martedì 31 marzo 2020

Le parole del virus: Dignità

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Mentre, con tutti gli scetticismi del caso, sembra che il Covid-19 non sia più così deciso nella sua drammatica velocità di propagazione, appare sempre più necessario trovare una specie di piccola bussola etica e valoriale da scrutare attentamente già oggi, e che sarà necessaria per orientarci nel mondo del dopo coronavirus.

Per individuarla, mi sembra utile un passo scritto da Immanuel Kant nella sua “Fondazione della metafisica dei costumi”: «Tutto ha un prezzo o una dignità. Ha un prezzo ciò al cui posto può essere messo anche qualcos’altro, di equivalente; per contro ciò che si innalza al di sopra di ogni prezzo, e perciò non comporta equivalenti, ha una sua dignità». È la dignità, insomma, l’ago che deve segnare un punto fermo nel nostro cammino, per quanto possano cambiare il contesto esterno, le abitudini, le nostre percezioni dello spazio e del tempo, per quanto impetuoso sia il fiume di informazioni – vere o false che siano – che ci travolge. Il fatto di essere umani ci impone di chiederci sempre come dovremmo rapportarci con gli altri. Perché noi siamo umani grazie al fatto che altri umani ci donano umanità; e che noi gliela restituiamo, anche perché questo è davvero l’unico modo per rispettare anche la dignità nostra. E anche il dispiacere che proviamo per coloro che hanno dovuto morire da soli e per i parenti che non hanno potuto accompagnarli è una prova che questa dignità almeno è stata comunque cercata e voluta.

Se cerchiamo una definizione di dignità sembra difficile sottrarsi alla descrizione che Dante ne dà, per voce di Ulisse, nel XXVI canto dell’“Inferno”, quando il re di Itaca, per spronare i suoi marinai a superare le fatidiche Colonne d’Ercole li esorta con questi tre famosi versi: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza». Il poeta, insomma, afferma che per avere dignità, bisogna possedere sia valori, sia cultura.

Se vogliamo trovare degli esempi, a livello di valori, al di là dei tanti volontari e di coloro che fanno il loro lavoro con abnegazione e senza pensare al loro stipendio, sicuramente ha grande dignità il premier albanese Rama che, dimenticandosi dell’invasione italiana ai tempi di Mussolini e delle chiusure ai tempi di Salvini, e ricordandosi, invece, dell’accoglienza data dagli italiani nel periodo immediatamente successivo alla fine della dittatura di Enver Hoxha, ha mandato da noi medici e infermieri per aiutare e li ha definiti, con grande sensibilità, «i nostri soldati in tuta bianca». E grande dignità spetta anche a quei napoletani che hanno messo in giro nella città dei cesti con dentro roba da mangiare già preparata e con un cartello su cui è scritto: «Chi può metta. Chi non può prenda».

E a livello culturale, oltre che umano, non sanno nemmeno dove la dignità stia di casa i tanti che invadono internet, trasmissioni televisive e radiofoniche, solo con ansia di presenzialismo e dando notizie inattendibili, se non addirittura false. E con loro c’è anche Donald Trump che, stupidamente ancor più che cinicamente, dopo aver tergiversato a lungo parlando di una semplice influenza, ha affermato che «Con meno di 100 mila morti negli Stati Uniti avremo fatto un buon lavoro». Kant direbbe che per lui siamo male anche a livello di prezzo.

La storia insegna che di solito nei tempi di crisi cresce la voglia di dare sempre più deleghe a chi governa (il Parlamenbto ungherese si è lasciato appena convincere a dare i pieni poteri a Orban che chissà quando li restituirà), ma ammonisce anche ricordando che è proprio nei momenti più difficili che ci si deve trovare preparati per poter essere protagonisti delle nostre vite e non semplici comparse nelle mani del primo che passa, o del più potente. Ed è evidente, quindi, che in primo piano deve esserci sempre anche quella competenza che in questi ultimi decenni è stata vista quasi come un difetto da nascondere in un’età dell’ignoranza in cui una sorta di egualita¬rismo verso il basso sembrava avere la meglio sul tradizionale sapere consolidato.

Mentre il livello culturale e operativo dei politici continuava a calare, pianificatori, professori, profes-sionisti e specialisti di ogni tipo non sono stati più visti come figure cui affidarsi per un parere qualificato, ma come odiosi sostenitori di un sapere elitario e apparentemente inutile. Oggi quei dileggiati competenti sono ricercatissimi e, loro, ben lontani dal tenere il broncio, accorrono dove serve, anche al di là del loro dovere. Forse perché la cultura non nutre soltanto il cervello, ma anche i sentimenti.

E oggi ci si chiede come sia stato possibile che tanti si siano chiesti cosa farsene di libri, titoli di studio e di anni di praticantato se esiste Wikipedia? Perché leggere saggi, ricerche e giornali quando Facebook mette a nostra disposizione notizie di ogni genere e di prima mano? Non si sa se sono vere? Qualcuno prima o dopo ce lo farà sapere e se intanto succede un disastro, o il coronavirus provoca 100 mila morti negli Stati Uniti, si potrà sempre definirli “danni collaterali” per uno sviluppo che non presuppone principalmente il progresso, ma la ricchezza e la comodità.

Ne sono usciti dei mostri come l’informazione-spettacolo e quella intossicata da fake news sui seguitissimi social network, come la pretesa democrazia telematica dell’“uno vale uno” che rientra nella ricerca di semplicismi che sembrano essere la meta da raggiungere in un mondo che, invece, è sempre più complesso e richiede soluzioni sempre più complesse. Se quando l’emergenza sarà finita non ci si ricorderà di questi insegnamenti, ancora una volta si rischieranno gravi disastri anche in tema di dignità e di umanità.

Le altre parole: Anonimo, Confine, Denaro, Europeismo, Futuro, Infodemia, Libertà, Scelta, Solidarietà

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lunedì 30 marzo 2020

Le parole del virus: Europeismo

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Hanno ripetuto in mille modi che il Covid-19 se la prende soprattutto con i soggetti più fragili. E tutti hanno sempre pensato che il riferimento fosse limitato agli anziani e a coloro che sono già sofferenti per una o più patologie. Nessuno, invece, almeno in prima battuta, aveva pensato all’Unione Europea che, invece, sempre più ci appare come una delle possibili vittime, perché fragile, anche se, come entità sovrannazionale, non ha assolutamente ancora un’età da farla considerare anziana.


Del resto lo sapevamo da tempo che l’Europa è una realtà incerta, divisa, frammentata; che quello che era definito il “gruppo di Visegrad”, composto da Polonia, Ungheria, Cechia e, fino a non molto tempo fa dalla Slovacchia, ha idee solidaristiche e umanitarie bel diverse dalla maggioranza degli altri Stati; che la macchinosità delle regole e la ridondanza di burocrazie mai integrate, rendono difficilissimo agire con sollecitudine ed efficacia; che si è partiti pensando di dare corpo agli utopici miraggi di Spinelli, Rossi e Colorni, mentre erano a Ventotene, privati del bene della libertà, e si è arrivati quasi subito, invece, a dare sostanza alle mire di coloro che ritengono che sia necessario favorire il mercato prima delle persone.

Ma il vero problema è che il virus, al di là dell’Unione Europea, possa mandare in crisi anche lo stesso europeismo che oltre ai soliti colpi inferti da aridi ragionieri – non intendo offendere quelli veri - che hanno preso il potere, sta subendo altri violenti traumi nel vedere che neppure mezzo milione abbondante di contagiati e ben più di 30 mila morti, riescono a scuotere il corpaccione sonnolento di un’Europa che non riesce a capire che importante non è il continente, bensì il contenuto, cioè gli esseri umani che vi vivono.

È possibile che la maggioranza dei 27 Stati debbano sottostare alla cecità di una minoranza di membri attualmente guidati dalle “aquile” di Germania e Olanda che, mentre passano i cortei di bare, continuano ostinatamente a guardare soltanto le colonne del dare e dell’avere? La risposta negativa della presidente Ue, Ursula von der Leyen alla proposta di emettere dei “Coronabond” per dare alle nazioni la liquidità di cui hanno bisogno per permettere di sopravvivere a coloro che sono obbligati a stare fermi, senza alcun guadagno, per difendere la salute di tutti, è di quelle che gridano vendetta al cielo.

