Da
quando sono scomparse le monarchie assolute, l’impegno di quasi tutti
governi del mondo è stato quello di nascondere le cose di cui non ci si
poteva vantare. Lo hanno fatto anche le dittature più terribile, consce
dell’effetto che trovarsi faccia a faccia con la realtà avrebbe prodotto
sia sulle altre nazioni, sia anche sulla propria popolazione nella
quale, per quanto asservita e servile, può sempre celarsi quella
scintilla di dignità, in partenza apparentemente gracile, ma poi capace
di trasformarsi in qualcosa di tanto potente da riuscire a sgretolare e
abbattere anche i muri antidemocratici più muniti e più feroci. È sempre
successo e sempre succederà.
L’unica alternativa al nascondere
un’azione inaccettabile è quella di cancellarla; però si tratta di
un’impresa legata non soltanto all’ammissione della colpa e al riscatto,
ma anche alla vigilanza costante che i semi della pianta velenosa non
possano trovare terreno fertile per rifiorire. E, quindi, troppo
difficile e faticosa, quasi tutti la evitano sperando che tutto vada
bene lo stesso. Ma anche in questo caso è sempre successo e sempre
succederà che la mala pianta prima o poi riesca a mettere nuovamente
radici.
Oggi, 18 settembre, ricorre
l’ottantesimo anniversario dell’annuncio, da parte di Benito Mussolini a
Trieste, in una piazza dell’Unità gremita da 150 mila persone, della
promulgazione delle leggi razziste che discriminavano gli ebrei, ne
limitavano la libertà e che sarebbero poi state determinanti nel causare
la morte di migliaia di cittadini italiani follemente, ancora prima che
ingiustamente, separati dagli altri esseri umani. Parlo di leggi
“razziste” e non “razziali”, perché sono convinto che il loro vero nome
non vada ammorbidito, in quanto nell’aggettivo “razziale”, quasi sempre
usato, c’è soltanto una fredda constatazione del loro contenuto e non
una loro esplicita e contestuale condanna.
Ebbene, oggi, a ottant’anni di
distanza, si può constatare che anche in questo caso la scelta di
nascondere invece che cancellare, il cullarsi in una falsa sicurezza che
ha nascosto pigrizia e timore di assumere un colore politico distinto
che avrebbe potuto alienare qualche simpatia elettorale, ha permesso che
la malapianta rinascesse. Questa volta non si parla ancora di ebrei – e
spero che quell’“ancora” sia soltanto un segno di un mio ingiustificato
pessimismo – ma si parla in abbondanza, e in forma evidentemente
negativa, di neri, zingari, arabi, extracomunitari in genere,
allargandosi poi ai diversi di ogni tipo, anche per credenze religiose,
preferenze sessuali e – perché no? – per foggia dei vestiti o per gusti
alimentari.
Poi, per sicurezza, ancora ci si dà
da fare per nascondere gli orrori del passato. A Trieste per esempio, i
ragazzi del liceo classico Francesco Petrarca – con personale orgoglio,
il mio liceo di tantissimi anni fa – ha organizzato la mostra “Razzismo
in cattedra” per ricordare l’abominio di ottant’anni fa cui Trieste
ancora, pur se incolpevole, si vergogna. Ebbene, il comune, saldamente
in mano alla destra, approfittando che la sede della mostra è di
proprietà comunale, ha di fatto finora impedito l’apertura
dell’iniziativa chiedendo modifiche al manifesto e alla mostra stessa
dicendo che – ha affermato il sindaco Di Piazza - «bisogna ammorbidire i
toni». Ammorbidire i toni di cosa? Della ghettizzazione di centinaia di
migliaia di italiani? Della loro deportazione nei Lager? Dello
sterminio di migliaia di loro? Del silenzio con cui troppo spesso si è
voluto velare il ricordo?
O forse, molto più direttamente,
ammorbidire il tono nei confronti della giunta comunale che è quella
stessa che, con esplicito ricatto economico, ha avversato il manifesto
della prossima Barcolana sul quale Marina Abramovic aveva tracciato lo
slogan «Siamo tutti sulla stessa barca» che evidentemente alla giunta
era scomodo in quanto poteva pericolosamente ricordare non solo che
anche i migranti sono esseri umani, ma che anche noi siamo stato
migranti e che su quella barca che si chiama mondo c’è una sola razza,
quella umana.
Con questo non voglio assolutamente
dividere il mondo ponendo tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi
dall’altra, ma, se forse non esiste nella realtà una pur piccola quota
di totalmente buoni, indubbiamente i cattivi ci sono e continuano a
voler nascondere. Sia perché non sanno e non vogliono cancellare, sia
perché, a lasciar parlare e a lasciar raccontare la storia, è concreto
il rischio che in tanti si accorgono della rassomiglianza dell’oggi con
ottant’anni fa e che agiscano, umanamente, di conseguenza.
Forse la becera determinazione della
giunta comunale di Trieste, delle persone di destra in genere, dei
seguaci di Salvini e dei suoi complici governativi che gli permettono di
fare quello che più gli aggrada, può essere utile a far tornare in
primo piano due parole. La prima è un vocabolo che dovrebbe scomparire:
l’“indifferenza” con la quale silenziosamente abbiamo lasciato che il
mondo precipitasse fin dove è oggi, alimentando addirittura il timore
che la discesa non sia ancora finita. La seconda, invece, è la parola
“urgenza” che dovrebbe diventare primaria non soltanto in questo
momento, ma per un lungo e continuativo periodo nel quale si deve essere
consci che ognuno deve fare il proprio possibile per cominciare a
risalire: senza interruzioni e testimoniando senza esitazioni con i
pensieri, le parole e le opere e cancellando del tutto le omissioni.
Come hanno fatto i ragazzi, i professori e la dirigente scolastica del
Petrarca che hanno scelto di ridare dignità alla parola “scuola”
ritrasformandola in un luogo dove l’importante non è tanto ottenere il
lasciapassare per la classe successiva, ma cominciare a conoscere
davvero il mondo, imparare a imparare e a far tesoro di ciò che si
apprende per rendere possibile un ragionamento non parziale e non servo
di chi ha digerito più cose, o, più semplicemente, sa costruire slogan
vuoti, ma efficaci.
A loro tutti i nostri più sentiti
ringraziamenti perché ancora una volta hanno dimostrato che, se non
riusciremo a cancellare le vergogne di questo nostro mondo, non
riusciremo certo a nasconderle perché, anche se non ci piace ammetterlo,
ne saremo corresponsabili.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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