di una carezza partecipe, di una lacrima che non può salvare il corpo, ma può fare miracoli con lo spirito. Sono diventati inumanamente soltanto numeri, statistiche.

E rispetto non c’è stato neppure – anche se non c’erano alternative – nel vedere quelle lunghe colonne di camion militari che trasportavano verso forni crematori lontani cataste di feretri, quasi a ricordare – anche se così fortunatamente non è stato – il triste retaggio delle fosse comuni che ha contrassegnato i momenti più bui della storia dell’uomo.

Ma se nel momento più drammatico, molte di queste assenze di rispetto umano possono essere perdonate, decisamente meno digeribili sono alcune decisioni prese in questi giorni, come quella di confinare su una nave alla fonda a Trieste tanti anziani che sono stati contagiati dal virus, anche se non nella forma più grave. Una nave traghetto, per di più, non certamente da crociera, e, quindi, decisamente spartana. Si è detto che altrimenti sarebbe stato necessario spostarli lontano da Trieste. Ma confinarli su una nave – dall’affitto salatissimo tra l’altro – non mi sembra poco estraniante. Visto che non possono ricevere visite e che il personale destinato a prendersi cura di loro è stato raccolto in fretta da una cooperativa con annunci sui giornali e sul web, i malati avrebbero potuto anche finire in Nuova Zelanda; ma magari con qualche comodità in più e anche con maggiori certezze sulla qualità dell’assistenza.

È da accogliere con gratitudine il suggerimento di fermarsi tutti e di dedicare al ricordo dei morti e delle sofferenze dei sopravvissuti qualche minuto di silenzio, in un giorno da stabilire, al suono di una sirena. Se lo si farà, sarà la doverosa condivisione di un dramma che ha impoverito non soltanto le famiglie direttamente colpite, ma tutti. Però sarà anche l’occasione per impegnarsi a guardare con maggiore rispetto chiunque, anche quando quello che sta succedendo sembrerebbe poter giustificare trascuratezze e incurie.

E, pur tra mille giustificazioni, il rispetto è stato carente anche nei confronti di molti altri malati non di coronavirus che hanno dovuto inghiottire le loro paure e preoccupazioni perché una sanità troppo sotto pressione per le carenze indotte da tagli indiscriminati, non poteva materialmente dedicarsi con la solita sollecitudine alla loro cura. E anche in questo la sanità privata ha mostrato i suoi terribili limiti come pubblica utilità. Pur senza arrivare ai vertici di assurdità di quelli che hanno pensato, in piena crisi sanitaria nazionale, di mettere il proprio personale in ferie o in cassa integrazione, quasi nessuna struttura non pubblica è riuscita a dare sollievo, o aiuto, né agli ospedali oberati di lavoro, né alle tante persone gravate da dolori e preoccupazioni.

Del resto, sarebbe stato strano il contrario. Quale rispetto può imparare una società che vede uno di coloro ai quali ha delegato – fortunatamente soltanto pro tempore – la propria guida, che pensa di punire chi salva le vite di chi sta annegando e che derubrica la drammatica morte di migliaia di migranti a semplice esempio dissuasivo? Sarebbe il caso di riportare in primo piano il vecchio e fuori moda, ma sempre valido «Non fare agli altri, quello che non vorresti fosse fatto a te».

Il fatto è che il rispetto nasce dalla conoscenza, e la conoscenza richiede impegno, investimento, sforzo, mentre la nostra società sta sempre più dividendo gli esseri umani a seconda della loro produttività e, quindi, “rottamando” non soltanto con l’uso di criteri ben lontani da qualsiasi rispetto per il prossimo, ma operando anche scelte fatte con l’accetta della generalizzazione, penalizzando a gruppi indiscriminati i più vecchi, i meno forti, i malati, i deboli, i poveri, gli stranieri, gli ultimi. Non è piacevole, ma inevitabilmente si agitano davanti alla mente quelle lugubri scelte che venivano fatte all’arrivo dei treni piombati nei Lager: i forti, quelli ancora in grado di lavorare, verso le baracche; gli altri alle “docce” di Zyclon B e poi ai forni crematori. Un paragone esagerato? Sicuramente sì, ma forse può riuscire ad attrarre un po’ l’attenzione su queste discriminazioni asociali.

Lord George Byron disse che «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore». È giusto; e noi non riusciremo mai a dimenticare quanto è accaduto in questi mesi orrendi, ma se questo servirà a far tornare il rispetto protagonista nella nostra società, allora anche da questa pandemia potrebbe uscire qualcosa di buono.

Le altre parole: Abbraccio, Ambiente, Anonimo, Ansia, Anziano, Burocrazia, Competenza, Confine, Coraggio, Cultura, Democrazia, Denaro, Dignità, Diritti, Dubbio, Empatia, Eroismo, Europeismo, Fede, Futuro, Guerra, Indignarsi, Infodemia, Lavoro, Lettura, Libertà, Linguaggio, Memoria, Natura, Opinione, Paesaggio, Paura, Pubblico, Quarantena, Regole, Resistenza, Responsabilità, Scelta, Scienza, Scuola, Sogno, Solidarietà, Tempo, Uguaglianza, Vulnerabilità, Zelo.


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