Davanti ai
disastri provocati dall’acqua e dal vento in Carnia, nel Bellunese e in
altre parti d’Italia bisognerebbe riuscire a superare in fretta le
prime, pur forti e stravolgenti, emozioni per cominciare a pensare
immediatamente al futuro. Non può essere sufficiente per tutti noi,
infatti, piangere per le vittime, o lamentarsi per i danni catastrofici
da riparare e per le stagioni turistiche almeno in parte inevitabilmente
compromesse. Né può bastare, per i politici, pensare di aver esaurito
il proprio compito stanziando, pur faticosamente, qualche centinaio di
milioni per ricostruire ciò che è andato perduto e per aiutare chi i
danni li ha subiti in prima persona.
Ci sono, infatti, almeno due cose di
ancor più grande importanza che tutti, sia i politici, sia coloro che
ne determinano l’elezione, dovrebbero tener ben presente.
La prima consiste nel rendersi conto
che la locuzione “mutamento climatico”, apparentemente legata soltanto a
piccoli cambiamenti di abitudini meteorologiche, nasconde, invece,
quella che è la maggiore e più terribile minaccia alla vera e propria
sopravvivenza, se non del pianeta, almeno della nostra specie e della
civiltà a essa legata. Non soltanto i disastri di questi giorni stanno
cessando di essere eccezionali, per diventare una regola con episodi
sempre più ravvicinati nel tempo, ma il progressivo innalzarsi della
temperatura sta già spostando le necessità umane, animali e vegetali in
maniera stravolgente e il cambiamento accelererà sempre di più. Sapere
che tutto questo dipende quasi unicamente dall’incredibile aumento di
emissioni nell’atmosfera di gas capaci di aumentare l’effetto serra
dovrebbe farci capire che la strada sulla quale oggi stiamo camminando
porta alla morte. Ma evidentemente sono tanti – e non sto parlando
soltanto di Trump – a pensare soprattutto alla propria attuale comodità
più che alla sopravvivenza di figli, nipoti e discendenti.
Ma se questa constatazione può darci
qualche alibi di impotenza in quanto riguarda l’azione politica e
sociale dell’intero pianeta, una seconda evidenza ci coinvolge molto più
direttamente perché riguarda proprio i territori in cui viviamo e la
loro amministrazione. Poche settimane fa, alla presentazione del libro
“Sisma. Dal Friuli 1976 all’Italia di oggi”, geologi, ingegneri, tecnici
e amministratori hanno convenuto che se il “modello Friuli” non è stato
applicato anche in altre zone colpite dai terremoti, questo dipende in
parte dal fatto che oggi non potrebbe più essere applicato nemmeno in
Friuli. Nuove leggi, dilagare della burocrazia e ancora più aumentata
attenzione a ciò che può procurare voti rispetto a quello che davvero
potrebbe fare il bene della società hanno composto una miscela
assolutamente esplosiva che dovrebbe essere disinnescata e che, invece,
addirittura sta progressivamente aumentando la sua pericolosità.
Oggi tutti deprechiamo sdegnati che
in Sicilia si sia lasciata in piedi una villetta nel greto di un corso
d’acqua che, gonfiatosi, ha distrutto nove vite, ma vi invito a dare
un’occhiata alle aree golenali dei corsi d’acqua nella nostra regione e a
contare quanti edifici, abitativi, produttivi, o addirittura pubblici,
vi sono stati costruiti. Senza contare le coltivazioni concesse su aree
demaniali. E intanto la politica trucca la realtà con parole che hanno
l’unico scopo di distogliere l’attenzione, di illudere che si sia fatto
tutto, mentre – per bene che vada – si è appena cominciato a fare
qualcosa.
Un esempio che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi è quello della
“Protezione civile”, organizzazione più che benemerita, oltre che
necessaria, ma che porta, però, un nome sicuramente sbagliato.
“Protezione”, infatti, deriva da proteggere, dal latino pro (davanti,
cioè prima) e tegere (coprire). Quindi proteggere vuol dire fare scudo,
intervenire in anticipo e non a frittata già fatta, quando si tratta di
raccogliere morti e feriti, di recuperare quel poco che non è stato
distrutto, di fare i pesanti conti dei danni, di rattoppare alla bell’e
meglio comunità che portano ferite tanto gravi da non riprendersi più,
se non trasformandosi profondamente; e non sempre in meglio. In realtà
la Protezione civile che conosciamo dovrebbe chiamarsi, più
puntualmente, “Soccorso civile” e dovrebbe continuare a essere pronta a
intervenire sui disastri perché mai l’uomo riuscirà a innalzarsi
completamente sopra la natura e a evitarli del tutto. Ma accanto ci
dovrebbe essere una vera e propria “Protezione civile” intesa non solo
come organizzazione, ma anche e soprattutto come sincera filosofia
politica che possa essere messa in condizioni di lavorare per la
prevenzione. Una “Protezione civile” capace di conoscere, studiare,
progettare, intervenire e di pretendere, con buone probabilità di
successo, di avere i fondi, per adempiere ai propri compiti. E, insieme,
solidalmente, dovrebbe muoversi una società conscia dei pericoli a cui
va incontro, ben consapevole che mettere in sicurezza un versante è meno
appariscente che costruire un nuovo ponte, ma che privilegia davvero la
sicurezza, anche se fa ritardare la comodità.
Ed è difficile non pensare che i
disastri provocati dalla natura, o dall’uomo, si avvicinano molto anche
ai disastri sociali nei quali la natura c’entra davvero ben poco. Perché
l’Italia è un Paese molto friabile fisicamente, ma anche socialmente. E
se intervieni sempre in emergenza non puoi che stravolgere, mentre
servirebbe gradualità e progettualità per innovare davvero, cioè
cambiando, pur nel rispetto di ciò che di esistente merita di essere
conservato, sia a livello materiale, sia a livello sociale; ma con la
determinazione a non lasciarsi irretire da abitudini di apparenza e non
di sostanza; di futile comodità e non di concreta sicurezza.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
Nessun commento:
Posta un commento