sabato 16 giugno 2018

I numeri e la vita

La notizia è di quelle che non possono lasciare indifferente nessuno, ma soprattutto chi ha lavorato per quarant’anni sotto le insegne del Messaggero Veneto e, grazie agli orari di una volta, ha passato innumerevoli notti a contatto di gomito con i rotativisti. Eccola: poco prima delle 3 di notte un caporeparto di 49 anni, friulano, si è tolto la vita in un ufficio dello stabilimento del centro stampa di Savogna, vicino a Gorizia, dove si trovano le rotative che stampano il Messaggero Veneto e Il Piccolo. Lascia la moglie e un figlio di 11 anni. Il fatto si verifica cinque giorni dopo che il gruppo Gedi News Network, di cui sono parte integrante le due testate, aveva annunciato la chiusura del centro stampa isontino con il trasferimento dell’attività e del personale non interessato da possibili prepensionamenti nel centro stampa di proprietà del gruppo a Padova. La produzione è stata subito fermata e poligrafici e giornalisti hanno proclamato un giorno di sciopero. Il Gruppo Gedi, dal canto suo, si è dichiarato «profondamente colpito e addolorato». «Siamo vicini alla famiglia ha continuato – alla quale non faremo mancare il nostro aiuto». Va anche ricordato che il Centro stampa di Gorizia era in funzione da circa sei anni, dopo la dismissione delle rotative di Udine e di Trieste e il loro conseguente accorpamento nell’Isontino.

Le segreterie regionali di Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom-Uil, nel commentare la notizia sottolineano: «Temiamo che anche questa possa essere una delle ragioni della tragica decisione». «Temiamo», dicono; e, infatti, nessuno può permettersi di trinciare giudizi di correlazione tra quello che è avvenuto e il perché questo è avvenuto, ma è altrettanto certo che se anche la notizia del trasferimento obbligato a Padova è stato soltanto la goccia che ha fatto traboccare un vaso, bisogna pur dire che è stata una goccia terribilmente, drammaticamente importante.

Non si può pensare, infatti, che, al di là dei dettagli di legge e di contratto, un trasferimento di città, a una distanza di circa 160 chilometri, possa essere qualcosa che lascia indifferenti, specie se la quantità di denaro a disposizione non è tale da cancellare ogni preoccupazione legata a uno spostamento di residenza, visto che un simile pendolarismo non è ipotizzabile. E non si può pensare nemmeno che non abbiano peso la quasi certa perdita di amicizie e di abitudini anche per la moglie e il figlio.

Intendiamoci: nessuna colpa particolare al Gruppo Gedi, ma, casomai, al sistema–lavoro, alla società che abbiamo costruito. Il Gruppo si è comportato come avrebbero fatto quasi tutte le altre aziende: ha deciso tenendo d’occhio soltanto i bilanci e non quelli che, lavorando, rendono possibili quei bilanci stessi. Come tutti, anche il Gruppo Gedi ha guardato i numeri e non la vita.

Nulla da eccepire se non che è semplicemente, abitudinariamente, del tutto asimmetrico pretendere dedizione, fedeltà e massimo impegno dai dipendenti, se l’azienda non li ripaga con la stessa moneta.

Ma anche l’asimmetria è diventata di moda e purtroppo non soltanto tra aziende e lavoratori, ma anche tra tante persone e la loro coscienza. Un esempio emblematico in tal senso mi sembra quello fornito in questi giorni da Alessandro Di Battista che ha ceduto per 50 mila euro i diritti per un suo prossimo libro di memorie alla Mondadori, editore Berlusconi. Alla maliziosa domanda del giornalista che gli chiedeva se non gli creasse imbarazzo ricevere soldi da uno degli imprenditori più disprezzati da lui e da tutti i 5stelle, l’ex onorevole ha risposto che come guadagna denaro «sono cavoli miei», anche se, a dire il vero, non ha usato la parola “cavoli”, ma un’altra che comincia sempre con la “c”, ma poi prosegue in modo diverso. E, asimmetricamente, non gli è venuto neppure in testa che come risponde lui, potrebbero rispondere tutti; Berlusconi compreso.

Ed è proprio per questo che l’asimmetria ha successo: solo perché i numeri, il guadagno, hanno sempre la precedenza sulla vita. Sarebbe assurdo se cercassi di illustrare bene questo concetto quando c’è già stato chi lo ha fatto alla perfezione. Si tratta di Robert Kennedy che il 18 marzo del 1968, tre mesi prima di essere assassinato mentre era in campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti, ha tenuto un discorso all’università del Kansas. Ve ne ripropongo, parola per parola, la parte che interessa l’argomento di cui sto parlando.

«Non troveremo mai un fine per la nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo».
«Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari».
«Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere, o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi».
«Il PIL non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. In breve, misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».

Le mie più sentite e commosse condoglianze alla famiglia e ai colleghi che non sono soltanto suoi, ma anche miei, perché nei vecchi giornali i poligrafici esistevano ancora ed erano della stessa famiglia dei giornalisti in quanto entrambe le categorie sapevano che l’una senza l’altra non poteva esistere. E sono convinto che la stessa regola, pur con il dilagare dei computer, sia ancora del tutto valida, se si vuole sfruttare al massimo due professionalità e non accontentarsi di ibridi che non potranno mai – e non per colpa loro – dare il massimo, né in un campo, né nell’altro.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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