giovedì 31 dicembre 2020

Virus e vaccini

Per definire la serietà politica e intellettuale dell’iniziativa basterebbe pensare che Renzi vorrebbe che la delega ai servizi segreti fosse data a Ettore Rosato, quello che è riuscito, sotto dettatura, a intitolarsi il peggior sistema elettorale della storia; per comprendere la gravità della situazione è sufficiente constatare che, mentre servirebbe accelerare il lavoro organizzativo e progettuale per poter ottenere i miliardi di euro già stanziati dall’Unione Europea, la quasi totalità dell’attività politica italiana è assorbita dal ricatto portato avanti da Renzi che, con il suo 2 per cento abbondante attualmente attribuitogli dai sondaggi, vuole comandare tutto e tutti imponendo i suoi desideri legati alla quantità e qualità di poltrone da ottenere adesso, quando alle viste ci sono momenti di tale apparente ricchezza da far dimenticare con facilità i debiti futuri.

Per carità, il governo Conte non sarà certamente ricordato come il migliore della storia italiana, ma sta di fatto che il capo di un partito che ha scelto di darsi il nome di “Italia viva” sta cinicamente operando per sfruttare al massimo le minacce di morte per quella stessa Italia che, senza i contributi europei, sprofonderebbe non soltanto economicamente. Al suo confronto Turigliatto (per chi non se lo ricordasse, quell’erede di Bertinotti che fece cadere il secondo governo Prodi) sembra avere la statura dello statista: lui, almeno, aveva un ideale che, pur nella sua miopia, non coincideva soltanto né con il potere, né con il denaro.

Potrebbe riuscire difficile comprendere come questo Paese possa prefigurare per sé un futuro accettabile se si considera quello che è accaduto in questi ultimi dieci mesi di un anno da dimenticare. Gente che ha messo, nella scala dei valori, il proprio diritto al divertimento davanti al diritto alla vita di decine di migliaia di altre persone; “politici” – chiamiamoli così per deprecabile abitudine – che, pur in presenza di un dramma di proporzioni planetarie, hanno continuato a comportarsi come se l’unica cosa importante fosse la prossima campagna elettorale, a prescindere da quando arriverà; operatori sanitari di ogni genere e grado che vorrebbero lavorare negli ospedali, ma senza vaccinarsi, senza neppure pensare a quanti loro colleghi hanno dovuto sacrificare la vita perché volevano fare il loro dovere pur senza avere la possibilità di difendersi efficacemente; e si potrebbe andare avanti a lungo senza trarre consolazione alcuna dal fatto che le medesimi cose stanno accadendo anche in altre parti del mondo. Saranno minoranze, ma riescono a inceppare un intero meccanismo.

E, a proposito di vaccini, mentre guardiamo ammirati una scienza che in meno di un anno è riuscita a trovare delle contromisure per poter opporsi a quel nemico invisibile, ma spietato, che si chiama Covid-19, non possiamo non chiederci come da millenni non riusciamo a trovare un vaccino che possa combattere la tentazione di mandare il cervello all’ammasso preferendo, alla fatica di ragionare com-patire e impegnarsi, la comodità di seguire un capo capace di far finta di avere soluzioni che servano a tutti e non soltanto a se stesso. Un vaccino che non soltanto renda difficile a gente come Trump, Putin, Bolsonaro e mille altri, veri e propri "virus", tra cui, in sedicesimo, i nostri Renzi, Salvini, Meloni di arrivare a posti di potere, ma, soprattutto che obblighi la gente a pensare prima di votare.

Auguri a tutti. Ne abbiamo davvero bisogno.

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martedì 15 dicembre 2020

Pensierini di Natale

«Come sapete ci aspetta un Natale molto magro perché stanno pensando addirittura di aggravare ulteriormente le proibizioni. Io penso che le persone siano un po’ stanche di questa situazione e vorrebbero, alla fine, venirne fuori. Anche se qualcuno morirà, pazienza». Non è una frase estrapolata da uno dei tanti social grondanti odio per qualsiasi persona diversa da chi lo scrive, né è stata necessariamente scritta (ma forse anche sì) da un integralista degli aperitivi, da un elemento di estrema destra, o da un resistente alla cosiddetta “dittatura sanitaria”. A pronunciare queste parole inqualificabili, un vero e proprio pensierino di Natale all’incontrario, è stato il presidente di Confindustria Macerata, Domenico Guzzini, mentre parlava del Covid e delle ricadute economiche della pandemia durante un evento ufficiale on line dedicato alla moda.

In questa frase c’è una disumanità talmente forte da non essere tollerabile, da rendere difficile non soltanto credere alle proprie orecchie, ma anche accettare che a pronunciarla sia stato un essere umano. Eppure dovremmo avere la capacità di non stupirci grazie al callo creato da una storia di nefandezze inimmaginabili, e non soltanto in un’antichità che spesso guardiamo con la spocchia di chi, da presunto evoluto, guarda quelli che considera un po’ selvaggi, ma anche in epoche praticamente contemporanee quando uomini come Hitler, Mussolini, Stalin, Pol Pot e, per venire a giorni ancora più vicini a noi, Osama Bin Laden, Sharon, Bush, e una sfilza di persone che sarebbe troppo lungo elencare, che hanno avuto il potere di far uccidere tanti altri uomini da non poterne tenere un conto esatto. Mentre altri forse non hanno ammazzato con le armi, ma hanno ucciso con la fame e con le umiliazioni.

Subito dopo sono arrivate le scuse dello stesso Gozzini: «Sinceramente chiedo scusa a tutti e in particolare alle famiglie toccate dal dramma del Covid, per la frase che ho pronunciato. Ho sbagliato nei contenuti e nei modi; ho fatto un’affermazione sbagliata, che non raffigura il mio pensiero, né tantomeno quello dell’Associazione che rappresento».

Il problema, però, non è quello delle scuse: ormai valgono sì e no un centesimo la tonnellata e nessuno si scompone più neppure se deve smentire se stesso, magari accampando una temporanea incapacità di intendere e di volere. Il problema è che nessuno potrebbe mai pronunciare una simile bestialità se prima non l’avesse già pensata; se non fosse convinto che qualcuno di quelli che l’hanno ascoltata alla fine, sottovoce, dirà all’oratore: «Hai fatto bene. Era ora che qualcuno lo dicesse».

Scandalizzarci è naturale ancor prima che obbligatorio: può rassicurarci del fatto che possediamo ancora qualche briciola di umanità, ma serve davvero a ben poco. Avremmo dovuto farlo ben prima; quantomeno quando si sono aperte le porte dei campi di sterminio e si è visto cosa c’era dentro; quantomeno quando, assieme ai nostalgici fascisti, sono apparsi i negazionisti; quantomeno quando si è assistito al fatto che sempre più flebili sono state le reazioni alla scandalosa pretesa di parificare i partigiani desiderosi di libertà e democrazia ai repubblichini schiavi di Hitler e dei suoi criminali aguzzini; quantomeno quando Salvini, dietro al motto “Prima gli italiani”, ha creato decreti che hanno fatto morire nel Mediterraneo migliaia di persone che nessuno è andato più a salvare; quantomeno quando abbiamo lasciato che un partito che si definisce di centrosinistra, dopo aver accettato di avere tra le proprie file un ministro come Minniti, ha lasciato che i decreti Salvini restassero in vigore a lungo per poi ammorbidirli, ma non ancora cancellarli del tutto. Dovremmo scandalizzarci in primis di noi stessi.

I Guzzini ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre: innamorati più del benessere proprio che della vita altrui, indifferenti al fatto di poter favorire il diffondersi del contagio, interessati più alla possibilità di bere e mangiare in compagnia che ai bollettini di morte diffusi ogni pomeriggio, sensibili più alle esigenze del mercato che a quelle della vita, convinti che a morire saranno sempre gli altri. Ma il vero problema non sono loro: sarebbero trascurabili inezie se sbattessero contro quell’indignazione generale che è sempre stata la molla per ogni progresso sociale. Oggi quella molla appare allentata e se non si riuscirà a darle nuovamente tono, i veri colpevoli saremo noi.

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domenica 13 dicembre 2020

Le due competenze

Tutte le grandi crisi – e la pandemia causata dal Covid-19 non fa eccezione – portano con sé disastri, lutti e sofferenze, ma anche momenti di chiarificazione che solo apparentemente sono più o meno importanti, mentre in realtà sarebbero sempre utilissimi se diventassero, pur in un mondo terribilmente ed egoisticamente distratto, preziosi momenti di insegnamento per tutti.

Provate a pensare alla violenta polemica che rischia di mandare a casa un governo pur in piena crisi pandemica, regalando probabilmente il potere a figuri come Salvini e la Meloni e rischiando di perdere almeno una fetta dei miliardi di euro stanziati per l’Italia dall’Unione Europea. È una polemica che si sviluppa proprio sull’indirizzamento e sulla gestione di questa massa di miliardi davanti ai quali si sono inevitabilmente scatenati quei tantissimi appetiti che mai vanno in crisi, ma, anzi, si rallegrano davanti alle disgrazie altrui. Ricordate i due che, pensando ai futuri guadagni derivanti da appalti e mazzette, si telefonavano ridacchiando subito dopo la scossa che aveva raso al suolo L’Aquila e un bel po’ di Abruzzo?

