mercoledì 17 aprile 2019

Naufragi di uomini e di civiltà

Potrebbe essere che le tensioni causate all’interno del governo, tra Viminale e ministero della Difesa, dalla terza direttiva firmata da Salvini sul contrasto all’immigrazione clandestina possa portare allo sgretolamento dell’alleanza di governo, anche se credo che ci vorrebbe ben altro per indurre Di Maio a rinunciare alla sua poltrona. Eppure è dall’entourage di una sua ministra, Elisabetta Trenta, che arriva la violenta protesta contro la chiusura dei porti decisa da Salvini per bloccare le navi umanitarie. «È una vera e propria ingerenza – dicono fonti dello Stato maggiore della Difesa citate da un’agenzia di stampa e non smentite – senza precedenti nella recente storia della Repubblica. Quel che è accaduto è gravissimo perché viola ogni principio, ogni protocollo e costituisce una forma di pressione impropria nei confronti del Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Enzo Vecciarelli. Non è che un ministro può alzarsi e ordinare qualcosa a un uomo dello Stato. Queste cose accadono nei regimi, non in democrazia. Noi rispondiamo al ministro della Difesa e al Capo dello Stato, che è il capo Supremo delle Forze armate».

Ma quello che mi colpisce non è tanto la qualità dello scontro istituzionale, ma il fatto che si sta baruffando su competenze e attribuzioni e non sulla sostanza delle cose, da cui tutto discende: la negazione di uno dei caposaldi del comportamento umano: il salvataggio di altri esseri umani in pericolo. Soprattutto se sono in mare.

A vedere quello che accade oggi, appare chiaro perché tanto i nostri governanti lottano per far sparire la cultura colpendo la storia e la classicità: ci sarebbe troppo su cui pensare e il pensiero è sempre pericoloso perché può anche provocare un “No” deciso, se quello che accade è contro il nostro essere, o, in caso contrario, far pesare il fatto che nel non intervenire si diventa inevitabilmente complici.

E in questi giorni non può non venire in mente uno dei classici che si studiavano a scuola. Nel primo libro dell’Eneide Virgilio descrive la tempesta che travolge le navi dei troiani in fuga dalla loro città cancellata dalla guerra e il loro arrivo sulle coste di Cartagine dove Didone, anche lei esule dalla sua città, Tiro, accoglie i superstiti. A rileggere quei versi non si può non notare che, allora come ora, sono troppi i morti, sono troppi i cadaveri che invano per un po’ si rifiutano di diventare tali prima di sparire nelle profondità del Mediterraneo. Ci si rende conto che quei versi che una volta si leggevano con i ritmi della metrica, oggi non sono altro che drammatica cronaca quasi quotidiana.

Oggi ancora una volta, a distanza di tanti secoli, si potrebbe parlare di «rari nantes in gurgite vasto», pochi naufraghi che nuotano nel vasto gorgo, o nell’immenso e desolato mare. Ma a rileggere l’emistichio di quel verso, questa volta il nostro accento cade inevitabilmente su quel “rari” perché sono pochissimi quelli che riescono a restare a galla dopo che i gommoni, sfondati e sgonfi, li hanno sprofondati nell’acqua, in quel “gurgite” che resta terribilmente “vasto”.

Passa via quasi distrattamente, invece, il pensiero che l’intera locuzione “rari nantes” per decenni è stata usata come parte del nome di tante società di nuoto e pallanuoto. Ma a quei tempi, nell’era ante Salvini, l’Eneide poteva essere usata anche soltanto come prezioso forziere di dotte citazioni poetiche; ora, come tanti altri classici, è diventata una specie di salvagente letterario che può fornirci spunti di galleggiamento etico e morale preziosissimi, se non indispensabili, in quel tempestoso e magmatico mondo in cui tanti hanno operato per distruggere tutti i punti fermi che hanno permesso all’uomo di migliorare il mondo in cui vive prima che questa maledetta notte cominciasse ad allungare la sua oscurità su di noi.

E, dato che ci siamo, fermiamoci ancora per un momento sul poema epico di Virgilio, quando Enea dice di aver perso le sue navi e tanti suoi compagni, tanti fuggitivi dalla guerra, «unius ob iram», per l’ira di uno soltanto. Virgilio, tramite Enea, si riferisce alla dea Giunone, da sempre incattivita con i troiani, ma anche oggi – e non me ne voglia Giunone per l’irrispettoso paragone – c’è una sola entità, e non certamente divina, che tiene tutto il potere di vita e di morte nelle sue mani e che – in questo caso sì – come Giunone, è animato dai peggiori sentimenti di ira e di repulsione indiscriminata nei confronti di intere etnie, impedisce a gruppi di profughi di raggiungere l’Italia, la stessa meta di Enea, preferendo lasciarli annegare.

E non può consolarci il fatto che gli dei dell’Olimpo non esistono più e che anche Salvini, che non è neppure un semidio, prima o dopo sparirà. Comunque, ora come allora, «Sunt lacrimae rerum et mentis mortalia tangunt», sono le lacrime delle cose e le vicende mortali commuovono gli animi. Allora si parlava di Troia incendiata e di cadaveri sparsi tra le sue mura. Oggi ci si riferisce a interi Paesi in cui vivere è un rischio altissimo e di bambini morti a centinaia. Lacrime per chi è ancora umano e, quindi, sa ancora piangere.

Un’ultima cosa. Nelle sue frequenti invasioni di campo questa volta Salvini, dopo essersi travestito da sceriffo per la cosiddetta “legittima difesa”, ha indossato anche la felpa del ministro della Giustizia e ha reclamato pene severe per quei giudici che hanno mandato in galera un innocente. Mi piacerebbe sapere, se non fosse proprio lui il protagonista, cosa penserebbe di chi condanna a morte tante persone innocenti perché c’è la possibilità, neppure la probabilità, che sullo stesso barcone ci possa essere anche un terrorista che, quasi sicuramente, con gli aiuti e gli appoggi di cui gode, pratica sempre strade molto meno pericolose.

E qui non si parla di errori giudiziari, ma di deliberate condanne a morte di innocenti in fuga per necessità.

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