domenica 22 luglio 2018

Le due brecce

Quando George Orwell scrisse il suo “1984”, sicuramente era sotto l’influsso di quel profondo pessimismo che nel 1948 permeava molti ambienti dell’immediato dopoguerra che vedevano distintamente quella crisi di valori che aveva già minato la fiducia della borghesia e degli intellettuali nel positivismo e nelle ideologie da questo derivate. E, conscio di innestarsi nel filone dei romanzi distopici, nati in opposizione ai romanzi utopici, per meglio attrarre l’attenzione del lettore, Orwell aveva deliberatamente calcato la mano con fantasie pessimistiche che odoravano nettamente di fantascienza in un epoca in cui quel genere letterario stava cominciando a vivere la sua epoca d’oro. A rileggerlo a settant’anni di distanza, viene da pensare, però, che non di esagerazioni fantapolitiche si fosse trattato, bensì di tristi, se pur involontarie, profezie.

Pensate soltanto a una delle immagini più ossessive del romanzo: quei grandi manifesti di propaganda che ritraggono il Grande Fratello, con il monito «Il Grande Fratello ti guarda», e con gli slogan del partito: «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza».

Ebbene: il Grande Fratello non lo vede mai nessuno dal vivo, un po’ come Grillo, ma pretende di governare su tutto, un po’ come Salvini, o, a suo tempo, Renzi.

Sulla confusione tra pace e guerra basta ricordare quante guerre di conquista, anche se non necessariamente territoriali, sono state fatte con la scusa di portare pace e democrazia in Paesi lontani che, in definitiva, chiedevano soprattutto umanità e, di conseguenza, giustizia.

Sul fatto che la libertà possa diventare uno specchietto per le allodole che dissimula una reale schiavitù non si può trascurare il fatto che tanti mettono a repentaglio la propria vita in cerca di libertà per poi, se sopravvivono al viaggio, trovarsi rinchiusi in carceri alle quali delle carceri manca soltanto il nome, o vedersi rimandare al mittente libico che già li aveva imprigionati, torturati, violentati, angariati. E sul binomio libertà-schiavitù ci sarebbe molto da parlare anche per quanto riguarda il web che viene sbandierato come il regno della libertà, mentre innesta dipendenze e schiavitù dettate anche da un dilagare di false notizie confezionate ad arte, o indotte da risultati comodamente alterabili dei sondaggi, o delle votazioni digitali.

Infine, sul fatto che l’ignoranza è forza, c’è da perdersi nell’imbarazzo della scelta tra gli innumerevoli esempi che ci sono offerti quotidianamente dai nostri governanti che proprio sull’incapacità di andare oltre lo slogan vuoto, ma a effetto, hanno basato le loro fortune e che, quando si trovano a dover misurare la propria incapacità e la propria inesperienza con gli enormi problemi di una comunità, non trovano di meglio da fare che incolpare chi li ha preceduti, o coloro che fanno opposizione e non lasciano loro il campo completamente libero; oppure, ancora, fanno finta di niente e confezionano leggi che sono per una certa parte, comunque non trascurabile, incomprensibili, o inapplicabili e che, comunque, restano per anni senza decreti attuativi.

Edgar Morin, grande vecchio quasi centenario e ancora straordinariamente lucido e produttivo, meritatissimo Premio Nonino di un po’ di anni fa, analizzando quel Sessantotto di cui ricorre il mezzo secolo, appunta la sua attenzione sul fatto che quell’anno cruciale, intrecciando occupazioni di fabbriche e di università, imponenti manifestazioni politiche, studentesche e operaie, scontri e barricate, diede vita a un amalgama che non soltanto rafforzò la protesta, ma, con l’assommarsi di istanze libertarie e velleità rivoluzionarie, di conflitto generazionale e lotta di classe, di movimenti studenteschi e risvegli sindacali, riuscì ad aprire una breccia dentro la quale cominciarono a ribollire con più forza istanze e processi innovativi tra cui, soltanto per citarne qualcuno, la parità uomo-donna, la difesa delle minoranze, la coscienza ecologica, l’esigenza di riappro¬priarsi delle scelte di vita individuali.

Oggi stiamo assistendo, purtroppo ancora attoniti e smarriti, all’apertura da parte della destra (che esiste ancora; eccome, se esiste!) di una nuova breccia al di là della quale non ribolle nulla di nuovo, ma in cui divampano fiamme che sembrano capaci di ridurre in cenere tutti quei progressi che non solo dal Sessantotto, ma fin dall’epoca dei Lumi, erano stati originati dall’ansia di miglioramento della specie umana nel suo complesso e non soltanto delle sue piccole parti più potenti.

E ora siamo qui a chiederci come abbiamo potuto permettere che il nostro mondo cambiasse tanto, e in peggio. Come sia stato possibile barattare l’entusiasmo e l’utopia con la paura e l’odio. Come non ci si sia opposti alla marginalizzazione e alla ridicolizzazione della cultura per fare spazio a tanti che nulla sanno, ma che sono convinti di essere capaci di diventare qualunque cosa: da presidente del Consiglio in giù. Come ancora oggi si guardi ai piccoli problemi personali senza rendersi conto che sono soltanto una minuscola parte dei problemi generali e che sono questi ultimi che devono essere risolti per primi, perché altrimenti impediranno ogni soluzione degli altri.

Morin afferma che forse nel Sessantotto siamo stati convinti di avere vissuto una rivoluzione politica e sociale, mentre invece stavamo vivendo un vero e proprio rinnovamento culturale e antropologico e, conseguentemente, che la crisi che quell’anno ha provocato non è stata una crisi politica, ma una strisciante crisi di civiltà, di quella “civiltà del benessere”, inestricabilmente legata al culto del dio denaro, che poi ha permeato quasi ogni scelta sociale successiva agli anni Settanta.

Quindi, forse oggi sbagliamo a pensare che per opporci alla schifosa marea nera che minaccia di soffocarci dobbiamo agire a livello politico. O, meglio, l’ipotesi non è sbagliata, ma è soltanto parziale, perché prima dovremmo agire in maniera da riuscire a impostare nuovamente un rinnovamento culturale e antropologico. Insomma, probabilmente, ancora una volta l’unico modo per opporsi alla barbarie non è né la forza, né l’astuzia politica di corto respiro, ma la quotidiana, paziente e faticosa opera di imparare e di insegnare: due azioni che una volta erano sempre fuse tra loro e che oggi sembrano condannate a non avere più rapporti; a diventare entrambe sterili, spianando così la strada a coloro che sull’assenza di pensiero cosciente altrui hanno fondato la loro impudente fortuna.
 
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