giovedì 12 luglio 2018

Il concetto di rassegnazione

È fin dall’antichità che hanno fatto di tutto per convincerti che se sei povero è colpa tua perché non ti sei dato abbastanza da fare; mentre se sei ricco è perché sei bravo e intelligente. E lo stesso puntiglio ce l’hanno messo, sempre dalla notte dei tempi, per persuaderti che se sei nato in un posto povero, arido, climaticamente disagiato, socialmente terrificante, ebbene, hai avuto sfortuna, o, se credi, che un qualche Dio ce l’ha avuta con te; se, invece, hai visto la luce in un Paese fertile, ricco, dominante, è la sorte, o il destino, o quel qualche Dio ad aver deciso che tu non soltanto abbia diritto alla vita più di altri, ma che, addirittura, quegli altri abbiano il dovere di supplicarti, di chiederti la grazia per avere qualche possibilità di sopravvivenza per sé e per i propri cari. E il corollario, importante come il teorema, è stato che in ogni caso bisognava rassegnarsi, che ribellarsi non era soltanto inutile, ma anche dannoso, perché blasfemo: come un essere umano poteva opporsi, infatti, ai voleri della sorte, del destino, o addirittura di un qualche Dio?

Dei risultati derivanti dal fatto che di queste sciocchezze per secoli siano riusciti a convincere la maggior parte della gente, sono pieni i libri di storia con imperi, regni, satrapie, nobiltà, servitù, schiavitù, guerre, razzismi, genocidi, stragi, rivoluzioni, repressioni, carestie, epidemie, migrazioni.

Poi si è cominciato a non credere più tanto, né alla sorte, né al destino, né al fatto che un qualche Dio, se esiste, possa divertirsi a farsi rappresentare da qualcuno e a permettergli di prevaricare gli altri invocando nobiltà, censo, o colore della pelle e dei capelli. Si è cominciato a pensare che tutti gli esseri umani siano uguali e abbiano il medesimo diritto di vivere e di puntare, se non alla felicità, almeno al miglioramento. Si è cominciato a lottare per estendere i diritti di tutti e a offrire garanzie generali a coloro che sono più deboli. Il tutto, convincendosi che, pur se ormai nulla poteva essere fatto per cambiare la storia, era invece possibile emendare preventivamente la cronaca da tutte le brutture passate.

Ma purtroppo – dobbiamo dircelo – è stato un sogno di breve durata. Forse la nobiltà ormai ha dovuto alzare definitivamente bandiera bianca, ma censo e razza, soldi e potere, nazionalismo e razzismo, hanno rialzato la testa con violenza e con la sete di vendetta di chi, vistosi ormai quasi perduto, riesce ad approfittare della disattenzione, o della sazietà dei carcerieri, per uscire di nuovo allo scoperto e per tornare a convincere gli altri agitando spettri come l’odio e la paura; come se tanti secoli fossero passati invano; come se di nuovo fosse lecito, com’era nell’antichità, condannare uno solo perché aveva pelle, o lingua, o religione, o vestiti, o gusti alimentari, o abitudini sessuali, o altro ancora, diversi dei nostri.

L’unica differenza, apparente e temporanea, da mantenere fin quando la conquista non sarà completata, è l’abitudine a mascherare le parole, a edulcorarle, per evitare di spaventare quella gente che si dice chieda sicurezza, mentre, invece, chiede soprattutto di non dover pensare, di non dover scegliere, di non dover rinunciare a qualcosa che si desidera, anche se non se ne ha un bisogno disperato, in favore di chi questo bisogno disperato, invece, ha.

E così abbiamo visto il parziale adattamento del termine “sovranismo”, di origine francese, per riferirsi, senza citarlo, al “fascismo”. Oppure abbiamo assistito allo stravolgimento del “populismo” che originariamente per i russi indicava una specie di socialismo rurale e che oggi, invece, punta a far credere che si voglia dare spazio alle qualità e capacità delle classi popolari, mentre invece è un’esaltazione demagogica rivolta a chi ascolta puntando a distrarlo e a convincerlo di avere in mano un potere che, invece, è saldamente in pugno di coloro che questo populismo usano. Ma si possono usare anche locuzioni: il «Prima gli italiani», infatti, non riesce a nascondere il razzismo di fondo che anima queste parole, sia perché lo slogan stato registrato come proprio marchio da Casapound il 20 marzo 2017, sia in quanto mostra inevitabilmente la corda quando Salvini si scaglia contro i rom e non perché non italiani, visto che per il 90 per cento lo sono, ma proprio e soltanto perché rom.