Nei sogni dei tre di Ventotene c’era l’Europa dei popoli, delle persone. Se si vede che la vita delle persone vale meno dei soldi, allora di cosa stiamo parlando? L’Europa Unita nasce e merita di vivere perché, al di là del sogno di pace e alla comodità dei confini aperti, è lo strumento per passare da una cultura della sottrazione a una cultura dell’addizione, da una cultura dell’esclusione a una cultura dell’accoglienza, da una cultura della separazione alla cultura della fratellanza e della solidarietà. Poi ognuno ha, ovviamente, il diritto di pensarla in maniera diversa, ma deve sapere quali sono le conseguenze. E non può far finta che le conseguenze delle scelte di ognuno non pesino sulla propria coscienza.

Queste ferite possono essere giustificazioni sufficienti per lasciar perdere il sogno? Assolutamente no, sia perché un sogno non vive sulle probabilità della sua realizzazione, ma sulla sua sostanza più profonda, sia in quanto noi non dobbiamo combattere per realizzare questo sogno puntando a goderne noi: dobbiamo farlo soprattutto per le generazioni che ci seguiranno, che lo desiderano e che hanno il diritto di continuare a vivere in un posto che da più di settant’anni riesce a tenere lontane da sé quelle guerre che l’hanno insanguinato spesso nei secoli scorsi.

Noi riteniamo importante valutare come ci trattano i nostri vicini e come noi trattiamo loro, ma, in realtà, un giudizio serio su di noi dovrebbe dipendere soprattutto da come noi trattiamo quelli più lontani, gli altri; anzi, quelli che sono più “altri” di tutti, dentro e fuori i nostri confini.

L’europeismo, insomma, si allarga ben al di là degli angusti confini dell’Europa e coinvolge il concetto stesso di umanità. È anche per questo che non può rischiare di essere ucciso dal coronavirus. Dobbiamo ventilarlo con tutte le nostre forze, perché se chi al potere non lo fa, questo compito spetta a tutti gli altri che sanno benissimo che un sogno, per essere realizzato, richiede tanta fatica ed esige di superare qualsiasi delusione e sconforto.

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domenica 29 marzo 2020

Le parole del virus: Solidarietà

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Può sembrare impossibile, ma spesso non sono la vicinanza, o addirittura il contatto, a ridestare la nostra solidarietà, bensì la lontananza, la rarefazione delle occasioni di incontro. Le segregazioni casalinghe che stanno toccando tutti noi in seguito alle tremende minacce del Covid-19 ce lo stanno dimostrando. Stiamo assistendo, infatti a fenomeni che fino a un paio di mesi fa non avremmo ritenuto probabili.


La protezione civile richiede trecento medici volontari per andare a operare in prima linea, negli ospedali delle zone dove con più facilità si viene contagiati e dove più spesso si muore, e si presentano in molti più di duemila. E la stessa cosa, addirittura in proporzioni maggiori, si è ripetuta pure per la “chiamata” di 500 infermieri alla quale hanno risposto in quasi diecimila. A centinaia, e aumentano ancora, sono i volontari che non hanno preparazione medica, né infermieristica, ma si prestano a guidare, o ad accompagnare, le ambulanze; a portare la spesa a casa di chi non può, o non se la sente di muoversi, o a tentare di dare sollievo materiale, e quindi anche psicologico, a chi sta soffrendo in maniera pesantissima, sia per lutti, sia per paura.

Nessuno avrebbe nemmeno immaginato che tante fabbriche, tanti laboratori si assumessero i problemi di una veloce riconversione produttiva per dare al Paese mascherine, camici monouso, respiratori, guanti, disinfettanti. È vero: così facendo possono continuare a produrre e, quindi, a vivere, ma il processo di conversione, e poi di riconversione, non è né semplice, né veloce, né poco impegnativo anche sul piano economico.

A ogni richiesta di un contributo monetario, poi, i risultati sono sempre superiori alle attese iniziali e del tutto commoventi sono gli aiuti che arrivano da immigrati che dicono: «Avete aiutato me e ora è il momento che io aiuti voi», dando così sostanza a quello spirito umano che è ben più importante dello spirito nazionale; che, anzi, mette bene in rilievo l’incomprensibilità delle artificiose divisioni che gli uomini sono riusciti a costruire in tutto il mondo; e non soltanto tra nazioni, o patrie, ma anche al loro interno.

E la solidarietà, ai suoi livelli più semplici, si trasforma addirittura in buona educazione. Chi, un paio di mesi fa, avrebbe mai ipotizzato di vedere lunghe file fuori dai pochi negozi ancora aperti, file nelle quali praticamente quasi nessun italiano non rispetta la distanza di sicurezza, né tenta di fregare la precedenza a chi gli sta davanti?

Cos’è successo? Difficile dirlo. Non possono essere state soltanto le esortazioni alla solidarietà da parte di Papa Francesco, del Presidente Mattarella e di tante altre voci che hanno una qualche platea di ascolto. Non credo ci sia stata un’improvvisa e diffusa conversione ai principi evangelici, né un’inattesa accettazione degli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione che proclamano i principi di solidarietà e di eguaglianza e che hanno una loro evidente e inevitabile ricaduta nell’articolo 53, uno dei meno ascoltati, quando dice che «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contribuiva e, a seguire, sottolinea che «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Se fosse stato seguito, probabilmente non avremmo mai dovuto sentir parlare di tagli alla sanità e all’istruzione.

Credo che per tentare di avvicinarsi ai reali motivi di questo cambiamento sia necessario analizzare le differenze tra due parole – “elemosina” e “carità” – che, nella vulgata più diffusa, possono apparire sinonimi, ma che tali assolutamente non sono. Elemosina, infatti, significa un’elargizione, quasi sempre in denaro, data a chi, rispetto a noi, è in evidente e costante condizione di debolezza. Carità, invece, e non solo nell’accezione cristiana del termine, ma già in quella latina di “charitas”, implica un concetto di amore, o, se questa parola ci appare troppo impegnativa, almeno di fratellanza, di aiuto dato a un nostro pari.

Di solito è ben più diffusa l’elemosina della carità, anche in quanto sentirsi uguali agli altri è sempre molto più difficile che sentirsi superiori agli altri, o anche inferiori agli altri, e soltanto raramente, come nel volontariato, le due condizioni possono convivere. Oggi, invece, sotto la minaccia del coronavirus, è molto più facile sentirsi tutti uguali, o, almeno, nella medesima situazione di pericolo. Quindi, diventa naturale abbandonare atteggiamenti presupponenti e riacquistare quel concetto di socialità paritaria che, per quella dignità inalienabile che riconosciamo a ogni essere umano, a prescindere da distinzioni nazionali, sociali e religiose, ha impiegato secoli per svilupparsi e che in questi ultimi anni, con l’aumento a dismisura delle diseguaglianze, è stato messo nuovamente in crisi.

Il problema è che molto probabilmente, anche sotto l’effetto dell’euforia per il futuro scampato pericolo, di questo non trascurabile effetto positivo che galleggia in un pozzo di negatività, si rischierà di perdere in breve la memoria, mentre dovrebbe restare sempre in primo piano il concetto di dignità, propria e altrui, accoppiato al rifiuto di riprendere a essere ossequiosamente inseriti nello squallore di una quotidiana sopravvivenza. Bisognerebbe – come diceva Giorgio Gaber in “Qualcuno era comunista” – pensare «di poter essere vivo e felice solo se lo sono anche gli altri».

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sabato 28 marzo 2020

Le parole del virus: Infodemia

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Talvolta sono delle circostanze inedite a farti sbattere contro parole fino a quel momento sconosciute, anche se perfettamente attinenti alla professione che pratichi da una vita intera. Il Covid-19 me ne ha fatta conoscere una nuova di zecca: “Infodemia”, che, come epidemia, o pandemia, ha una chiara attinenza con una diffusione contagiosa, ma che si riferisce a una materia, l’informazione, di cui, fino a non molti anni fa, nessuno, tranne i satrapi, i dittatori e i delinquenti, teorizzavano una possibile pericolosità.


Si tratta, ovviamente, di un neologismo, ma che trova già legittimo posto nel “Vocabolario Treccani” che così ne descrive il significato: «infodemia s. f. Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili» e che ne colloca la nascita sul quotidiano “Washington Post” dell’11 maggio 2003. Inoltre ne puntualizza anche, ove ce ne fosse bisogno, l’etimo inglese: «infodemic è composto da due parti dei sostantivi info(rmation) (informazione) ed (epi)demic (epidemia).