Da una parte c’è Conte che vorrebbe una gestione piramidale, con lui stesso al vertice e, sotto, una nutritissima schiera di “tecnici”. Dall’altra Renzi che, non potendo pretendere di essere lui stesso al vertice, ha come prima preoccupazione quella di impedire di raggiungere quella posizione a chiunque altro e, per ottenere questo scopo, rivendica il primato della politica sulla tecnica nelle scelte. In mezzo, con infinite sfumature, tutti gli altri, generalmente con un occhio più attento al bene proprio che a quello generale.

Lasciamo perdere il fatto che ogni cosa detta da Renzi puzza lontano un miglio di interesse privato, ma questa volta c’è la netta sensazione che entrambe le posizioni abbiano in sé qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato. E tutto deriva, come spesso accade, dal fatto che uno stesso vocabolo può essere usato con intenzioni del tutto diverse, se non diametralmente opposte.

Questa volta a finire sul banco degli accusati è la parola “competenza” che ha, appunto, almeno due significati. Nella prima accezione, competenza significa «Piena capacità di orientarsi in un determinato campo»; nella seconda, invece, vuol dire «Legittimazione normativa di un’autorità, o di un organo, a svolgere determinate funzioni». E le due cose sono immediatamente percepibili come potenzialmente molto lontane. Un esempio chiaro è rappresentato da Danilo Toninelli che, quando era incredibilmente ministro delle infrastrutture e dei trasporti nel primo governo Conte, aveva indubbiamente la “competenza” per firmare qualsiasi carta ministeriale, ma non necessariamente quella per capire a fondo cosa vi era scritto e, tantomeno, quella, ben più importante, per dare un’impronta a una politica utile alla nazione nel settore di sua “competenza”.

La stessa cosa si potrebbe dire oggi anche di Luigi di Maio che ha la “competenza” del Ministero degli Affari esteri, ma sicuramente non quella necessaria a trattare davvero gli “affari esteri”: la stessa evanescenza davanti all’omicidio Regeni ne è una dimostrazione indiscutibile.

Sul perché politica e competenza non coincidano quasi mai si potrebbe discutere a lungo tirando in causa in primis il fatto che, visto che la quasi totalità dei partiti punta soprattutto a guadagnare voti per le elezioni successive, la competenza è inevitabilmente subordinata alla visibilità, la sostanza all’apparenza, la qualità alla rinomanza. Ma è anche indiscutibile il fatto che la competenza scientifica finirebbe per mettere irreversibilmente in crisi troppo spesso la politica, quando le scelte sono fatte pensando, appunto, alla visibilità e non alla concretezza.

Così non fosse non staremmo assistendo alle grandi discussioni su come passare Natale e capodanno e su come uscire dal proprio comune senza minimamente pensare alle decine di migliaia di morti causati da quella specie di “liberi tutti” estivo che ha favorito la diffusione del coronavirus e ci staremmo domandando, invece che gioirne, come mai la nostra regione, con tanti morti e tanti contagiati da essere citata come “maglia nera” in Italia dal New York Times, possa essere considerata “gialla”.

Dall’altra parte si può sicuramente argomentare che alcune scelte scientificamente inappuntabili, se totalmente avulse dalla situazione sociale del posto e del momento, finirebbero per creare scompensi più gravi dei benefici.

Resta il fatto che tentare non soltanto di mettere insieme le due “competenze”, ma addirittura di unirle, quando si è ai vertici è praticamente impossibile. Bisognerebbe lavorare per compenetrarle quando si è ancora giovani e aperti, anche perché non ancora irrigiditi dalle abitudini e dall’autostima.

Un’utopia? Assolutamente no. Una volta all’interno dei partiti educare politicamente e dare strumenti di giudizio per affrontare problematiche le più diverse possibili era la regola; e nessuno si vergognava di interpellare dei tecnici per acquisire anche la competenza scientifica da appaiare a quella istituzionale. Poi, più che sparire questa pratica, sono spariti i partiti, non tanto come nome, ma come sostanza costituzionale, come gruppi capaci di raccogliere persone che la pensano più o meno allo stesso modo ed entità in grado di percepire i problemi della gente e di trasportarli, come un’efficiente cinghia di trasmissione, nelle stanze dove si può decidere. Ora tutto questo non c’è più e fin quando non tornerà le due competenze non potranno mai compenetrarsi.

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mercoledì 25 novembre 2020

Non un sorriso, ma un sogghigno

Un sogghigno e non un sorriso davanti a tanti negozi chiusi
Non so se ve ne siete accorti, ma è da un po’ di tempo che, oltre a essere invasi insopportabilmente da spot pubblicitari televisivi in cui Amazon chiede a tutti di comprare tutto e al più presto usando il suo canale commerciale, anche i normali motori di ricerca sono infestati da quella bocca stilizzata con freccia che vorrebbe rappresentare un sorriso, ma, invece, materializza il sogghigno di chi non soltanto fa di tutto per incrementare, oltre al proprio guadagno, pure il consumismo, ma anche si impegna a massacrare qualsiasi tipo di concorrenza e ad allargare quello che, anche se ancora non ufficialmente, si avvicina a diventare un vero monopolio, parola che in teoria, in un libero mercato, dovrebbe essere assimilabile a una bestemmia.

Già da tempo è all’ordine del giorno il fatto che Amazon e altre grandi società del web godono di benefici fiscali che noi, comuni mortali, neppure ci immaginiamo. Per capirci, Mediobanca ha reso pubblico il fatto che i colossi del web in Italia realizzano ricavi per 3,3 miliardi di euro, ma nel 2019 hanno pagato in tasse soltanto 70 milioni  di euro. A versare di più – si fa per dire – è stata Amazon con 10,9 milioni a fronte di un fatturato di 1 miliardo abbondante di euro. Le tasse, naturalmente, si calcolano sugli utili e non sui ricavi ma il dato sul fatturato fornisce in ogni caso una notevole indicazione dimensionale. Queste società, poi, non rendono noto come sono suddivisi i profitti nei diversi Paesi e comunque, attraverso operazioni tra filiali domiciliate in diversi Stati, riescono a spostare gli utili nei paesi dove il prelievo è bassissimo, o inesistente. Con queste tecniche definite di “ottimizzazione fiscale”, sottolinea Mediobanca, i big di internet sono riusciti a sottrarre al fisco italiano, tra il 2015 e il 2019, qualcosa come 46 miliardi di euro.

Già come si diceva è un po’ vomitevole vedere una decina abbondante di volte in una serata spot nei quali improbabili personaggi spingono a comprare subito – tramite Amazon, naturalmente – tantissime cose in maniera tale da avere tempo libero sotto le feste per fare attività altrettanto improbabili. Ma, come per ogni altra cosa, quando c’è la pubblicità si può cambiare canale, andare a mangiare o a bere qualcosa, o fare altre attività.

Ben più invadente è lo sbarco in forze sui motori di ricerca perché in quelli siamo noi a entrare volontariamente e non certamente per vedere le offerte di Amazon. Oggi, per esempio, se voi provate a inserire nella casella apposita di qualsiasi motore di ricerca le parole “Divina Commedia” ai primi posti della lista appaiono invariabilmente inviti firmati dal colosso del commercio informatico che promette, con involontario umorismo: «Divina Commedia: tutte le novità», o, più grettamente «Risparmia su Divina Commedia: spedizione gratis», o, ancora, «Divina Commedia. Gli altri libri del suo autore».

Ora è evidente che Amazon, approfittando anche delle difficoltà di spostamenti provocate dal coronavirus, si sta facendo largo a spintoni in una foresta in cui ancora non sono stati tracciati sentieri legislativi obbligati e che questo è stato fatto sia per ignoranza, sia per più o meno consapevole acquiescenza da parte dei politici che dovrebbero normare questa situazione e che, non facendolo, diventano i primi e più pericolosi nemici dei commercianti di vecchio stampo che, magari, però proprio per loro votano Ma altrettanto evidente è che Amazon può contare sulla complicità dei motori di ricerca che puntano soltanto ad avere accessi e che non si curano minimamente dei frutti che, alla lunga, tutto questo comporterà: la distruzione del libero mercato, la chiusura della maggior parte degli esercizi commerciali, la chiusura di migliaia e migliaia di siti che ormai non serviranno più perché dietro a loro non si saranno più imprese, né negozi.

E noi cosa possiamo fare? Troppo piccoli per fare qualcosa? Fosse così, probabilmente saremmo ancora all’epoca dei nobili per diritto di nascita e degli schiavi non soltanto di fatto, ma anche di nome. Il fatto è che tutte le rivoluzioni che hanno lasciato profonde tracce nella storia sono sempre nate da singoli individui che hanno trovato inaccettabili determinate situazioni e non soltanto si sono rifiutati di accettarle, ma hanno continuato a parlarne anche ad altra gente: così facendo gli individui sono diventati masse e le proteste sono diventate rivolte che sono l’innesco necessario per quasi tutte le rivoluzioni che cambiano le cose e ci riportano sulla strada dei miglioramenti sociali.

