lunedì 5 novembre 2018

Le friabilità di un Paese

Davanti ai disastri provocati dall’acqua e dal vento in Carnia, nel Bellunese e in altre parti d’Italia bisognerebbe riuscire a superare in fretta le prime, pur forti e stravolgenti, emozioni per cominciare a pensare immediatamente al futuro. Non può essere sufficiente per tutti noi, infatti, piangere per le vittime, o lamentarsi per i danni catastrofici da riparare e per le stagioni turistiche almeno in parte inevitabilmente compromesse. Né può bastare, per i politici, pensare di aver esaurito il proprio compito stanziando, pur faticosamente, qualche centinaio di milioni per ricostruire ciò che è andato perduto e per aiutare chi i danni li ha subiti in prima persona.
 
Ci sono, infatti, almeno due cose di ancor più grande importanza che tutti, sia i politici, sia coloro che ne determinano l’elezione, dovrebbero tener ben presente.

La prima consiste nel rendersi conto che la locuzione “mutamento climatico”, apparentemente legata soltanto a piccoli cambiamenti di abitudini meteorologiche, nasconde, invece, quella che è la maggiore e più terribile minaccia alla vera e propria sopravvivenza, se non del pianeta, almeno della nostra specie e della civiltà a essa legata. Non soltanto i disastri di questi giorni stanno cessando di essere eccezionali, per diventare una regola con episodi sempre più ravvicinati nel tempo, ma il progressivo innalzarsi della temperatura sta già spostando le necessità umane, animali e vegetali in maniera stravolgente e il cambiamento accelererà sempre di più. Sapere che tutto questo dipende quasi unicamente dall’incredibile aumento di emissioni nell’atmosfera di gas capaci di aumentare l’effetto serra dovrebbe farci capire che la strada sulla quale oggi stiamo camminando porta alla morte. Ma evidentemente sono tanti – e non sto parlando soltanto di Trump – a pensare soprattutto alla propria attuale comodità più che alla sopravvivenza di figli, nipoti e discendenti.

Ma se questa constatazione può darci qualche alibi di impotenza in quanto riguarda l’azione politica e sociale dell’intero pianeta, una seconda evidenza ci coinvolge molto più direttamente perché riguarda proprio i territori in cui viviamo e la loro amministrazione. Poche settimane fa, alla presentazione del libro “Sisma. Dal Friuli 1976 all’Italia di oggi”, geologi, ingegneri, tecnici e amministratori hanno convenuto che se il “modello Friuli” non è stato applicato anche in altre zone colpite dai terremoti, questo dipende in parte dal fatto che oggi non potrebbe più essere applicato nemmeno in Friuli. Nuove leggi, dilagare della burocrazia e ancora più aumentata attenzione a ciò che può procurare voti rispetto a quello che davvero potrebbe fare il bene della società hanno composto una miscela assolutamente esplosiva che dovrebbe essere disinnescata e che, invece, addirittura sta progressivamente aumentando la sua pericolosità.

Oggi tutti deprechiamo sdegnati che in Sicilia si sia lasciata in piedi una villetta nel greto di un corso d’acqua che, gonfiatosi, ha distrutto nove vite, ma vi invito a dare un’occhiata alle aree golenali dei corsi d’acqua nella nostra regione e a contare quanti edifici, abitativi, produttivi, o addirittura pubblici, vi sono stati costruiti. Senza contare le coltivazioni concesse su aree demaniali. E intanto la politica trucca la realtà con parole che hanno l’unico scopo di distogliere l’attenzione, di illudere che si sia fatto tutto, mentre – per bene che vada – si è appena cominciato a fare qualcosa.

Un esempio che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi è quello della “Protezione civile”, organizzazione più che benemerita, oltre che necessaria, ma che porta, però, un nome sicuramente sbagliato. “Protezione”, infatti, deriva da proteggere, dal latino pro (davanti, cioè prima) e tegere (coprire). Quindi proteggere vuol dire fare scudo, intervenire in anticipo e non a frittata già fatta, quando si tratta di raccogliere morti e feriti, di recuperare quel poco che non è stato distrutto, di fare i pesanti conti dei danni, di rattoppare alla bell’e meglio comunità che portano ferite tanto gravi da non riprendersi più, se non trasformandosi profondamente; e non sempre in meglio. In realtà la Protezione civile che conosciamo dovrebbe chiamarsi, più puntualmente, “Soccorso civile” e dovrebbe continuare a essere pronta a intervenire sui disastri perché mai l’uomo riuscirà a innalzarsi completamente sopra la natura e a evitarli del tutto. Ma accanto ci dovrebbe essere una vera e propria “Protezione civile” intesa non solo come organizzazione, ma anche e soprattutto come sincera filosofia politica che possa essere messa in condizioni di lavorare per la prevenzione. Una “Protezione civile” capace di conoscere, studiare, progettare, intervenire e di pretendere, con buone probabilità di successo, di avere i fondi, per adempiere ai propri compiti. E, insieme, solidalmente, dovrebbe muoversi una società conscia dei pericoli a cui va incontro, ben consapevole che mettere in sicurezza un versante è meno appariscente che costruire un nuovo ponte, ma che privilegia davvero la sicurezza, anche se fa ritardare la comodità.


Ed è difficile non pensare che i disastri provocati dalla natura, o dall’uomo, si avvicinano molto anche ai disastri sociali nei quali la natura c’entra davvero ben poco. Perché l’Italia è un Paese molto friabile fisicamente, ma anche socialmente. E se intervieni sempre in emergenza non puoi che stravolgere, mentre servirebbe gradualità e progettualità per innovare davvero, cioè cambiando, pur nel rispetto di ciò che di esistente merita di essere conservato, sia a livello materiale, sia a livello sociale; ma con la determinazione a non lasciarsi irretire da abitudini di apparenza e non di sostanza; di futile comodità e non di concreta sicurezza.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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