Non è che, come dimostra la data di nascita della parola, prima di oggi non si soffrisse di ridondanza di informazioni apparenti, ma oggi il rilievo delle truffe che in questa realtà si annidano è decisamente maggiore perché finisce per mettere in gioco la salute individuale e quella collettiva. Parlo esplicitamente di “truffa” perché, se tutti hanno diritto di esprimere il loro pensiero, non hanno anche quello di turlupinare gli altri e l’imbroglio non si concretizza soltanto con trucchi di destrezza, manuali o vocali, per appropriarsi di soldi altrui, ma anche trasmettendo false informazioni e presentandole come vere per indirizzare sulla strada sbagliata chi le legge, o le sente. Questo è già comunemente praticato dalla pubblicità e dalla politica che nei suoi aspetti deteriori assomiglia davvero a uno spot che può contenere soltanto slogan, perché la sostanza è del tutto latitante. Ma anche in quei casi non è accettabile.

Spesso si sente riversare le colpe di questa infodemia, già dilagante prima dell’avvento del coronavirus, su internet, sui social, sulle infinite possibilità che ci sono offerte dall’informatizzazione e che non sempre sfruttiamo in maniera degna. Ma è un errore, come un errore sarebbe tentare di limitarne l’uso. Per dare un esempio, noi sappiamo benissimo che statisticamente ogni giorno in Italia otto persone muoiono per incidenti di vario genere su strade e autostrade. Ovviamente, però, nessuno si sogna di proibire l’uso delle automobili, bensì ci si preoccupa di migliorare il Codice della strada e, poi, di fare tutto il possibile per farlo rispettare. Anche nel caso dell’infodemia, insomma, in caso di “incidente” la colpa non va attribuita al mezzo, ma a chi lo usa in maniera attiva e anche passiva.

La prima eventualità si può verificare se sono dei professionisti dell’informazione a truffare lettori e ascoltatori. Se lo fanno in malafede, il giudizio di condanna è facile e irreversibile. E anche se lo fanno per leggerezza, la condanna non può essere evitata perché professionalità giornalistica non significa soltanto saper trovare e verificare le notizie e poi tradurle in un brano letterariamente valido e in un titolo accattivante inseriti in una pagina graficamente gradevole: potrebbe farlo chiunque, e con relativamente poco addestramento. Perché un mestiere diventi professione, invece, deve poggiare su un solido substrato etico in quanto si deve tenere ben presente che il verbo “informare” non riesce mai a essere disgiunto dal verbo “formare”, mentre deve essere nettamente separato dal “disinformare”. E, per dare contorni ancora un po’ più definiti al tema, l’obbligo di una moralità, di una deontologia, esiste non perché la professione giornalistica nasca per educare, ma perché, se questa eticità manca, ne consegue, in maniera praticamente automatica, che finisce per diseducare. E di esempi purtroppo ne abbiamo avuti a bizzeffe.

Il secondo caso riguarda coloro che senza alcuna preparazione e con smania di protagonismo inondano la rete non con commenti, sempre leciti anche se non sempre condivisibili e talora addirittura inaccettabili, ma con notizie false. E in questo caso, dopo aver fatto il possibile per sensibilizzare tutti sul tema, appare difficile non pensare a sanzionare in qualche modo coloro che continuano a propalare, senza effettuare il minimo controllo, notizie false. E non si tratta di punirli come aspiranti giornalisti incauti, ma come veri truffatori.

La terza circostanza chiama in causa lettori e ascoltatori che, dando credito a chi da tempo continua a riempire carta ed etere di falsità, sono simili a coloro che, in altro campo, sono colpevoli di una specie di “incauto acquisto”. Ma non solo, in quanto hanno la grande responsabilità di dare retta a truffatori che, se nessuno li seguisse, sarebbero condannati a una specie di “damnatio memoriae”; smetterebbero perché non ne trarrebbero più alcuna soddisfazione.

Ecco: quando il Covid-19 se ne sarà finalmente andato, a noi dovrebbe restare anche questo insegnamento e l’insofferenza ad ascoltare coloro che, pur privi di ogni conoscenza e competenza, continuano a blaterare senza alcun senso del limite. Anche quando torneranno a farlo nella pubblicità e, soprattutto, nella politica.

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venerdì 27 marzo 2020

Le parole del virus: Futuro

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Finora se ne erano perse quasi completamente le tracce. Nell’esasperata idolatria del presente era stato comodo e riposante far finta di dimenticare il passato e di non sforzarsi di prefigurare il futuro.


Nei tempi del coronavirus, però, il passato è riapparso, almeno nel ricordare per quante volte le pandemie hanno messo a rischio la sopravvivenza del genere umano e delle sue civiltà e per quante volte – esattamente le stesse – gli uomini sono riusciti a uscirne per ricominciare a crescere.

Ma soprattutto è ricomparso il futuro. Nell’ansia derivata dal fatto che purtroppo sappiamo con certezza che ancora per migliaia di abitanti del mondo un domani non ci sarà, per molti il futuro è diventato un ottativo, un desiderio, un sogno da accarezzare. E per tutti ha ripreso quella consistenza che aveva quando si facevano progetti, si tentava di materializzare ambizioni e obbiettivi personali e generali, si pensava soprattutto al domani visto che si era ben consci che il passaggio meno importante è proprio il presente, perché è soltanto l’attimo che collega la fine del passato all’inizio del futuro. E che in questa fugacità recupera una sua importanza soltanto se si è consci che può indirizzare il tempo che verrà.

Non sono passati nemmeno quindici anni da quando Jacques Attali ha scritto una “Breve storia del futuro”, libro pieno di argomenti sui quali ci sarebbe tantissimo da discutere, ma che aveva due grandi pregi. Quello di ricordare, in premessa, che «la storia umana è quella dell’emergere della persona come soggetto di diritto, au¬torizzato a pensare e a gestire il proprio destino, libero da ogni obbligo che non sia il rispetto del diritto dell’altro alle medesi¬me libertà», e di far vedere che ragionare su quello che è possibile prevedere non è soltanto una sfida nella quale mettere alla prova intelligenza e conoscenza, ma dovrebbe essere soprattutto un esercizio obbligatorio per tutti. In primis per coloro, i politici, che alla società imprimono delle sterzate che derivano dalle loro decisioni e che, purtroppo, spesso sono prese a capocchia; non come conseguenza di indagini, studi e successivi ragionamenti, ma come reazione irriflessa, in tempi brevi, a necessità contingenti, o, ancor peggio, a squallidi calcoli elettoralistici.

E, per bene che vada, in questi casi il futuro pensato si espande soltanto a pochi mesi, o, al massimo, a un paio di anni in avanti. Poi c’è la nebbia e la speranza che i problemi si risolvano da soli, o la piena coscienza che ci sarà sempre qualcuno che, pur di raggiungere il potere, sarà più che ben disposto a raccattare la patata bollente.

Tutti ci dovremmo rendere conto che, come ha scritto Wislawa Szymborska nella sua poesia “Tre parole”, «Quando pronuncio la parola Futuro / la prima sillaba va già nel passato”. E che è proprio oggi, imprigionati dal Covid-19 che dovremmo ragionare attentamente su ciò che potrà essere perché, tra poco o tanto che sia, ci troveremo a operare su un terreno diverso da quello che conoscevamo, sconvolto dal cambio di abitudini, dal persistere di timori, dalla voglia di riprenderci quello che ci è stato tolto. E, come sempre, agire in terreni vergini, tutti da scoprire, comporta notevoli vantaggi, ma anche fortissimi rischi.

Per prima cosa, per quanto strano possa apparire a prima vista, uno spazio inesplorato sarà quello che ci si spalancherà davanti quando si riapriranno le porte che ora sono chiuse per proteggerci tenendoci dentro le mura della nostra casa. Quando questo succederà probabilmente ci troveremo in un equilibrio instabile tra la smania di riprenderci quello che ci è stato tolto e il timore che non tutto possa essere passato, tra la voglia di stringere le mani e il sospetto che quelle mani possano ancora essere pericolose.