La ricetta, insomma, è fatta di sei ingredienti: boicottare, boicottare, boicottare e parlarne, parlarne, parlarne. Ne varrà sicuramente la pena.

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martedì 24 novembre 2020

Una crisi ci cambia comunque

Una società laica è, per definizione, quella in cui non si attribuisce un peso in maniera preponderante a un’opinione che arriva da una religione, o da un suo rappresentante, rispetto alle altre. Non è certamente quella in cui le opinioni di origine ecclesiastica sono scartate fin dall’inizio, a prescindere. E allora non è sorprendente, ma preoccupante, lo scarso spazio dato da alcuni organi di informazione ai contenuti del videomessaggio che sabato Papa Francesco ha inviato ai giovani del mondo per il futuro dell’economia. E ancora più normale, ma ancor più allarmante, purtroppo, appare il fatto che tutto sia stato velocemente lasciato cadere.

Eppure si tratta di un’analisi non soltanto importante, ma fondamentale per i destini della nostra società – e quindi dei suoi componenti – che ancora una volta, però, sono troppo concentrati sugli aspetti del presente per soffermarsi sulle necessità future.

Ricordo solo pochi passaggi del Pontefice: «Passata la crisi sanitaria che stiamo attraversando, la peggiore reazione sarebbe di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di au-toprotezione egoistica. Non dimen¬ticatevi, da una crisi mai si esce ugua¬li: usciamo meglio, o peggio. Faccia¬mo crescere ciò che è buono, coglia¬mo l’opportunità e mettiamoci tutti al servizio del bene comune». Francesco, poi, ha lanciato il “Patto di Assisi” per un nuovo modello di svi¬luppo che rifiuti la “logica dello scar¬to” e impari dagli errori della crisi del 2008 ma anche da questa pandemia mondiale. «Non siamo condannati – ha detto – a modelli economici che concentrino il loro in¬teresse immediato sui profitti come unità di misura e sulla ricerca di poli¬tiche pubbliche simili che ignorano il proprio costo umano, sociale e am¬bientale».

In definitiva, è un invito a cambiare profondamente le basi su cui si modella il funzionamento – se così lo si può chiamare – della società in cui siamo cresciuti e in cui viviamo, nella quale siamo talmente abituati a essere inseriti che ogni cambiamento appare difficile, se non impossibile, perché finirebbe per coinvolgere tutto, comprese quelle leggi sociali su cui sono modellati ogni comportamento individuale e collettivo.

Il problema è che, come si è già appurato in svariate occasioni, che la legalità non sempre corrisponde alla giustizia, e che una società nella quale le regole più certe sono quelle della disuguaglianza e dell’approfondirsi delle differenze tra i poveri e i ricchi, tra garantiti e non garantiti, tra coloro che vivono in una democrazia reale e quelli che sopravvivono in una democrazia apparente o in una satrapia, tra liberi e schiavi, rischia sempre più concretamente di diventare un incubatore di rivolte e di violenze.

L’unico frutto di una sollecitazione a pensare e ad agire conseguentemente da parte di Francesco sarà ancora una volta la reazione degli integralisti cattolici e delle persone di destra che accuseranno il Papa di essere di sinistra, se non addirittura comunista, mentre la reazione di coloro che credono davvero che senza giustizia sociale si stia andando di corsa verso il disastro sarà assorbita per la quasi totalità nell’impegno a difendere il Pontefice da accuse stupide e assurde.

Intanto, nessuno prenderà davvero in considerazione la sostanza delle parole di Papa Francesco: che la rincorsa al profitto immediato è la maggior causa dei mali che ci stanno affliggendo ben da prima dell’arrivo del Covid e che se non ci renderemo conto che da tutte le difficoltà o si esce insieme, o non si esce proprio, i problemi che ci troveremo davanti saranno ancora più drammatici di quelli che già oggi fanno accapponare la pelle.

Una volta era la politica a occuparsi di rendere concrete le vie d’uscita dalle situazioni più drammatiche e pericolose, oggi, al di là di chi è assorbito dalla lotta al coronavirus, è impegnata soprattutto a fare propaganda e a cercare voti per le prossime elezioni, in qualunque data esse siano previste. Questo non è il frutto di una vera democrazia, ma soltanto di propagande che curano l’immagine e non la sostanza, che puntano a solleticare gli appetiti di varie categorie e non la ricerca del bene comune. È triste che a parlare così sia soltanto il Papa. Ancora più triste è che le sue parole, generalmente, non inducano a pensarci sopra seriamente.

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giovedì 19 novembre 2020

Orgoglio e rimorso

Normalmente si indica l’intelligenza come la caratteristica che distingue gli esseri umani dagli animali. Ma, al di là del fatto che certe forme di intelligenza esistono anche in diverse specie non umane, credo che siano altre, e di tipo emozionale, le caratteristiche che mettono in luce, senza ombre di dubbi, la differenza. Tra queste un posto di rilievo spetta all’orgoglio e al rimorso, sentimenti di cui negli animali non si trova traccia.

Ogni essere davvero intelligente, infatti, ha il suo orgoglio ed è in grado di misurarlo grazie alla propria capacità di conquistalo, mantenerlo e, se del caso, riconquistarlo. È l’orgoglio che rivela la fiducia nei propri mezzi e spinge il genere umano verso tutte le conquiste, materiali e intellettive. Questo – la storia lo ha sempre messo in rilievo – vale per tutti, anche per i prigionieri e per gli schiavi. E l’orgoglio, per quanto strano a prima vista possa apparire, è strettamente legato alla capacità di sviluppare il sentimento del rimorso, al saper ammettere, insomma, anche con se stessi, i propri errori, soprattutto quando sono causa di problemi e di danni agli altri.
In questi nostri tempi, sia l’orgoglio, sia il rimorso stanno attraversando un periodo di obnubilamento. Ma, se l’affievolirsi dell’orgoglio lascia perplessi, è l’evidente e progressivo sparire del rimorso a sconvolgere perché indica, oltre al dominio dell’indifferenza, un’evidente incapacità di collegare le proprie azioni con le conseguenze che ne derivano, rendendo drammatica la cesura tra noi e il resto del mondo, ma anche quella, che avviene in noi stessi, tra istinto e ragionamento, tra individualismo e appartenenza a una comunità.

È stato proprio il Covid a mettere in luce questa situazione che non può non ricordare quella frase di Hobbes, «Homo homini lupus», che eravamo stupidamente convinti si aver esorcizzato non in tutta la società, ma quasi. Invece non è così.

Abbiamo visto e stiamo ancora vedendo stuoli di persone che hanno negato e negano l’evidenza della pandemia, pur davanti a migliaia di morti, quasi che se sulla pelle non appaiono delle pustole, non si può credere a una malattia. Continuiamo a notare persone che girano senza mascherina, o con naso e bocca comunque scoperti, quasi a voler dimostrare una propria supposta invulnerabilità. Abbiamo sentito che in Svizzera il governo confederale ha deciso di estromettere dai reparti di terapia intensiva i troppo anziani e i troppo malati, con una minuziosa definizione di quei “troppo” che, oltre a essere opinabile, è sicuramente disumana. Abbiamo assistito attoniti a vere e proprie guerriglie urbane per ribadire un fantomatico “diritto all’aperitivo”. Stiamo vivendo giornate in cui da più parti si praticano fortissime pressioni per far togliere, o almeno diminuire, le proibizioni legate ai colori giallo, arancione e rosso, che non sono stabilite per sadico masochismo, ma perché è l’unico modo per riuscire a contenere una pandemia che, in questa seconda ondata, è diventata addirittura più veloce e virulenta che nella prima.

Ecco: quello di cui si nota la quasi totale assenza è proprio il rimorso. Eppure è incontrovertibile il fatto che i morti di questi giorni sono la grave conseguenza, forse inconsapevole, ma comunque frutto di colpevole leggerezza, di tutte le sciocchezze compiute in estate, quando molti si sono illusi che tutto fosse finito, mentre altri, per pura speculazione politica inneggiavano alla libertà – ma soltanto alla propria, non a quella di tutti – per aizzare gli animi contro coloro che dovevano, assolutamente dovevano, prendere provvedimenti restrittivi.

Oggi non si percepisce alcuna traccia di rimorso tra i politici sardi che hanno deciso scientemente di correre qualche rischio pur di non far chiudere le discoteche a ferragosto, né traccia di rimorso si scorge in Salvini che ha dato dei mentecatti a tutti coloro che, mettendosi la mascherina, non facevano i “virili” come lui, grande imitatore di quell’intelligentone di Trump. Non c’è traccia di rimorso nei presidenti di regione che stanno tentando di trattare sui 21 parametri utilizzati per definire il colore delle varie zone, e non per renderli più precisi, ma per ridurne la severità. Stiamo parlando ancora e sempre un numero imprecisato di vite umane da sacrificare sull’altare di una logica di mercato che ci ostiniamo a chiamare economia, ma che è totalmente avulsa da ogni forma di socialità e solidarietà. Fortunatamente è proprio tra coloro che sono costretti alla chiusura, o alla limitazione dell’attività lavorativa che si sentono le frasi più aderenti alla drammaticità del momento, che si rendono conto che molte morti sono state causate da semplici imprudenze.