E, a questo punto, torna in campo il concetto di rassegnazione, quello che ha permesso che tante ingiustizie continuassero per secoli e che oggi, con lo stesso scopo, si vorrebbe ritirare in ballo un po’ imbrogliando le carte, un po’ approfittando che la sinistra appare impotente, tradita da chi era stato designato a guidarla, ma anche, almeno in parte, dai suoi frequentatori che, ormai troppo spesso feriti da altri, non riescono più a fidarsi di nessuno.
Bisognerebbe, quindi, rassegnarsi ad avere Salvini non solo come ministro degli Interni, ma addirittura come premier reale e debordante su ogni altro ministero, anche grazie all’inesistenza del presidente del Consiglio Conte e al timore di Di Maio, e grillini assortiti, di perdere la fascinosa poltrona da poco conquistata? Bisognerebbe rassegnarsi ad accettare fascismo, demagogia e razzismo?

Ovviamente no. E, per rifiutarsi, intanto non si può restare in silenzio davanti alle mostruosità che Salvini dice. A molti, per esempio, deve essere sfuggito – o hanno preferito far finta di niente – un botta e risposta tra il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, e il ministro pro tempore (speriamo non lungo) degli Interni, Salvini. «Se per assurdo un barcone di immigrati arrivasse ai Murazzi del Po, dovrebbe poter attraccare perché la Convenzione di Ginevra prevede il diritto al non respingimento. Quindi un immigrato ha diritto di scendere per chiedere asilo politico e la sua richiesta deve essere vagliata. Se questo non accadesse io dovrei fare degli accertamenti», è la dichiarazione di Spataro. E Salvini risponde: «Mi ha incuriosito che decida lui cosa può fare o non fare un governo eletto da milioni di italiani. Io penso che bloccare i porti a chi aiuta i trafficanti di esseri umani non sia un diritto ma un dovere. Se qualcuno la pensa diversamente può candidarsi alle prossime elezioni».

Questa è una risposta che richiede attenzione su molti punti. Per prima cosa a decidere non è Spataro, ma la Convenzione di Ginevra alla quale l’Italia aderisce e che, quindi, deve rispettare. Poi magari Salvini non se ne ricorda, o non lo sa, ma dai tempi di Montesquieu esiste una cosa chiamata separazione dei poteri e un magistrato deve decidere seguendo la legge e non i piaceri del governo di turno. Poi sul governo eletto da milioni di italiani qualche dubbio c’è, perché molti di quei milioni di italiani hanno votato Centrodestra, o 5stelle non prevedendo minimamente – e forse neppure apprezzando – che i grillini potessero allearsi con una parte, quella più integralista, del Centrodestra.

Curioso, poi, l’ultimo – diciamo così – pensiero: «Se qualcuno la pensa diversamente può candidarsi alle prossime elezioni». La prima cosa che balza agli occhi è che la libertà di pensiero è di parola è assicurata dalla nostra Costituzione – altro testo che forse Salvini non ricorda, o non conosce – a tutti e non soltanto a onorevoli, senatori, ministri e sottosegretari. La seconda è che questa è la prima volta che Salvini è stato eletto in Parlamento, eppure è già da anni che ha ammorbato le nostre orecchie con le sue flatulenze intellettuali senza che mai nessuno – com’è giusto – gli abbia mai ricordato che era soltanto un deputato europeo e che, quindi, secondo le sue teorie, avrebbe avuto diritto a parlare soltanto di Europa e di rapporti tra Ue e Italia.

Sul bloccare i porti, infine, Salvini dovrebbe ricordare che non rientra tra le sue competenze, ma va a invadere quelle del ministero delle Infrastrutture del sognante ministro Toninelli, o quello della Difesa in cui la ministra Trenta almeno tenta di far rispettare le proprie prerogative. Molto ci sarebbe poi da ridire sul fatto che sempre Salvini non vuole autorizzare lo sbarco dei naufraghi recuperati dalla Diciotti, nave della Guardia costiera, nel porto di Trapani, a meno che non scendano tutti in manette, con una misura di costrizione, cioè, imposta non dico senza un giudizio, ma neppure senza un’indagine. E non mi si venga a dire che questo non ci riporta alla memoria quanto accadeva nel ventennio fascista.

In realtà, poi, almeno una cosa del ventennio fascista si è già ricreata: dopo decenni in cui con gli avversari politici, anche i più lontani, ci si affrontava a muso duro, ma si riusciva a discutere perché c’erano in comune un linguaggio politico e degli inamovibili caposaldi istituzionali, oggi tra le varie fazioni politiche (chiamarle partiti sarebbe un immeritato complimento) non si tenta nemmeno più di confrontarsi e ci si disprezza vicendevolmente come si fa con i nemici, in una guerra che, come tutte le guerre avrà uno sconfitto e un vincitore che, però, non sarà mai il popolo che continua a essere angariato da provvedimenti, o da altrettanto drammatiche latitanze, che causano morti, disuguaglianze e disperazioni che sono considerati semplici “danni collaterali”. E questa atmosfera si sta trasferendo anche ai rapporti umani: sempre più, infatti, si assiste a rapporti personali interrotti con decisione proprio per motivazioni politiche.

Rassegnarsi porta anche a questo.

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