Saremo capaci di tornare subito nei cinema, nei teatri, nelle sale di conferenze, negli stadi o nei palazzetti? O di sedersi in un ristorante senza scrutare, sospettosi, se la distanza tra i commensali, o, addirittura, con il tavolo più vicino, ci sembrerà congrua? Sapremo adattarci al nuovo panorama urbano che ci si presenterà davanti e che indubbiamente non potrà non risentire della crisi economica che si sta sviluppando in seguito alle necessità imposteci dal coronavirus? Quando la parola sicurezza tornerà per noi ad avere un significato concreto? 

E poi, più avanti, sapremo far tesoro di questa esperienza? Torneremo ad apprezzare il fatto che l’uomo non è in balia del destino, ma che è il destino a essere creato dall’uomo, con la sua dignità, il suo libero arbitrio, la sua voglia di costruire un futuro degno per sé e per gli altri? Terremo sempre presente che distruggere la sanità e l’istruzione pubbliche ci mette tutti in condizioni di grave pericolo? Ci ricorderemo che il mercato è importante, ma la delocalizzazione porta con sé anche rischi terribili, che la produzione non deve tener conto soltanto del guadagno, ma anche della sua compatibilità con l’ambiente e con la sicurezza di un lavoro che deve essere sempre capace di dispensare dignità e giusto compenso?

Se sarà così, questo continuerà a essere ricordato come un periodo orrendo, ma almeno lascerà anche qualcosa di positivo per noi e, soprattutto, per quelli che continueranno dopo di noi.


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giovedì 26 marzo 2020

Le parole del virus: Denaro

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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In una situazione senza precedenti si sta verificando un avvenimento senza precedenti: stiamo assistendo al fatto che il Covid-19 è riuscito, sia pur temporaneamente, anche a cambiare il rapporto dell’uomo con il denaro che, per la prima volta, viene visto separato, sia dal possesso, sia dalla produzione. Per una volta è lo Stato a decidere che, in maniera ufficiale e diffusa, la ricchezza – anche un tozzo di pane può essere ricchezza –sia data a chi ne ha bisogno senza chiedere nulla in cambio.


Non è una scelta dettata da considerazioni filosofiche o sociali, ma imposta dalla necessità: la chiusura di fabbriche e negozi, l’inattività obbligata non soltanto delle cosiddette "partite Iva", ma anche di coloro che non sono minimamente difesi da tutti quegli estemporanei contratti messi in campo dallo sciagurato Jobs Act, ha tolto ogni possibilità di ricavo di denaro a troppe persone che, tra l’altro, quasi certamente non hanno depositi bancari a cui attingere per comperare cibo e medicine, o per ottemperare ad altri impegni economici non differibili. Senza dimenticare, poi, quelli che vivono di spettacoli oggi totalmente sospesi.

Per la prima volta dopo molto tempo, insomma, si assiste al fatto che è possibile vedere concretizzarsi un mondo in cui non è il denaro a essere determinante nelle decisioni della politica, ma sono le necessità delle persone, e quindi la centralità dell’essere umano, ad avere il peso necessario per indirizzarne le scelte. La domanda sorge spontanea: se questa situazione è possibile temporaneamente, perché non si potrebbe pensare di farla diventare stabile, definitiva? Perché non sforzarsi di pianificare una società in cui ognuno lavori con impegno mettendo in pratica le proprie capacità e, in cambio possa ottenere tutto quello che gli serve e desidera, mettendo fuori gioco proprio il denaro?

Un utopia? Certamente. Ma non è mia e neppure di Karl Marx. È decisamente più antica ed è nipote di Platone che ne descrive la maggior parte delle basi nel suo “Repubblica”, e figlia di Tommaso Moro che nel 1516 pubblica un libro in cui descrive l’isola di Utopia abitata da una cosiddetta “società ideale” che si differenzia dalle altre in tantissimi campi e nella quale oro e argento sono considerati privi di valore, mentre i cittadini non possiedono denaro ma, lavorando ciascuno secondo le proprie inclinazioni e capacità, si servono dei magazzini generali secondo i loro bisogni e desideri.
 

Intendiamoci: desidero soltanto soffermarmi sul ruolo dato al denaro in quanto nelle visioni di Moro non ci sono ancora realtà sviluppatesi nei secoli a venire: il senso di partecipazione democratica; il fatto che il lavoro, com’è splendidamente messo in luce dall’articolo uno della nostra Costituzione, è anche di dispensatore di dignità, oltre che di denaro; la realtà che la libertà e la fantasia sono fondamentali nello sviluppo umano. Però, dato anche il fatto che le società ideali, proprio per la loro obbligatoria cristallizzazione, non sono umanamente accettabili, poste queste necessarie premesse e previste le obbligatorie correzioni, sarebbe davvero impossibile materializzare, almeno in parte, questo sogno?

Già nella parola “utopia” c’è una risposta affermativa a questa impossibilità, ma bisognerebbe anche ricordare che, mentre noi diamo per scontato che il nome dell’isola derivi etimologicamente dal greco “ou” (non) e “topos” (luogo), lo stesso Moro ha lasciato intendere che la prima parte del nome potesse derivare da “eu” (bello), anticipando così quel sogno odierno che dipinge l’utopia non come un luogo che non esiste, ma come un bel posto che non si è ancora raggiunto.

Se pensiamo al denaro nel nostro mondo, non possiamo non attribuirgli sia un’importante compito di funzionamento della società e di relazione con gli altri, sia l’opposta capacità di dissolvere i vincoli fondamentali della società stessa e di privarla del senso di solidarietà. E, del resto, nella lista delle cose imprescindibili che ci si porterebbe dietro su un’isola deserta, nessuno includerebbe il denaro.

Eppure le prove che il denaro, che quasi sempre si identifica con il potere, con la scusa della sua necessaria esistenza, possa corrompere ogni aspetto della nostra società sono tantissime. Si va dall’eclatante caso di Donald Trump che ritiene normale offrire un miliardo di dollari (ovviamente non suoi) per comperare il futuro vaccino contro il Conad-19 e per destinarlo esclusivamente ai cittadini statunitensi, in maniera da assicurarsi la rielezione, ad aspetti di cui non si parla mai e che, invece, sono estremamente descrittivi.

Pensate al mondo del calcio che, vista la sospensione dell’attività, sventola la possibilità di bancarotte diffuse, ma non soltanto nell’opulenta serie A, ormai più spettacolo che sport, che vive di incassi, ma soprattutto di diritti televisivi: la minaccia è estesa anche alle serie minori e all’attività giovanili per le quali spesso a essere insostenibili sono già le iscrizioni ai campionati e le tasse-gara che le federazioni, però, non si sognano di ritoccare in basso. Forse moriranno gli attuali campionati, ma, in tal caso, sicuramente rinascerebbero quelle realtà che cinquant’anni fa permettevano a tutti di giocare, e senza dover pagare neppure l’ingresso nelle varie società. E tutto questo, sia pure in maniere e proporzioni diverse, riguarda anche tutti gli altri sport che una volta erano anche occasioni di incontro, socializzazione, insegnamento al rispetto delle regole e che ora sono troppo spesso inquinati da insofferenze e odi per i diversi; di qualsiasi diversità si tratti.

Quando finalmente il coronavirus porterà via se stesso e, con sé, le nostre paure e ci lascerà piangere in pace i nostri lutti, spazzerà via sicuramente anche questa temporanea utopia di un mondo in cui il denaro non domina tutto. E ci lascerà la certezza che i soldi sono davvero, come li ha definiti san Basilio Magno, lo sterco del diavolo, ma anche che , purtroppo nessuno riuscirà mai a tirare lo sciacquone. E, però, con la sicurezza che qualche correttivo bisognerà pur trovarlo.

Le altre parole: Anonimo, Confine, Libertà, Scelta

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mercoledì 25 marzo 2020

Le parole del virus: Scelta

In questo terribile periodo dominato dal coronavirus sono molte le parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato. Sembra doveroso fissare questi pensieri in una specie di piccolo vocabolario per non dimenticarli quando questo orrore sarà passato.
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Sembra incredibile quante siano le parole che hanno nel loro significato profondo una loro forte duplicità che è stata messa ancor più in luce dal Covid-19.


“Scelta”, per esempio. A prima vista appare come una parola di grande fascino, perché legata a concetti altrettanto belli, come “libertà” e “democrazia”. Però questi giorni terribili hanno ricordato a tutti che la sostanza di ogni scelta, dell’intero e complesso concetto del libero arbitrio, consiste nell’assumersi delle responsabilità.