È assurdo sentire che la scienza può dire quello che succede, ma poi è la politica a decidere se i dati certi vanno presi in considerazione, o meno. Sarebbe come affermare che per legge si può prendere in mano una sbarra di metallo rovente; se poi ci si scotta sono fatti di chi si scotta, non di chi gli permette di scottarsi, o addirittura incita a farlo.

Se vediamo che soltanto in Italia ogni giorno ormai muoiono oltre cinquecento persone, non possiamo far finta di non vedere, né possiamo non ripensare criticamente a se abbiamo fatto tutto il possibile per far rallentare il contagio, sia operando su noi stessi, sia sugli altri. Difficile? Certamente perché è necessario mettere in discussione le premesse del nostro modello di vita e di sviluppo, e considerare come criteri, il limite, l’uguaglianza, la giustizia sociale e la redistribuzione delle opportunità e delle risorse disponibili. Difficile, ma obbligatorio.

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giovedì 12 novembre 2020

Che virus uccide la nostra civiltà?

Ma c’è davvero da temere che sia il Covid-19 a mettere in pericolo la sopravvivenza della nostra cosiddetta “civiltà”? O, forse, è proprio la nostra cosiddetta “civiltà” ad avere già in sé il virus dell’autodissoluzione, un virus così violento da sgretolare tutto quello che tocca, dall’etica all’economia, dalla cultura alla democrazia.

Fateci caso e lasciate pur perdere le realtà che già di per sé sono talmente orrende da non permettere alcuna titubanza nei giudizi, come la disumanità dei tanti Trump, Bolsonaro, Salvini e chi più ne ha più ne metta. A far pendere verso il pessimismo le nostre aspettative non sono, infatti i cattivi, ma i presunti buoni.

Pensate all’esserino di sei mesi – Joseph si chiamava – che è morto nel Mediterraneo pur dopo essere stato salvato dall’annegamento nell’ormai consueto naufragio di un gommone stracarico, dopo essere stato recuperato da uno stato di ipotermia dovuto alle acque gelide del mare di novembre. Il suo corpicino, però, non ha resistito a tutti questi stress e ha ceduto proprio quando sembrava che avrebbe potuto farcela.

Troppo tempo in acqua, mentre attorno a lui altri sei sono stati ingoiati dalle onde. Troppo tempo anche perché soltanto una nave stava incrociando da quelle parti mentre tutte le altre, che una volta si prodigavano proprio per salvare i naufraghi, erano bloccate in porto da sanzioni amministrative decise dal nostro attuale governo, da quel governo che ha affermato di aver finalmente cancellato i decreti Salvini, ma che, in realtà, li ha soltanto modificati addolcendone le parole, ma non i significati; facendo un passo di propaganda verso coloro che credono nella solidarietà, ma non muovendosi quasi neanche di un millimetro nell’abbandonare quella disumanità che ci rende indegni di considerarci un popolo evoluto e democratico, che ci fa capire che siamo ancora ben lontani dal comprendere che la libertà non è una proprietà privata, ma un bene collettivo.

È vero: questo governo sta attraversando la peggiore delle crisi dopo la guerra, sta facendo del suo meglio per cercare di trovare la via per salvare più gente possibile, pur dovendo scendere a patti con le esigenze dell’economia e la diffusa idiozia della gente. Ed è altrettanto vero che non tutto ha funzionato perché si sono persi dei mesi pensando prematuramente che si fosse già fuori dal tunnel e, quindi, non rafforzando a dovere la sanità pubblica e lasciando ancora una volta che le case di riposo diventassero dei gironi infernali e troppo spesso mortali.

Sarebbe assurdo, oltre che impossibile, cambiare in corsa, anche perché l’alternativa sarebbe quella di vedere al governo coloro che fino a ieri si vantavano di non usare la mascherina. Ma sta di fatto che, pur impegnandosi a dare una mano a chi sta svolgendo questo terribile compito, un giudizio etico su questo governo è già scritto ed è umanamente negativo.

Cancellare davvero lo spirito dei decreti Salvini non sarebbe costato molto, se, non, forse, in termini di propaganda subita, e non avrebbe certamente distratto da altre incombenze fondamentali come quella di salvaguardare gli ospedali, le case di riposo, le scuole, i luoghi di utilità pubblica. Il fatto è – e questo è imperdonabile – che adesso nessuno ammetterà mai di aver favorito la morte di Joseph per squallidi calcoli di opportunità politica e di convenienza, ma è proprio questo che è stato fatto e che, purtroppo succederà ancora.

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mercoledì 16 settembre 2020

Referendum: il peccato originale

Di Maio: una menzogna determinante
Anche nel dibattito al Centro Balducci tra le ragioni del Sì e quelle del No al referendum di domenica ha trovato spazio l’apparente contraddizione tra una Camera dei deputati che vota a larga maggioranza (ma non tanto larga da evitare il referendum) per la riforma proposta dai grillini e la stessa Camera che raccoglie le firme necessarie, pure tra coloro che hanno approvato la legge, per far indire, appunto, il referendum confermativo
. Dal rappresentante dei 5stelle è stato anche messo in rilievo il forte assenteismo alla votazione finale, un assenteismo che – chissà perché? – con il taglio di 230 deputati e 115 senatori secondo loro sparirebbe.

Due le risposte. Il notevole numero di assenti al momento del voto è stata proprio la prova che l’assenso alla proposta grillina era soltanto di facciata da parte delle segreterie della maggior parte dei partiti. Il PD, infatti, temeva il ricatto di Di Maio e complici di far cadere il governo, senza avere il coraggio di andare a vedere un bluff abbastanza scoperto visto che in nuove elezioni la pattuglia della Casaleggio Associati in Parlamento si ridurrebbe sicuramente a meno della metà. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, invece, hanno votato a favore proprio nella vana speranza di far salire in superficie l’incompatibilità tra qualsiasi tipo di sinistra e i 5stelle. Oggi, infatti, buona parte dei dem, ma anche dei forzisti, leghisti e meloniani ha dichiarato che voterà “No”.

Per quanto riguarda l’assenteismo, in questo caso non va neppure tirato in ballo perché il motivo non era dettato da pigrizia, ma da deliberata scelta politica. Gran parte degli assenti, infatti, non era neppure entrata a Montecitorio; altri erano usciti al momento del voto per non rendersi corresponsabili della prima delle nefandezze dei pentastellati contro la Costituzione (le altre due, già presentate come proposta di legge, sono la nascita del referendum propositivo e quella del vincolo di mandato), ma tentando contemporaneamente di non schierarsi apertamente contro il proprio partito.

Spesso, poi, si trascura che a questo punto non saremmo dovuti arrivare non perché il referendum non dovesse essere convocato, ma in quanto normalmente questa proposta di legge non avrebbe dovuto neppure superare i primi passi. Fondamentale in truffa politica è stato il primo slogan di Di Maio – di cui non si parla quasi più – sui presunti grandi risparmi. Lui parlava di un miliardo l’anno, mentre, poiché molte spese parlamentari sono fisse e ineliminabili, in una legislatura – dicono gli esperti – si risparmierebbero circa 285 milioni; 57 milioni l’anno. Vuol dire che, visto che gli italiani sono circa 60 milioni, per mantenere in vita l’attuale situazione basterebbe che ognuno di noi rinunciasse a meno di un caffè l’anno: un sacrificio non troppo pesante per difendere la democrazia.

Tutto questo porta anche a considerare che due sono le ipotesi: o Di Maio mentiva sapendo di mentire, o non conosceva minimamente la creatura che vuole cambiare. In entrambi i casi si può pensare che la richiesta di migliore eticità e competenza dovrebbe riguardare proprio la possibilità di non vedere più in Parlamento personaggi come lui.

Ma il punto fondamentale è un altro: non ci fosse stata questa menzogna iniziale con tutta probabilità la proposta di legge non avrebbe fatto breccia né tra gli stessi 5stelle che in quel momento stavano godendo della loro massima espansione, né tra tanti altri che comunque non vedono l’ora di castigare chi fa politica. Questo avrebbe comportato un minore sostegno alla proposta e soprattutto un minore timore da parte di tutti gli altri partiti di restare esclusi dai dividendi di un populismo che prospera soprattutto proprio sui teorici privilegi della cosiddetta “casta”. In definitiva, il referendum non ci sarebbe perché, senza quel peccato originale, il progetto sarebbe abortito subito.

