La quasi totalità della critica, nell’analizzare il libro d’esordio e più conosciuto di Primo Levi, “Se questo è un uomo”,
sottolinea che l’autore l’ha scritto non per muovere accuse ai
colpevoli, ma come testimonianza di un avvenimento storico e tragico; e
lo stesso Levi disse che l’idea era nata «fin dai giorni del lager per
il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri
partecipi»; senza chiedere compassione, ma consapevolezza e vigilanza
morale. In tutto il testo il tono dell’autore si mantiene
inflessibilmente mite, senza giudicare e senza odiare, ma anche senza
essere disposto a perdonare gli aguzzini. E questa mancanza di livore
esplicito, di morbosità ribollente moltiplica l’efficacia con cui viene
descritta una realtà indescrivibile: «Per la prima volta ci siamo
accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa
offesa, la demolizione di un uomo».
A fare eccezione in questa specie di
implacabile bisogno di testimonianza, più che di giudizio – perché c’è
la consapevolezza che il giudizio non potrà non uscire, inequivocabile,
dai fatti – c’è la poesia che apre il libro e che gli dà il titolo.
Tutti concordano sul fatto che il “Se questo è un uomo” vada riferito a
colui al quale viene sottratta l’umanità nei Lager come quello di
Monowitz, campo satellite del complesso di Auschwitz, in cui Levi è
stato imprigionato. Nel corpo centrale, infatti, Levi pone i versi:
«Considerate se questo è un uomo / Che lavora nel fango / Che non
conosce pace / Che lotta per un pezzo di pane / Che muore per un sì o
per un no. / Considerate se questa è una donna, / Senza capelli e senza
nome / Senza più forza di ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo
/ Come una rana d’inverno».
A me, invece, è rimasta sempre la
certezza che, visto anche che la struttura della poesia è modellata come
una preghiera della religione ebraica e che rappresenta un vero e
proprio scoppio d’ira biblica con tanto di terribile maledizione finale,
il vero dubbio sulla reale umanità riguardi non i vessati, ma alcuni di
coloro che sono elencati nei primi versi («Voi che vivete sicuri /
Nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / Il cibo
caldo e visi amici:») e maledetti negli ultimi («Meditate che questo è
stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore /
Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai
vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I
vostri nati torcano il viso da voi»). E quel “voi” iniziale non lascia
dubbi che a essere chiamati in causa non siano soltanto gli aguzzini,
bensì tutti gli esseri umani e la loro coscienza.
Alla luce di questo è ben difficile
considerare umani tutti coloro che ancora oggi nutrono sentimenti di
razzismo, di xenofobia, di aliofobia. E ancora più difficile è
considerare umano chi queste immonde scorie di pensiero depravato
esalta, accusando ingiustamente i deboli, incitando inqualificabilmente i
violenti, vellicando viscidamente i già predisposti alla
prevaricazione, lasciando intendere a fascisti, nazisti, razzisti in
genere che forse non hanno diritto per legge di ammazzare e di usare
violenza, ma che il modo di guardare a loro non è più così severo
com’era una volta.
Il riferimento al ministro degli
Interni (piacerebbe poter dire “sedicente”, ma purtroppo è proprio così)
Matteo Salvini è esplicito e non potrebbe essere altrimenti, visto che
continua nella sua immonda attività contro chi non può difendersi,
ottenendo anche che una nave, invece di accettare che le richieste
d’asilo che 108 naufraghi recuperati possano essere presentate,
obbedisce ai suoi ordini e li riporta in uno dei porti libici che
esplicitamente pochi giorni fa l’Unione Europea ha dichiarato «non
sicuri». E di scarsa soddisfazione può essere il fatto che quasi
sicuramente l’Italia, Salvini e il capitano di quella nave finiranno
sotto giudizio in una corte internazionale. Che poi Trump lodi Conte per
le politiche antimigratorie dell’Italia, non può che ribadire la
ghignante indecenza di Trump e la sorridente pochezza di Conte.
Vorrei fare un’altra citazione di
Levi: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno
consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa
convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si
manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di
un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma
inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al
termine della catena, sta il Lager».
Pensateci. E pensate anche che la
democrazia rappresentativa vive di deleghe da parte degli elettori agli
eletti, ma che tra queste deleghe non compare quella di conferire ad
altri la nostra coscienza e la nostra dignità. Non per nulla i tedeschi,
che della soppressione dell’umanità altrui portano incancellabili
marchi a fuoco nella coscienza collettiva, hanno voluto inserire nella Grundgesetz,
la Legge Fondamentale della Germania il “diritto di resistenza”
esplicitato nell’articolo 20 che recita: «Tutti i tedeschi hanno diritto
di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere l’ordinamento
vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio». E appare evidente
che chiunque comprenda l’enorme valore del “diritto di resistenza”,
finisce inevitabilmente per farne tesoro tanto da elaborarlo in “dovere
di resistenza” in ogni giornata della propria vita.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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