E nel fare pulizia riportando alla luce i significati profondi della parola, balza agli occhi che concetto di “scelta obbligata” è un ossimoro in quanto può nascondere soltanto due significati: che non c’è davvero alcuna possibilità di scelta e, quindi, di scelta è assurdo parlare, o che, più semplicemente, preferiamo rinunciare alla scelta perché andare contro quello che può apparire obbligatorio ci costerebbe troppo. E la storia è colma di esempi in cui una scelta di cieca obbedienza, di non scelta, ha provocato danni immensi a sé e agli altri.

Ma anche il concetto di non scelta è del tutto impossibile in quanto significa soltanto che, se l’inazione non è già di per sé determinante nell’indirizzare il futuro, l’opzione viene soltanto trasferita ad altri. E già questa è una scelta che, tra l’altro, non può togliere alcun peso dalla coscienza di chi crede di potersela cavare lavandosene le mani.

E sempre un ossimoro è la locuzione “scelta personale”, in quanto praticamente nessuna scelta potrà non coinvolgere altre persone, direttamente, o psicologicamente.

Nei tempi del coronavirus le scelte sono frequenti, costanti e, come sempre, scomode, o addirittura drammatiche.

Si può scegliere se e come occupare il tempo, magari riflettendo su aspetti sui quali la fretta, o la fatica degli impegni quotidiani, prima non ci avevano concesso di soffermarci con il pensiero, oppure permettere che il tempo passi su di noi apparentemente senza lasciare traccia. Si può scegliere se e come riuscire a mantenere i rapporti umani che hanno sempre bisogno di contatti per essere riattizzati e tenuti vivi, oppure lasciarli appassire. Sembrano decisioni di piccolo momento, ma non è così in quanto avranno un peso notevole quando ci sarà consentito di tentare di riprendere una vita normale che, comunque, in piccola o grande parte, sarà inevitabilmente diversa da quella che ci apparteneva fino a un paio di mesi fa.

Si può anche scegliere se obbedire o meno alle disposizioni governative che pretendono, con il giusto obbiettivo di fermare il contagio, che ognuno se ne stia separato dagli altri, che non esca di casa se non per obblighi lavorativi, o per assoluta necessità. E se si decide di infrangere la regola, o fregandosene completamente, o inventando qualche trucco che ci faccia sembrare apparentemente in regola, si devono avere ben presenti le conseguenze che, con grandi o piccole probabilità, possono derivarne.

E drammatico è il caso delle scelte che devono essere fatte in ospedale, quando il terribile affollamento, o la carenza di mezzi, o di tempo, impone ai medici delle scelte di precedenza che possono avere conseguenze decisive sulla sorte degli ammalati e che possono incidere in maniera violentissima sulla psiche di chi queste decisioni è costretto a prenderle.

Ecco, il recupero del concetto profondo della parola “scelta” dovrà accompagnarci anche alla fine dell’emergenza, dovrebbe restare chiaro nella nostra mente anche quando ci ritroveremo davanti a quei bivi che sono costanti nella vita di ognuno e che troppo spesso affrontiamo con annoiata, o scocciata superficialità.

Provate a pensarci. Sono tutte cose che sapevamo già, ma ora ci è chiaro che scegliere se evadere il fisco oppure no, può costituire la discriminante tra i tagli alla sanità, oppure una sanità come quella che ci invidiava praticamente tutto il mondo; in pratica tra salvare una vita, o lasciarla scivolare nel non essere.

E ci è chiaro anche che pesanti conseguenze hanno avuto tutte le occasioni istituzionali di scelta: quelle elettorali, nelle quali troppo spesso si vota per abitudine, o senza approfondire troppo, o si crede che non votare possa risolvere i propri problemi di coscienza. Anche la scelta di “non sporcarsi le mani con la politica” è stata terribile perché questa è stata la causa che ha portato la “politica” che aveva permesso all’Italia di risorgere dalle rovine della guerra a diventare la “politica” che ha scegto di ridurre a brandelli l’istruzione, di massacrare la cultura, di non finanziare degnamente la ricerca se non dava utili consistenti e immediati; perché è stata proprio la “politica”, con questi tagli, a porre le condizioni perché, praticamente prive di adeguata formazione, a candidarsi fossero troppe persone inevitabilmente non preparate.

Allora forse la finiremo di fare scelte senza pensarci perché questa esperienza ha messo in chiaro che anche le scelte fatte in pochi secondi, poi si possono scontare, in termini di rimorsi o di rimpianti, per il tutto il tempo che resta.

Le altre parole: Anonimo, Confine, Libertà

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martedì 24 marzo 2020

Le parole del virus: Confine

In questo periodo dominato dal Covid-19, mentre, in tempi e modi diversi, le varie nazioni decidevano inevitabilmente di ridurre le libertà di movimento e di lavoro dei propri cittadini, fino addirittura a far rinascere le frontiere che all’interno della Comunità Europea non esistevano più, mi è venuto spesso in mente l’aforisma di Ambrose Bierce che, nel suo Il dizionario del diavolo, scrisse causticamente : «Confine. s.m. In geografia politica, linea immaginaria fra due nazioni, che separa i diritti immaginari dell’una dai diritti immaginari dell’altra».

Una definizione che si attaglia perfettamente alla situazione odierna. A voler essere linguisticamente pignoli, si potrebbe obiettare che la traduzione avrebbe potuto essere più attenta usando la parola “frontiera” al posto di “confine”, in quanto queste due parole, pur descrivendo la stessa realtà, hanno etimologia e anima diametralmente opposte: frontiera, infatti, indica il luogo dove due entità si fronteggiano, si affrontano; confine, invece, descrive il posto in cui le stesse due entità mettono in comune, sì, la fine dei rispettivi territori, ma pongono anche a contatto, quindi almeno parzialmente in comune, realtà sociali e culturali diverse, che postulano occasioni e possibilità di contatto e, quindi, di dialogo, di apertura, di reciproco arricchimento. Dipende tutto da come le si vuole guardare, se con lo spirito di chi vuole aprirsi e aprire con la voglia di conoscere e comprendere, oppure con la determinazione a chiudersi in sterile difesa o, eventualmente, a sopraffare il diverso.

In questi giorni questi due significati diversi balzano agli occhi con forza, come con forza appare evidente l’artificiosità delle divisioni tra nazioni: per il virus non esistono assolutamente, come non ci sono nemmeno per gli animali, per gli uccelli, per tutta la natura.

Per ribadire l’essenza della parola “frontiere” si sono visti i leader italiani delle forze di destra dapprima invocare di chiudere ogni valico, ogni approdo, e poi, quando eravamo diventati noi – gli italiani – i più pericolosi propagatori del virus, chiedere di aprire di nuovo tutto, mentre erano gli altri governi ad aver pensato di sbarrare i possibili accessi agli abitanti della penisola. Niente di nuovo sotto il sole, se non il timore che uno dei più bei sogni sociali, quello dell’Europa Unita, possa subire altri colpi tali da frantumarlo, almeno temporaneamente.

E ancora più evidente appare il significato di “confine” che pone tanto a contatto realtà diverse da far capire con chiarezza che le differenze che affascinano la parte peggiore di noi sono soltanto superficiali e non essenziali. Pensate alla Cina che, dopo essere stata accusata di essere l’appestatrice mondiale, manda in Italia tonnellate di medicinali e apparecchi necessari per affrontare l’emergenza, oltre a un buon numero di medici con esperienza già acquisita e da dividere con i sanitari nostrani. E anche ai cinesi che vivono in Italia e che, prima, chiudono i propri negozi per far sentire la loro vicinanza alle sofferenze dei cittadini lombardi, e poi regalano migliaia di quelle mascherine che alcuni italiani, invece, hanno tentato di sfruttare per arricchirsi aumentandone il prezzo in maniera vergognosa.

E aiuti arrivano anche dalla Russia e soprattutto da Cuba che, mentre il virus sta approdando anche nei Caraibi, decide di mandare in Italia una sessantina di medici e infermieri che si sono già fatta una solida esperienza nel combattere i virus visto che hanno affrontato con successo, in Africa, l’espandersi del terribile ebola.