In ogni caso oggi, se non vincesse il “No”, la conseguenza sarebbe una limitazione dell’ambito delle discussioni con le quali cercare le soluzioni migliori, presentando le proprie idee, confrontandole con quelle altrui, disponendosi a mediazioni e compromessi pur di avvicinarsi il più possibile al bene dei cittadini. A questo proposito, non vorrei usare un vocabolo per lui difficile come “etimologia”, ma se Di Maio e soci avessero analizzato, anche sommariamente, quello che è avvenuto tra il 1946 e il ’48, avrebbero notato che i padri costituenti si sono sempre riferiti a un “Parlamento” e mai a un “Votamento”, perché la funzione principale delle due Camere è, appunto, quella di parlamentare, di discutere i problemi analizzandone ogni sfaccettatura. Il voto è soltanto l’accessorio finale, il momento in cui ognuno decide coscientemente se approvare, o meno, il testo di una nuova legge.

Si dirà che la riduzione di compiti e poteri assembleari è già realtà a livello di comuni, provincie e regioni. In quei casi la vittoria, magari con orrendo turno unico maggioritario, convoglia tutti i poteri nelle mani del sindaco, o presidente, e delle loro giunte, mentre le minoranze non soltanto sono ridotte numericamente a simulacri di democrazia, impoveriti dai premi dati alle maggioranze, ma anche dal fatto che sindaci, o presidenti, e consiglieri di maggioranza sono legati da un doppio e vicendevole ricatto: se il primo si dimette, o i secondi non sono d’accordo, tutti devono andarsene a casa. E molto spesso, pur di non lasciare il seggio, non pochi preferiscono approvare anche qualche provvedimento con cui non sono proprio in sintonia. In quei casi un effettivo, se pur non ufficiale, vincolo di mandato funziona già. Non allarghiamolo.

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venerdì 11 settembre 2020

I perché di un no: 5 - I nemici

I sondaggi dicono che a pochi giorni dal voto il “No” al referendum è in netto recupero, ma è ovvio che soltanto all’apertura delle urne si conoscerà il responso definitivo. Il mio impegno nel sostenere il “No” è motivato dalla speranza che la legge voluta dai grillini sia bocciata, ma mi interessa anche che da questa vicenda coloro che hanno idee di centrosinistra e di sinistra possano trarre insegnamenti per il futuro perché la cosa che più mi spaventa è che sembra che dalle tante sberle che ci siamo presi non abbiamo ancora imparato quasi nulla, se non, forse, il fatto che non possiamo credere che le nostre idee debbano vincere semplicemente perché siamo certi che siano quelle giuste.

Nulla cambierà infatti fino a quando non ci renderemo conto che sono tre i grandi nemici da sconfiggere. Ve li elenco in ordine crescente di pericolosità,

Nel caso di questo referendum i primi sono, anche se per motivi e con obbiettivi diversi, coloro che non amano la nostra Costituzione, quelli che vogliono cambiarne tessuto e sostanza, che rifiutano la democrazia rappresentativa e tendono a riporre più potere nelle mani di meno persone.

I secondi sono gli indifferenti, per ignoranza o ignavia. Ma anche coloro che sono talmente schifati dalla situazione politica e sociale che preferiscono non votare, o addirittura votare “Sì” «per fargliela vedere a quelli là», perché «tanto non cambierebbe nulla e io comunque alle prossime elezioni non saprei per chi votare». Mi ricordano coloro che davanti a uno tsunami che sta per scaraventarsi su di loro se ne stanno fermi perché «tanto chi mi assicura che l’onda non mi travolgerà anche lassù in alto dove potrei anche riuscire ad arrivare».

I terzi, i più pericolosi, siamo noi stessi, impegnati più a distinguere le pagliuzze negli occhi dei vicini che le travi in quelli dei lontani, avversari o nemici che siano. Siamo disposti a dedicare ore ad arzigogolare su particolari e su intransigenze assortite, ma molto meno aperti a impegnarsi nella propaganda che non è soltanto quella fatta di discorsi, o interviste alla televisione, o sui giornali, ma molto di più di dialoghi quotidiani, con i parenti, gli amici, i colleghi, coloro che ti sono vicini mentre fai la spesa, o sei in fila in qualche ufficio.

Una volta lo sapevamo perfettamente; ora sarebbe il caso di ricordarlo: una maggioranza silenziosa diventa davvero maggioranza soltanto quando smette di essere silenziosa. E il nostro diffuso stare zitti non mette in evidenza dignità, ma soltanto un colpevole peccato di omissione, ben più grave di quelli di pensieri, parole e opere.

Se vogliamo davvero veder finire questa maledetta notte che sembra interminabile, facciamoci sentire e non solo in queste ultime due settimane, ma davvero per sempre.
Mi rendo conto che i prevalenti interessi di bottega politica, la mancanza di tempo e i sacrosanti divieti di assembramento sono stati e sono formidabili ostacoli alla propaganda per il “No”, ma la speranza e la determinazione devono essere le ultime a morire. Anche tre anni fa i “No” all’inizio erano dati largamente perdenti e poi abbiamo visto come fortunatamente è finita.

Spero fortemente in un bis e, quindi, dico che fino all’ultimo secondo dovremo fare tutto quanto sta nelle nostre possibilità per far cancellare questa legge.

Del resto, quali sicurezze può offrire la vita? L’unica certezza assoluta è che quando ti arrendi hai perso e finisci per trascinare con te anche altri che magari non vorrebbero assolutamente accettare una simile fine.

Ripeto: votare “No” non è una scelta, ma l’unica strada possibile se si crede ancora nella democrazia rappresentativa. Anche perché le dittature del XXI secolo sono e saranno molto più sofisticate di quelle del secolo scorso, ma non meno efficaci e non meno spietate.

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I perché di un no: 4 - Le necessità

Colpisce molto, ma non stupisce, che i 5stelle pensino di cambiare le cose puntando sulla quantità e non sulla qualità. Eppure dovrebbe essere evidente per tutti che perché un sistema politico funzioni, sia esso proporzionale o maggioritario, occorre che ci si affidi a gente preparata. Ed è proprio questo lo snodo fondamentale per decidere di bocciare questa legge: bisogna lavorare sulla qualità e non sulla quantità di senatori e deputati.

L’articolo 49 della nostra Costituzione afferma il diritto dei cittadini «di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Spiace dover tirare di nuovo in causa Gelli, ma sarebbe delittuoso dimenticare che tra i suoi obbiettivi c’era anche quello della «riduzione dei partiti di massa a reti di club orbitanti attorno a un’oligarchia autolegittimata e a un leader carismatico». Ed è evidente che oligarchie e leader carismatici campano molto più tranquilli in paludi di ignoranza che in mari in cui il ribollire di idee può far traballare qualche loro decisione; soprattutto se sbagliata. Poi, addirittura, le capacità di alcuni potrebbero minare l’autorità di chi stila le liste bloccate a proprio piacimento per assicurarsi amici fedeli e non necessariamente intelligenti.

E, infine, potrebbe far fastidiosamente ricordare, magari anche ai promotori della legge che spero riusciremo a cancellare, che l’articolo 67 della Costituzione recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

Ma torniamo ai partiti che erano considerati come aggregazioni organizzate di persone che avevano ideali sociali abbastanza simili, come collettori di istanze popolari da trasmettere ai poteri legislativi ed esecutivi e come organismi ai quali era deputata la scelta della classe politica futura. Nelle prime due funzioni i moderni partiti, o movimenti, sono stati terribilmente carenti sia perché è diventato fastidioso parlare di ideali e di coscienze, cioè di ideologie, sia in quanto il mondo della politica ha perduto troppi contatti con quello nel quale dovrebbe vivere. Ma è stata la funzione educatrice e formatrice a essere quella più fallimentare.

Una volta la selezione interna era attenta, rigorosa e presupponeva quasi sempre un lungo apprendistato con responsabilità crescenti. Il risultato era che in Parlamento arrivavano persone quasi sempre preparate e convinte delle proprie idee. Poi tutto questo è finito: i posti in lista sono diventati una specie di assalto alla diligenza in cui vince chi promette di portare più voti alla causa, o chi, con la Piattaforma Rousseau, in certi casi si limita a racimolare i voti di qualche decina di amici. Competenza e preparazione non c’entrano più e chiedere ai partiti di oggi di fare spontaneamente una legge che regolamenti la vita dei partiti stessi è pure fantascienza perché corrisponderebbe a una specie di suicidio.

In queste condizioni ridurre il numero dei parlamentari, ben lungi dall’indebolire la cosiddetta casta, finirebbe per rafforzarne il potere.

Altra necessità è quella di mettersi seriamente a studiare – ma anche in questo caso ci vuole competenza ed esperienza – se e come migliorare l’architettura costituzionale lasciando inalterate le garanzie e migliorando non la produttività, visto che, semmai, le leggi in Italia sono già troppe e spesso in contrasto tra loro, ma la qualità e la comprensibilità; eliminando quei bizantinismi fatti di vocaboli astrusi e di decine e decine di rimandi ad altre leggi che consentono una pur parziale comprensione soltanto a pochi e che aumentano di svariate volte le occasioni di scontri giudiziari.