Né ha importanza minore il gesto di Husen Abdussalam, etiope, presidente dell'associazione Oromo, che ha portato agli operatori della CRI di Milano cinque carrelli colmi di prodotti alimentari, per l'infanzia e per l'igiene personale destinati alle famiglie milanesi in difficoltà. Perché? Semplice e commovente la risposta: «Ci avete salvati dal mare e adesso noi aiutiamo voi». Poca cosa, dirà qualcuno, ma questo è molto più di un gesto simbolico: è una dimostrazione molto concreta di solidarietà e di vicinanza.

L’ultimo esempio è recentissimo. In questi giorni più di un imbecille legato alla destra, ha cominciato – scusate il linguaggio, ma è il loro linguaggio – a chiedere «Dove cazzo stanno i medici “senza frontiere” che fino a un mese fa s’imbarcavano sulle navi ONG a 10 mila euro al mese? Dove cazzo stanno i “medici” (le virgolette sono loro, non mie) di Emergency? Dove cazzo sta il grande Gino Strada?». Ebbene la risposta era semplice, se non scontata: erano già ovunque – a Bergamo, a Cremona, a Piacenza, ma anche in Corea – dove il virus stava colpendo più duro.

A rendere più evidente questo confine – mi illudo che non sia per sempre una frontiera – tra gli imbecilli che accusano e quelli che in silenzio aiutano, è arrivata la richiesta del presidente della Lombardia, Fontana, leghista, che ha chiesto aiuto ad Emergency per gestire l'emergenza in Lombardia. E GinoStrada ha risposto: «Eccomi, sono pronto. Vengo ad aiutarvi».

Non servirebbe aggiungere altro, ma è difficile non notare che resistono frontiere terribilmente efficaci e incredibilmente difficili da abbattere. Sono quelle che separano i poveri dai ricchi, i giovani dai vecchi, i sani dai malati, i fanatici di una dottrina da quelli di un’altra, gli individualisti da coloro che credono nella solidarietà, i disabili da quelli che sono definiti “normodotati”, gli uomini dalle donne e così via in un’infinità di divisioni che abbiamo sempre sotto gli occhi e alle quali anche noi, più o meno consciamente, partecipiamo; o almeno non ci opponiamo con la dovuta decisione. Confini per abbattere i quali bisognerà lavorare ancora tantissimo. Anche quando il Civid-19 sarà diventato soltanto un orrendo ricordo.

Le altre parole: Anonimo, Libertà

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lunedì 23 marzo 2020

Le parole del virus: Anonimo

L’aggettivo “anonimo” è uno di quelli che non concedono vie di mezzo nel qualificare il sostantivo al quale viene appiccicato: può esaltarlo attribuendogli il massimo delle buone qualità, oppure può sprofondarlo agli inferi segnalando il massimo dell’abiezione. L’unica cosa certa è che non può mai lasciare indifferenti. Ci si può trovare, infatti, di fronte alla commovente donazione anonima di un milione di euro elargita da qualcuno che ha voluto restare in incognito in favore della Terapia intensiva dell’ospedale di Pordenone, ma anche davanti allo squallore disumano delle diffusissime minacce e dei dileggi anonimi, via telefono, o soprattutto via internet, che possono addirittura indurre al suicidio.

Quindi, lo sapevamo anche prima che la via di mezzo, in questo aggettivo, non è consentita; ma il Covid-19 ce lo ha ricordato in maniera violenta facendoci balzare agli occhi che l’anonimato non può e non deve riguardare le persone normali, quelle che ci circondano ogni giorno, noi stessi. Eppure fino a questo momento abbiamo visto andarsene oltre 5 mila persone, e il numero crescerà ancora, ma praticamente tutte per noi sono rimaste anonime. Eccezion fatta per qualche persona che era già famosa, o era parente di una persona conosciuta.

È inevitabile che torni alla mente quella frase attribuita al cinico e spietato Stalin: «Una morte è una tragedia, un milione di morti è una statistica».

Tutto cambia, però, nel momento in cui arriva la notizia che il virus ti ha portato via un amico, o un famigliare, che viveva in una delle zone più colpite. E allora ti torna in superficie quello che già sapevi con certezza: che i morti non sono importanti soltanto nel loro complesso in quanto permettono di definire la portata di una disgrazia, di un disastro, di una strage, di un’epidemia, o pandemia: i morti sono importanti, uno per uno, perché ognuno è importante per qualcuno e, quindi, lo è per tutta la società.

Si dice che, per la maggior parte, abbiamo dimenticato il culto dei morti, che la nostra società abbia trovato più comodo seppellirlo assieme a coloro che è troppo straziante ricordare. Eppure non è così.

È stata la società – e non soltanto per motivi patriottici – che ha fatto erigere Redipuglia in cui quasi tutti gli oltre centomila caduti lì sepolti hanno il loro nome inciso sui gradoni che salgono alla sommità della collina. E quando il nome non c’è e si ricorre alla dizione “milite ignoto”, dietro questa locuzione si avverte il disagio per aver dovuto cessare le ricerche di quel nome, tanto che – quasi come forma di riparazione collettiva – un monumento è stato eretto proprio per il Milite ignoto, quasi a voler dare un nome collettivo a tutti coloro che non ce l’hanno più.

E a richiamare i nomi, e quindi le individualità umane c’è anche il muro nero del “Memorial Wall”, all’interno del “Vietnam Veterans Memorial” di Washington dove sono incisi i nomi di 58.286 americani caduti in quell’insensata guerra in Estremo Oriente. Sicuramente nessuno li leggerà tutti, e, al massimo, cercherà soltanto quelli che conosce, ma lo sforzo è stato proprio quello di far ricordare che lì sono morti degli esseri umani, uno per uno, non una massa indistinta di uomini in divisa.

E anche dopo il terremoto del 1976 il Messaggero Veneto ha fatto uno sforzo considerevole per pubblicare le fotografie di tutti i quasi mille morti, sempre per indicare che erano mille immensi lutti e non soltanto un grande lutto collettivo.

Tutto questo non avviene soltanto quando l’umanità solidale era ancora in fasce, come nelle fosse comuni delle pestilenze del medioevo e dei secoli immediatamente successivi, o quando aveva cessato temporaneamente di esistere, come nelle fosse comuni dei Lager nazisti, o delle altre stragi della Seconda guerra mondiale e di altri conflitti successivi, o di dittature sparse in ogni angolo del mondo.
 

Il fatto è che, anche con il Cona-19, quelli che se ne vanno non sono soltanto morti: sono persone morte. E, come tutte le persone che vedi mentre vivono, non sono anonime: magari puoi non conoscerle, o non ricordarne il nome, ma continuano a essere persone con il loro bagaglio di esperienze, debolezze, affetti, gioie, dolori, dubbi, fatiche. E comunque accompagneranno a lungo la memoria di qualcuno di noi che, per il momento, siamo ancora qua, a guardare mentre loro se ne vanno.

Il Covid-19 è riuscito a farci capire che l’aggettivo “anonimo” non va appiccicato a loro, ma a noi che abbiamo il timore di rendere esplicito un dolore che non deve restare indistinto, ma dovrebbe essere la sommatoria di tanti dolori che devono restare nella nostra memoria perché non ci schiaccino con il loro peso, ma ci rendano capaci di essere più solidali e, quindi, più umani.
 

E questo dovrebbe valere sempre, anche nei tempi che finalmente non saranno più del coronavirus.


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domenica 22 marzo 2020

Le parole del virus: Libertà

Scrivere in questi frangenti non è facile. Se non fai cronaca – e la cronaca spetta solo ai giornalisti ancora in servizio attivo – puoi soltanto commentare e questo porta con sé il grande rischio di affrontare argomenti che diventano inessenziali rispetto al disastro mondiale che stiamo vivendo, di scrivere banalità, o di cadere nella retorica. D’altra parte, però, ci sono molte cose che queste circostanze insegnano oggi e che poi, quando questo orrore sarà passato, nell’ansia di riprenderci quella vita che consideriamo normale, rischieremmo di dimenticare. Quindi mi sembra opportuno, se non addirittura doveroso, fissare sulla carta (mi viene più naturale dire così che “sullo schermo”) alcuni di questi pensieri, legandoli alle parole di cui abbiamo scoperto, o riscoperto, il vero significato; creando una specie di piccolo vocabolario del virus, non ordinato, ma dipendente, nella scelta delle parole, dalle suggestioni più forti del momento.
 
Vorrei cominciare con la parola “Libertà” che proprio in questi giorni viene talora evocata per contestare le misure restrittive disposte dal governo nello sforzo di bloccare il contagio e, quindi, le morti. E, per dare un significato concreto alla parola in questione, credo sia meglio partire dalla nostra Costituzione che, all’articolo 13, proclama che «La libertà personale è inviolabile», ma poche righe dopo, specifica anche che «In casi eccezionali di necessità e urgenza, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori». E sembra difficile poter sostenere che questi non siano «casi eccezionali di necessità e urgenza».

Ma, per fissare ancor meglio il significato di libertà, partirei dalla definizione che ne dà il Dizionario di filosofia Treccani: «Libertà. Capacità del soggetto di agire (o di non agire) senza costrizioni, o impedimenti esterni, e di autodeterminazione scegliendo autonomamente i fini e i mezzi atti a conseguirli». Soltanto a prima vista potrebbe sembrare che la parola libertà abbia in sé il concetto di assoluta autonomia nelle scelte, perché la parola “autodeterminazione” mette immediatamente in dubbio che i limiti non ci siano. Anzi, chiarisce che non esistono né automatismi, né decisioni che possano sfuggire a profonde considerazioni etiche perché, visto che il concetto di libertà tocca tutti, indistintamente, ne consegue che la mia libertà può essere tale fino a quando non va a limitare, intaccare e compromettere la libertà altrui perché altrimenti diventa arbitrio e prevaricazione. Ed è difficile pensare a libertà più importanti di quelle legate alla salute e alla vita.

Quindi la proibizione di uscire, se non per motivi di assoluta necessità, appare pienamente legittima e, anzi, doverosa se la si inserisce – come va assolutamente inserita – nel quadro di una democrazia nella quale, almeno teoricamente, tutti sono uguali e tutti hanno i medesimi diritti e doveri; nella quale non ci siano discriminazioni di partenza per salute, età, censo, rinomanza, o altre categorie del genere.

Insomma, la libertà propria non può non essere compenetrata con la libertà altrui, sia nel caso di “libertà di…”, sia nel caso di “libertà da…”. Per essere ancora più chiari, non resta che rivolgersi a un grande cantautore, Giorgio Gaber che cantava «La libertà non è star sopra un albero / non è neanche avere un’opinione / la libertà non è uno spazio libero, / libertà è partecipazione».

Taluni pensano che ci troviamo di fronte a uno spaventoso bivio tra salute e diritti democratici, magari temendo che questa sospensione temporanea di alcuni diritti, fondendosi con i sondaggi che fino a qualche tempo fa davano praticamente per certo un governo di Salvini con la Meloni – gli unici due che, infatti, anche davanti alle processioni di migliaia di morti continuano incessantemente a fare campagna elettorale – possa diventare definitiva e magari allargarsi ad altri ambiti democratici. A questo timore si può dare una doppia risposta.

La prima riguarda l’oggi e sottolinea che, come giustamente ha detto Gustavo Zagrebelsky, «non c’è bisogno di chissà quale perspicacia per capire la differenza del coprifuoco imposto da Pinochet a Santiago del Cile e le limitazioni alla circolazione, anche pedonale, per motivi di salute pubblica».

La seconda riguarda il futuro e il pericolo del dominio di una destra sovranista che vada a incidere in un panorama democratico in cui è stata aperta un pur motivata crepa. In questo caso la risposta è un po’ più complessa e implica anche maggiore responsabilità. Perché la libertà è un diritto e come tutti i diritti non è insito nella natura, ma va conquistato e, una volta che lo si possiede, non è tale in forma definitiva, ma rischia sempre di dissolversi. Quindi dobbiamo e dovremo sempre saperlo difendere. Magari chiamando in causa una libertà di cui si parla sempre molto poco: quella dalla paura di dire e di fare qualcosa di sgradito a chi in quel momento, in qualunque ambito, dal più piccolo al più grande, detenga il potere.

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domenica 8 marzo 2020

Vivere e sopravvivere

Ho più di settant’anni e leggo che la SIAARTI, la Società scientifica degli anestesisti e rianimatori, ha scritto e diffuso delle raccomandazioni di etica clinica per tutti i professionisti che lavorano, con orari impossibili, in ognuno di questi difficilissimi giorni, nei reparti di terapia intensiva, sempre più evidentemente insufficienti come capienza, e che ogni giorno, anche più volte al giorno, sono chiamati a prendere decisioni terribili, a fare scelte che possono essere definitive. Il succo del documento è che bisogna privilegiare chi è più giovane, o comunque non ha patologie importanti; insomma, per essere chiari, «Può essere necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva».

La mia prima reazione è basata sull’istinto di conservazione, su una specie di concetto di legittima difesa, ma dura poco perché se un paragone di età si deve fare, è giusto farlo partendo da situazioni che puoi capire, quelle più vicine a te. E, per quanto mi riguarda, se penso a mia moglie, a mia figlia, a mia nipote, a mio genero, tutti più giovani, o molto più giovani di me, non ho il minimo dubbio che se qualcuno dovesse essere nelle condizioni di entrare in terapia intensiva e qualcuno dovesse restare fuori, quell’esclusione toccherebbe a me. E senza il minimo rimpianto.

Poi, procedendo in una specie di allontanamento razionale da una forma di naturale e comprensibile di egoismo personale e familiare, diventa naturale pensare che, in un maledetto mondo in cui non tutti hanno il diritto a sopravvivere – fino a ieri potevamo pensare a una specie di fantascienza catastrofista – i giovani hanno diritto a vivere più degli anziani. Esattamente il contrario di quello che succede in guerra dove sono i giovani a morire per primi e in numero maggiore. Ma si sa che la guerra è, in tutti i sensi, la somma ingiustizia di questo mondo.

Dopo, superato questo primo impatto emozionale e razionale, ci si rende conto che il problema non va individuato tra gli anestesisti, i rianimatori e la loro Società scientifica, bensì nel fatto che il numero dei posti in terapia intensiva è del tutto insufficiente: in Italia ne abbiamo 5.100, mentre la Germania ne conta sei volte di più. Perché? Forse la Germania è più spendacciona e ama gettare al vento i soldi con attrezzature che non sono necessarie? Ovviamente no.

La causa è che da noi da troppi anni i tagli su bilanci statali risicati e traballanti si continuano a fare pervicacemente e ciecamente sui settori che, pur essendo i più importanti per il presente e per il futuro, sembrano essere i più deboli: la sanità pubblica e l’istruzione e la cultura. Adesso per gli ospedali si tenta di correre al riparo aumentando del 50 per cento, in maniera necessariamente raffazzonata, il numero di posti letto in terapia intensiva e aumentando di 20 mila unità gli addetti ai lavori, medici o infermieri che siano. Tutto aiuta, ma certamente non risolve.

E allora, se vogliamo che davvero questa moderna pandemia – che sia più o meno mortifera di quelle classiche poco importa – ci possa insegnare qualcosa di concreto che vada oltre le buone intenzioni favolistiche che restano tali, dobbiamo porci alcune domande molto serie. Perché abbiamo sopportato e magari contribuito in maniera attiva, o passiva, a quell’evasione fiscale che ci mangia ogni anno 120 miliardi abbondanti che sarebbero largamente bastati per dare alla sanità tutto quello che sarebbe servito? Perché non abbiamo mai voluto estirpare il fenomeno delle mazzette che impoveriscono le casse statali e abbruttiscono una società che non può dirsi onesta e democratica se permette tutto questo? Perché non ci ribelliamo a coloro che, a parole, sanno risolvere tutto, ma, per raccattare voti, puntano soltanto sulle paure ingenerate dai teorici pericoli dell’immigrazione mentre spendono cifre incredibili per telecamere che servono soltanto ad alimentare quel senso di insicurezza che appare totalmente falso, visto che un’indagine internazionale di pochi giorni fa ci pone, a pari merito con il Lussemburgo, al primo posto in quanto a sicurezza tra tutti i paesi europei? Perché continuiamo a votare persone che promettono mari e monti e che quando raggiungono il potere che desiderano non si sognano di dare agli italiani nemmeno laghetti e colline? Perché ci siamo colpevolmente girati dall’altra parte permettendo che i partiti, che costituzionalmente dovrebbero essere la cinghia di trasmissione tra il popolo e chi può e deve decidere, si siano ridotti in questo stato?