E assolutamente necessario è anche non demandare a scatola chiusa, con una delega in bianco, una riforma costituzionale a un futuro Parlamento ridotto. Ci preoccupiamo per il prossimo Presidente della Repubblica e non per una Costituzione magari fortemente diversa? Come si può parlare, infatti, di riforme strutturali della nostra democrazia, senza neppure accennare a quale potrebbe essere la nuova ingegneria parlamentare. Forse quella di Renzi già bocciata tre anni fa? Oppure l’elezione diretta di un premier come da sempre auspicato dalla destra? O, ancora, con una cosiddetta “democrazia diretta” come sognato dalla Casaleggio Associati?

La storia ci ha insegnato che commettere errori non è facile, grazie alle guarentigie costituzionali, ma che ci si può riuscire. Il fatto è che tornare indietro è ancora più difficile.

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giovedì 10 settembre 2020

I perché di un no: 3 - I fariseismi


Al di là delle menzogne e dei pericoli insiti nei veri obbiettivi dei cambiamenti proposti, a preoccupare sono anche i fariseismi che probabilmente riescono a fare anche danni maggiori. Infatti finiscono per mettere in dubbio l’intera validità politica e sociale di coloro che con miopia tentano di sopravvivere e di far sopravvivere le loro creature politiche condannandole, invece, a una morte che forse sarà un po’ ritardata, ma che, così facendo, diventa sicuramente inevitabile perché è l’intera fiducia che per anni è stata riposta da tanti elettori in alcuni personaggi e in una parte della classe politica a finire nell’immondezzaio.

Se a qualcuno restasse il dubbio su a chi mi stia riferendo, pur con il grande disagio e la tristezza di chi ha sempre votato da quelle parti, non ho difficoltà a puntualizzare che sto parlando di quella parte del PD – e anche di altra sinistra – che ha invitato a ripetere anche nel referendum quello sciagurato “Sì” già dato in Parlamento.

Non riesco a lasciar perdere, infatti, il fatto che un partito che dovrebbe essere l’erede degli ideali che ho sempre sentito miei non sappia esprimere una presa di posizione coerente e che non sia infarcita di “se” e resa ancor più sfocata e incomprensibile da un numero elevatissimo di condizionali e di giri di parole criptici. E ancor meno riesco a digerire l’idea che quello stesso partito prenda in giro non tanto coloro che, come me, non hanno dubbi sul votare “No”, ma coloro che hanno ancora perplessità sulla scelta da fare.

Il bello è che adesso Zingaretti, pur in una posizione di assoluta scomodità, ha addirittura accettato di ammainare anche quella bandiera con la quale si pretendeva che,in cambio di un voto di conferma, fosse almeno votata una riforma elettorale su base puramente proporzionale.

Come dicevo, in realtà si tratta soltanto di una presa in giro dell’elettorato per il timore di far arrabbiare i grillini in quanto il segretario del PD teme che potrebbero, in caso di vittoria dei “No”, far cadere il governo.

E, del resto la scusa di volere una nuova legge proporzionale aveva la stessa consistenza della scusa del risparmio sulle spese parlamentari con il quale si era giustificata la presentazione della legge. Cioè nessuna.Basterebbe pensare che una promessa, nel magmatico e più che tollerante mondo politico italiano, può essere tranquillamente disattesa e che i 5stelle non sarebbe nuovi a imprese del genere. Inoltre, visto che una legge elettorale non deve sottostare né ai quattro passaggi richiesti per le leggi costituzionali, né, eventualmente, a maggioranze qualificate, è evidente che qualsiasi regola potrebbe essere cambiata con relativa facilità da qualunque maggioranza.

E Zingaretti non può certamente far finta di non vedere che un’approvazione referendaria della riduzione dei parlamentari combinata con l’attuale legge elettorale farebbe sì che certi meccanismi ipermaggioritari applicati al Senato cancellerebbero in alcune regioni, come il Friuli Venezia Giulia, fino a quasi metà delle scelte degli elettori.

Mentre con la nuova ipotetica legge proporzionale, comunque rimarrebbe inalterato il fatto che se i collegi sono molto ampi e pochi sono i candidati da eleggere rispetto al numero dei votanti, il sistema proporzionale ha, in pratica effetti simili a quelli del maggioritario. Non è un’opinione: è semplice matematica applicata ai meccanismi elettorali.

Personalmente amo decisamente il proporzionale perché ritengo più importante la rappresentanza rispetto alla governabilità e amo la democrazia molto più del decisionismo: capisco che la prima è più lenta e faticosa del secondo, ma so anche che assicura che saranno commessi meno errori gravi e inemendabili.

Il 18 settembre 1946 Umberto Terracini pronunciò durante i lavori dell’Assemblea Costituente, a proposito della rappresentanza democratica delle parole che sono ancora attualissime e illuminanti: «Il numero dei componenti un’assemblea – disse in aula – deve essere in un certo senso proporzionato all’importanza che ha una nazione, sia dal punto di vista demografico, che da un punto di vista internazionale». E poi ha continuato: «La diminuzione del numero dei componenti sarebbe interpretata come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti, quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni. Se nella Costituzione si stabilisse l’elezione di un deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe quest’atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell’ordinamento parlamentare. Quanto alle spese ancora oggi non v’è giornale conservatore o reazionario che non tratti questo argomento così debole e facilone. Anche se i rappresentanti eletti nelle varie Camere dovessero costare qualche centinaio di milioni di più, si tenga conto che di fronte a un bilancio statale che è di centinaia di miliardi, l’inconveniente non sarebbe tale da rinunziare ai vantaggi della rappresentanza».

È certo che Terracini neppure concepiva l’idea che in un futuro potesse nascere un Movimento 5stelle. E sicuramente neppure quella parte del PD di oggi che accetta di correre rischi sproporzionati pur di non rischiare una possibile, ma non probabile, caduta del governo.

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mercoledì 9 settembre 2020

Un’umanità senza umanità

Chi fosse passato lunedì sera nel parco di Sant’Osvaldo per dirigersi a uno degli avvenimenti del programma delle Feste d’estate avrebbe notato tutta una serie di capi di vestiario stesi ad asciugare sulla rete che circonda il campo sportivo. Li avrebbe guardati, ma forse non li avrebbe visti perché ormai quello di non vedere, o meglio di non voler vedere, sembra diventata un’abitudine molto diffusa.
 
Il fatto è che dietro quei pantaloni e quelle magliette ci sono i corpi di 32 migranti che fino a poco tempo fa affollavano il sagrato della chiesa della Madonna Missionaria a Tricesimo e poi sono stati trasferiti proprio all’interno del parco di Sant’Osvaldo dove, appunto, è in corso una rassegna di eventi sociali e culturali. I 32 giovani uomini, che vivono in un pullman e sono sorvegliati dalle forze dell’ordine, sono stati sfollati da Tricesimo su richiesta del sindaco Giorgio Baiutti per non intralciare le celebrazioni religiose in programma in quella chiesa.

Dormono sui sedili del pullman; mangiano lì dentro, o nelle immediate vicinanze; fanno la fila davanti a un paio di bagni chimici; si lavano con l’acqua che esce da un tubo di gomma fornito dalla Caritas. Se sono fuori dal pullman non li vede nessuno perché sono praticamente nascosti da un telo verde e dalle fronde degli alberi. La vergogna – intendo la nostra vergogna che abbiamo perduto ogni senso di rispetto per l’umanità altrui – ha raggiunto nuovi vertici.

Gli amministratori leghisti sono soddisfatti; il prefetto di Udine parla di «soluzione (sic) temporanea» in attesa di qualunque altra cosa sia resa disponibile; l’Azienda sanitaria, che è la proprietaria del parco fa il pesce in barile: spera di riuscire a far vedere che non c’entra niente, mentre, invece, è pienamente protagonista di questa situazione vergognosa.
Non si può dimenticare, infatti, che da tempo il parco dell’ex ospedale psichiatrico è divenuto un’area verde aperta alla città, nella quale ogni giorno ci sono servizi, comunità, laboratori. Nell’area del Parco, infatti, ci sono il CSM di Udine Sud, la REMS, la Comunità Nove, un laboratorio di falegnameria, tre strutture residenziali, il chiosco gestito dalla Cooperazione sociale, solo per elencare realtà che coinvolgono diversi soggetti nei percorsi di cura.

Si tratta di una realtà presentata con dovizia di particolari il 15 luglio, in occasione dell’inaugurazione delle Feste d’estate, alle Autorità regionali, comunali e aziendali, con un manifesto per il Parco che prevedeva un progetto di impegno per un bene comune.
Nonostante le promesse di collaborazione delle tante autorità presenti, le persone che lavorano nel Dipartimento di salute mentale e quelle che operano nelle cooperative di sostegno per il disagio mentale non sono state minimamente informate di quello che sarebbe avvenuto.

E allora, tenendo ben presente la realtà del parco, sorge spontanea anche la domanda sul perché l’Azienda sanitaria, che teoricamente dovrebbe avere a cuore la salute e il benessere di ogni essere umano – non chiede di trasformare questa “soluzione temporanea” in un’ospitalità degna di tal nome in cui l’alloggio – chiamiamolo così – non sia più un pullman, ma una delle tante palazzine abbandonate del parco, messa a posto quel tanto che basta per ospitare decorosamente i migranti e per non far aggravare la loro salute.