Insomma se siamo in questa situazione, se ci si trova davanti a una scelta tra chi aiutare a salvarsi e chi lasciare che si salvi – se ci riesce – da solo, la colpa è sempre di tutti noi, veri specialisti nel peccato di omissione, capaci di parlare, ma riottosi a “sporcarsi le mani” – così si dice – con la politica e con i partiti, come se i panettieri, o i muratori, gente che costruisce qualcosa di tangibile, le mani non se le sporcassero.

Quindi, non posso neanche sfogarmi con un «Andate tutti a quel paese», perché dovrei urlare «Andiamo tutti a quel paese». E uso questa locuzione perché nel mio blog non voglio scendere nel turpiloquio.

Cosa ci potrebbe essere peggio di così? Semplice: arrivare la prossima volta alle urne – referendarie o elettorali che siano – con la stessa svampita inadeguatezza con cui ci si è mossi nella maggior parte fino ad adesso. E, se la salute ce lo permette, cominciare a essere arrabbiati davvero e a farlo capire con le parole e con i comportamenti. Anche perché ai più giovani non dobbiamo dare soltanto maggiori probabilità di sopravvivenza, ma anche migliori condizioni di vita. Perché vivere è molto di più di sopravvivere. Anzi, è addirittura totalmente diverso.

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giovedì 5 marzo 2020

I referendum al tempo del virus

Come sempre, se qualcosa mette paura – e l’epidemia del nuovo coronavirus, il Covid-19, mette paura a tutto il mondo – finisce per catalizzare l’attenzione generale sulle sue più drammatiche conseguenze. E in questo caso le vittime non mancano di certo: migliaia di morte che non sono numeri di una statistica, ma persone in carne e ossa che lasciano anche profondi strascichi di dolore; decine di migliaia di uomini e donne contagiati; altri che vedono andare in fumo le loro attività lavorative che non sanno se sapranno riprendersi dopo una pausa imposta, ma anche inevitabile; altre ancora che, pur di rimbalzo, soffriranno per una crisi economica che appare inevitabile. E, in sovrappiù, isolamenti forzati, socialità ridotte, solitarie tristezze. Tutte queste cose riempiono giustamente la maggior parte degli spazi e dei tempi degli organi di informazione, ma ci sono anche altre possibili vittime che, per ora, restano fuori dall’area di attenzione.
 
Una di queste vittime nascoste rischia di essere la nostra democrazia. Tra meno di un mese, infatti, dovremmo andare alle urne per confermare o bocciare la legge costituzionale che vuole tagliare del 37% i parlamentari italiani e praticamente nessuno ne parla. Un po’, certamente, perché tutti gli sforzi sono diretti a fronteggiare questa nuova possibile pandemia, ma anche in quanto è generale la voglia di non attirare l’attenzione su qualcosa che potrà decidere il nostro futuro. I 5stelle non vogliono mollare quella che è stata una delle bandiere del loro populismo elementare; il PD, anche se la stragrande maggioranza dei suoi aderenti e simpatizzanti è per il “No”, tace in quanto teme di mettere a rischio il già traballante equilibrio del governo; Lega e Fratelli d’Italia, dopo aver permesso di arrivare al referendum, ora lo vogliono veder fallire perché sperano di mirare a ben altri obbiettivi. Renzi, come spesso accade, in sintonia con Forza Italia, non dà indicazioni precise anche se i suoi soliti desideri di governi forti sembrano spingerlo verso il sì. Molte associazioni preferiscono non prendere posizione ufficiale per paura di scontentare una parte sicuramente minore dei loro aderenti.

Quindi, anche per il decreto che giustamente impedisce assembramenti, assemblee, convegni e riunioni varie, si rischia di arrivare a un fulcro della democrazia com’è il referendum, senza minimamente discuterne prima; senza neppure ricordare l’appuntamento. E questa situazione non dipende soltanto dal coronavirus, ma anche dai progetti ben calcolati della destra e dalla pavidità e scarsa lungimiranza della sinistra.
Salvini, anche se le situazioni politiche, sociali, sanitarie e del tipo di consultazione sono diversissime dice: «Hanno votato in Israele, non vedo perché non si potrebbe votare in Italia». Ma poi, nell’invitare a votare “Sì”, finisce per spiegare la sua scelta: «Se il popolo italiano confermerà questa legge, è evidente che il Parlamento sarà ulteriormente delegittimato e non è immaginabile che questo Parlamento possa andare a eleggere il Presidente della Repubblica». E Giorgia Meloni inizialmente si accoda per poi accelerare specificando che porterà avanti una sua «proposta per l’elezione diretta del Capo dello Stato». Che tutto questo cambi profondamente la lettera e lo spirito della nostra Costituzione è evidente, ma è altrettanto chiaro che Salvini e compagnia vogliono arrivare proprio a questo, togliendo potere al Parlamento per trasferirlo sempre più prepotentemente al capo del governo.

E l’appetito – è sempre accaduto – vien mangiando. Quale altra funzione, infatti, finirà per avere il Parlamento ridotto, se non quella di fare da specchietto per le allodole permettendo al satrapo di turno di protestare la propria democraticità sbandierando l’esistenza di un Parlamento che – vale la pena ricordarlo – esiste ed è esistito nominalmente anche in tutte le dittature del mondo.

Non soltanto stupisce, ma addolora e toglie molte speranze per il futuro che quello che dovrebbe essere il partito di riferimento per tutto il centrosinistra, e anche quello che dovrebbe rappresentare la sinistra, non si schierino ufficialmente con forza per il No, ma siano anzi protagonisti di un silenzio assordante.

Eppure potrebbero far leva sui motivi del “No” che ci sono e sono anche incontestabili. A fronte di un teorico risparmio irrisorio (57 milioni di euro l’anno, un po’ meno della rinuncia di un caffè a testa per ogni italiano nell’arco di dodici mesi), si verificherebbe, infatti, una perdita secca per la democrazia in quanto la diminuzione del numero dei parlamentari farebbe crescere la loro distanza dai cittadini e dal territorio visto che l’Italia scenderebbe all’ultimo posto dei 27 Stati membri dell’Unione europea nel rapporto fra deputati e abitanti. Inoltre si consegnerebbe il lavoro delle commissioni parlamentari a pochissimi membri di pochi partiti riducendo di molto il ruolo del Parlamento a livello legislativo e di controllo sull’operato del Governo. Con questo, poi, salterebbe in grandissima parte il concetto costituzionale di rappresentanza. Per la nostra regione, per esempio, il No costituisce anche una difesa dello Statuto Speciale ed è l’unica alternativa che permette a tutti i territori, anche spopolati come la montagna, e alle minoranze linguistiche di essere rappresentati.

Sono argomenti che andrebbero approfonditi e che in questa sede saranno ripresi, ma che rischiano di sparire dall’attenzione generale fino a voto avvenuto, magari con affluenze risibili dovute sia al disinteresse, sia al timore per il virus.

L’unica cosa certa, ma che non può far esultare è che i grillini sono stati davvero di parola visto che hanno mantenuto la loro prima promessa fondamentale, quella dei “Vaffa Day”, di mandare tutto e tutti a quel paese. Prima hanno omologato la Lega che molto ha copiato da loro sostituendo Grillo e la Casaleggio Associati con la Bestia. Poi hanno fatto lo stesso con il Partito democratico, che ha sposato il loro programma di governo accettando sullo slancio anche parte di quello di Salvini, e il fatto che siano ancora validi i cosiddetti decreti sicurezza grida vendetta. Sia con la Lega, sia con il PD, i 5stelle hanno perso, però, caratteristiche e faccia e, infatti, ora sono in via di sparizione. Proprio come promesso: un Vaffa Day che si sta portando via i partiti, la nostra democrazia, e, per coerenza, anche lo stesso Movimento 5 stelle.

Ma non c’è davvero nulla da ridere. Ed è per questo che sono nati – anche nella nostra regione – svariati movimenti che si stanno impegnando, pur nelle limitazioni imposte inevitabilmente dai decreti antivirus, per risvegliare le coscienze assopite o spaventate. E anche per far spostare doverosamente in avanti la data del referendum; ovviamente se al valore di una democrazia cosciente e partecipata si crede davvero.

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