Anche simbolicamente sarebbe importante vedere che nell’area che porta in sé una terribile memoria di privazione dei diritti dei ricoverati dei vecchi ospedali psichiatrici, quelli prima della legge Basaglia, potrebbe essere temporaneamente ospitata una nuova popolazione non più privata di quei diritti che la nostra Costituzione prevede non soltanto per gli italiani, ma per tutti gli esseri umani che abbiano bisogno.

Se si passa di là è eticamente obbligatorio guardare oltre che vedere. E poi parlare e protestare se non ci si sente disposti a rassegnarsi a essere inseriti in un’umanità senza umanità.

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I perché di un no: 2 - I pericoli

Evaporata quasi subito, e in maniera totale e incontrovertibile, la motivazione del risparmio, quella con cui era stata presentata la legge per la riduzione dei parlamentari, l’iniziativa non è abortita, ma ha continuato a vivere fino a portarci dove siamo oggi. Ovviamente, anche se dai 5stelle è lecito attendersi molte stranezze, nessuna legge viene fatta solo per farla, o esclusivamente per lucrare voti con quel populismo che, in epoca di slogan e non di ragionamenti, è sempre più importante nel determinare chi vince e chi perde le elezioni. Quindi è necessario individuare i pericoli che sono insiti nelle vere motivazioni che l’hanno ispirata.
 
Pur tenendo conto che gli unici che sostengono ancora compatti il “Sì” sono quelli di Fratelli d’Italia e delle altre formazioni dell’ultradestra, se proprio non si vuole avvicinare la legge di Grillo e della Casaleggio Associati, al “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli, quello che ha finanziato gli assassini della strage di Bologna, quantomeno balza agli occhi che la riduzione di rappresentatività ben si sposa con il farsesco mito della Piattaforma Rousseau perché non soltanto il voto telematico è usato esclusivamente per approvare proposte, o nomi, e mai per discutere davvero, ma serve anche a tentare di giustificare il fatto che poche decine di migliaia di voti dovrebbero decidere per 60 milioni di cittadini che magari la pensano in modo opposto e che nella piattaforma non possono intervenire.

Ma, oltre a presupporre la pericolosissima idea che meno si è e meglio si decide, lasciando spazio al concetto che dal punto di vista della cosiddetta “governabilità” nulla è più efficiente di una dittatura monocratica – «Datemi i pieni poteri», diceva Salvini – questi tagli lineari avrebbero effetti perniciosi, oltre che sulla rappresentanza, anche sulla parità di diritti di tutti i cittadini.

Con la nuova legge, per esempio, la rappresentanza della minoranza slovena in Parlamento diverrebbe soltanto episodica, se non impossibile. E lo stesso accadrebbe anche per minoranze linguistiche, territoriali, religiose e politiche.

In questa eliminazione delle minoranze, inoltre, si realizzerebbe anche un’evidente disparità di trattamento. Se i cittadini italiani di lingua slovena, infatti, sarebbero pesantemente penalizzati, quelli di lingua tedesca dell’Alto Adige continuerebbero a vivere come se nulla fosse accaduto perché difesi da trattati internazionali contro i quali neppure la boriosa violenza iconoclasta dei grillini può nulla.

E non vale, se non a scopo di propaganda, dire che i nuovi mezzi tecnici consentono comunicazioni che non richiedono una presenza fisica: sappiamo tutti quanto pericolosa sia diventata l’abitudine di scaraventare in rete notizie che non possono avere contraddittori, né confutazioni perché, mentre in un dibattito pubblico si è obbligati a mettere in piazza anche le debolezze del proprio pensiero, la rete permette agli utenti di vietare l’ingresso nelle proprie case e nel proprio cervello di parole che rischino di distruggere razionalmente le convinzioni di chi legge, o ascolta.

Il pericolo più grave, però, è che questo sarebbe soltanto il primo passo verso uno svuotamento del significato dell’esistenza del Parlamento perché è questo l’obbiettivo finale dei grillini. Troppi dimenticano, infatti, che hanno nel mirino altri due bersagli a suo tempo già chiaramente dichiarati.

Il primo è la nascita del referendum propositivo che alla lunga renderebbe marginale il ruolo delle Camere e sposterebbe l’asse di equilibrio da una democrazia rappresentativa a un simulacro di democrazia diretta.

Il secondo è l’istituzione del vincolo di mandato che ridurrebbe il Parlamento a una sorta di club nel quale i capigruppo potrebbero incontrarsi esclusivamente tra di loro e decidere tutto mettendo ognuno sul tavolo il peso del numero dei parlamentari che a lui dovrebbero riferirsi e che non potrebbero più, per l’intera legislatura, ribellarsi ai voleri del capo che in cinque anni può anche cambiare (il PD di Bersani è stato molto diverso dal PD di Renzi, ma l’obbedienza sarebbe stata dovuta alla carica, non all’uomo, né tantomeno ai principi e ai valori), o impazzire, o rivelare mire che fino a quel momento aveva dissimulato.


È un progetto insomma, che prevede la cancellazione, più che lo stravolgimento, della democrazia per la quale sono morti in tanti per creare e poi per difendere le nostre istituzioni. E a tale proposito è difficile dimenticare che nel 2013 la banca d’affari J.P. Morgan aveva scritto che quelle delle nazioni del Sud Europa sono Costituzioni che «mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». E per questo, secondo quei banchieri statunitensi, sono troppo garantiste e, quindi, andrebbero cambiate.

Io sono convinto, invece, che, a partire dalla nostra, vadano difese con tutte le forze possibili votando “No”, perché, altrimenti, è certo che qualcosa cambierà, ma è altrettanto certo che sarà in peggio.

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martedì 8 settembre 2020

I perché di un no: 1 - Le bugie

Mancano pochi giorni all’apertura delle urne per il referendum che il 20 e 21 deciderà se resterà in vigore, o se sarà cancellata la legge costituzionale – mi è impossibile chiamarla riforma – voluta da Grillo e dalla Casaleggio associati che, andando a toccare gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, vorrebbe ridurre da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori, con un taglio lineare di oltre il 36% del Parlamento.

Personalmente voterò “No” non soltanto per scelta convinta, ma per la necessità di impedire che la nostra democrazia sia ulteriormente compromessa, questa volta non soltanto da furbate interpretative che apparente-mente sembrano rispettare la lettera della Costituzione, ma sicuramente fanno strame della sostanza, ma dal fatto che rischia di diventare legge qualcosa che diverge fortemente dalla quella giustizia che è insita nel concetto di democrazia.

Tenterò di illustrare al meglio le bugie, i pericoli, i fariseismi, le necessità, i nemici: cinque aspetti a mio parere fondamentali per decidere di andare a votare e per votare “No”.

Cominciamo con il fatto che la stessa nascita della proposta grillina che vuole cominciare ad affossare la democrazia rappresentativa si fonda su una serie di macroscopiche menzogne.
Per esempio, è evidente l’inconsistenza della motivazione del risparmio, visto che economicamente in una legislatura – dicono gli esperti – si risparmierebbero 285 milioni, pari a circa 57 milioni l’anno. E questo vuol dire che, visto che gli italiani sono circa 60 milioni, per mantenere in vita l’attuale situazione basterebbe che ognuno di noi rinunciasse a meno di un caffè all’anno: un sacrificio non troppo pesante per difendere la democrazia. Il fatto, poi, che Di Maio inizialmente parlasse di risparmi miliardari, dimenticando che circa i due terzi delle spese parlamentari sono fisse e ineliminabili, significa che mentiva sapendo di mentire, oppure che non conosce minimamente la creatura che vuole cambiare. In entrambi i casi l’appellativo di “onorevole” sembra fuori posto.

Altrettanto palese è il trucco di dire che soffriamo di un eccesso di rappresentanza. Se prendiamo come pietra di paragone gli altri Paesi europei, constatiamo che in Italia c’è un deputato circa ogni 100 mila abitanti: soltanto Francia, Germania e Olanda con 0,9, e Spagna con 0,8 hanno un rapporto più basso. Se questa sciagu-rata legge dovesse essere confermata, l’Italia scenderebbe a 0,7 e la nostra democrazia rappresentativa diventerebbe la meno rappresentativa d’Europa. E, infatti, è proprio la democrazia rappresentativa a essere da sempre nel mirino dei 5stelle e della destra.

Altra menzogna facilmente individuabile è quella che afferma che con la riduzione di 345 parlamentari il Parlamento sarebbe più efficiente. La Costituzione affida al Parlamento tre compiti principali: rappresentare i cittadini («Ogni membro dei Parlamento rappresenta la Nazione»), legiferare («La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere»), controllare l’operato del governo («Il governo deve avere la fiducia delle due Camere»). Orbene, in nessuna delle tre funzioni si capisce quale vantaggio potrebbe derivare dalla diminuzione di parlamentari. Anzi, mentre la rappresentanza sarà di certo minore, sembra probabile che anche la funzione di controllo possa uscirne notevolmente compromessa in quanto un gruppo di parlamentari ridotto sarà inevitabilmente meno pluralista e, quindi, più disponibile a obbedire alle indicazioni del capogruppo. Come funzioneranno poi le commissioni il cui numero rimarrà inalterato?

Ma forse la menzogna più evidente è racchiusa nell’affermazione che la diminuzione di parlamentari sarebbe un colpo decisivo contro “la casta”. Non occorre essere un politologo di chiara fama per comprendere che il medesimo potere diviso in parti minori finisce per irrobustire la parte più forte della cosiddetta casta che potrebbe gestire con maggiore comodità la – chiamiamola così – casta di mezzo, cioè coloro che non hanno molta voce in capitolo all’interno dei partiti, ma i cui voti sono indispensabili per far approvare le leggi e per dirigere i lavori parlamentari nelle direzioni più convenienti.

Del tutto bugiarda, insomma è la propaganda che postula un miglioramento dell’efficienza del Parlamento grazie a un taglio profondo e lineare che comporterebbe nuovi e più evidenti disequilibri in altre funzioni del Parlamento come nell’elezione del Presidente della Repubblica in cui, se la riforma passasse i rappresentanti regionali, che non subirebbero ridimensionamenti, acquisirebbero un peso decisamente abnorme rispetto a quello previsto dai padri costituenti.

Il problema del populismo è proprio questo: è facilissimo da praticare perché basta utilizzare slogan scritti con una certa furbizia, ma quando si comincia a guardare davvero le cose e a ragionare sulle proposte ci si ac-corge subito che sotto un sottilissimo strato di doratura c’è soltanto del velenosissimo piombo.

È anche per questo che parlerò sempre di legge e mai di riforma costituzionale, in quanto una riforma non può non prevedere una nuova architettura costituzionale che può essere apprezzabile, o detestabile, ma che non può limitarsi soltanto a dei tagli indiscriminati e senza progetto.

A domani per i pericoli a questa legge connessi.

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lunedì 7 settembre 2020

Che significato ha la “D”?

Dopo che Zingaretti ha deciso di proporre al PD – o almeno a quella parte che lo segue – di votare Sì al referendum, ho dovuto prendere atto che la “D” della sigla del partito per cui ho votato più spesso da quando è nato ha un significato evidentemente diverso da quello che intendevo io. 

Con rammarico, tristezza e solidarietà per i Democratici per il NO, annuncio – se a qualcuno potrà interessare – che non ho più intenzione di votare per questo P-non so cosa fino a quando Zingaretti resterà segretario, la “D” non tornerà a significare “democratico” e il partito non sarà animato da ideali almeno parzialmente di sinistra. E intanto spero che molti elettori del PD che non la pensano come Zingaretti si facciano sentire e che non rinuncino a votare NO disertando le urne per disperazione o rabbia.

Non riesco a concepire che un Paese come l'Italia con tutto quello che ha subito prima e dopo la seconda guerra mondiale possa scherzare con elementi importanti come la democrazia e la Costituzione soltanto per non irritare gli attuali e sopravvalutati alleati di governo.

Ridicolmente farisea è l’idea che soltanto dopo il massacro del Parlamento si possa parlare di riforme strutturali della nostra democrazia, soprattutto senza neppure accennare a quale potrebbe essere la nuova ingegneria parlamentare. Forse quella di Renzi già bocciata tre anni fa? Oppure l’elezione diretta di un premier come da sempre auspicato dalla destra? O, ancora, con una cosiddetta “democrazia diretta” come sognato dalla Casaleggio Associati?

Parlare di rispetto per coloro che sono morti durante la Resistenza, o dopo, sotto i colpi degli opposti estremismi mentre si sacrificavano per difendere le istituzioni e la democrazia rappresentativa è inaccettabile se poi si svende tutto pur di restare al governo.

Temiamo che, con un governo diverso, alle prossime presidenziali possa uscire vincente un nome inaccettabile? Vuol dire che noi non siamo capaci di far camminare le nostre idee, o che le nostre idee non hanno le gambe per camminare da sole e che anche la sinistra è stata vittima della smania di accelerare ogni procedimento: anche quello per l’elezione del Presidente della Repubblica.

Comunque se gli italiani vorranno al Quirinale un uomo in sintonia con Salvini e la Meloni, avranno tutto il diritto di votare per creare i presupposti necessari e poi avranno tutto il tempo per pentirsene amaramente.

Da domani tenterò di illustrare i motivi per i quali il NO al referendum non lo vedo come una scelta, bensì come una necessità.

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venerdì 28 agosto 2020

Almeno la dignità


Un partito nasce se ha qualcosa da dire, qualche valore da difendere, qualche sogno sociale da realizzare. Poi quel partito prosegue a vivere se sogni e progetti continuano a esistere e se la spinta per realizzarli non si esaurisce, o, almeno, se non viene tacitata e sepolta da un cumulo di tatticismi che vengono definiti “utili per impedire che a vincere siano gli altri”, ma che, in realtà, spesso sono soltanto espedienti piccini per mantenere la propria fettina di presunto potere e che comunque sempre diventano vere e proprie macerie che con il loro peso finiscono per schiacciare non soltanto quel partito, ma mettono in pericolo anche la stessa democrazia.

Già nel 1839 il francese Louis Blanc, nel suo “Organizzazione del lavoro”, scriveva: «Quel che più spaventa nei partiti non è quello che dicono, è quello che trascurano, o si rifiutano di dire». E, in base a questo enunciato, combinato con quello che sta accadendo nella fase di avvicinamento al referendum confermativo del 20 e 21 settembre per ridurre il numero dei deputati da 630 a 400 e quello dei senatori elettivi da 315 a 200, devo dire che l’attuale PD non mi spaventa: mi terrorizza.

Lascio anche momentaneamente da parte le mie convinzioni che, in caso di vittoria del “sì”, ne uscirebbe massacrato il concetto costituzionale di rappresentanza, con il risultato che certe regioni sarebbero rappresentate quasi soltanto nominalmente, che molte minoranze, non soltanto linguistiche, resterebbero fuori dal Parlamento e che certi meccanismi ipermaggioritari applicati al Senato cancellerebbero in alcune regioni fino a quasi metà degli elettori. Ma, con grande tristezza, non riesco a lasciar perdere il fatto che un partito che dovrebbe essere l’erede degli ideali che mi hanno sempre riscaldato e per i quali ho sempre votato non sappia esprimere una presa di posizione che non sia infarcita di “se” e resa ancor più sfocata e incomprensibile da un numero elevatissimo di condizionali e di giri di parole criptici. E ancor meno riesco a digerire l’idea che quello stesso partito prenda in giro non tanto coloro che, come me, non hanno dubbi sul votare “No”, ma coloro che hanno ancora perplessità sulla scelta da fare.

Come si fa, infatti, a legare la posizione definitiva di un partito a cose poco credibili, o labili, come quelle che il PD ha posto come condizione ai 5stelle per dare indicazioni di votare “sì”? Il PD, infatti chiede ai grillini che entro il 20 settembre sia approvata una legge elettorale di tipo proporzionale che vada a mitigare gli effetti negativi della possibile nuova legge costituzionale.

Per prima cosa, se qualcuno chiede qualcosa che mitighi gli effetti negativi di una legge già approvata, non ci si può non chiedere perché quel qualcuno ha votato favorevolmente per una legge i cui effetti negativi dovevano, già in partenza, essere mitigati.

Poi, essendo del tutto evidente che una nuova legge elettorale al massimo potrebbe essere approvata in tempo da un solo ramo del Parlamento, quale garanzia si ha che, in seconda lettura quella stessa legge non sarebbe bocciata, o profondamente cambiata? Magari con la complicità dei possibili sconquassi politici derivati dai risultati elettorali delle regioni dove proprio i 5stelle rifiutano ogni alleanza. E poi, una legge elettorale non deve sottostare ai quattro passaggi delle leggi costituzionali e, quindi, anche se approvata, può essere cambiata con relativa facilità da qualunque maggioranza.

Terza cosa che non può non balzare agli occhi: il garante della promessa grillina che sarà fatta una nuova legge elettorale proporzionale si chiama Vito Crimi: è possibile che nel PD nessuno ricordi, o che tutti facciano finta di non ricordare, quante parole Crimi abbia dato e poi il movimento – con o senza Piattaforma Rousseau di mezzo – si sia rimangiato? E che non incida minimamente nel decidere se dare un peso alla parola di Crimi l’indecente comportamento tenuto da quel signore, accompagnato da Roberta Lombardi, nella famigerata diretta streaming del 2013 con Pier Luigi Bersani accompagnato da Enrico Letta.

D’accordo, Bersani ha poi creato un altro partito e Letta è uscito dalla politica attiva dopo essere stato serenamente accoltellato alle spalle da Matteo Renzi, anch’egli poi creatore di un nuovo partito. Ma al PD, ancor prima che far rispettare i nomi dei due uomini sbertucciati da Crimi, dovrebbe interessare di tentar di salvare almeno la propria dignità.

Poi di idee e valori si potrà anche parlare, ammesso che ci siano. Ma senza dignità è inutile nemmeno cominciare.

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