La notizia è di
quelle che non possono lasciare indifferente nessuno, ma soprattutto chi
ha lavorato per quarant’anni sotto le insegne del Messaggero Veneto e,
grazie agli orari di una volta, ha passato innumerevoli notti a contatto
di gomito con i rotativisti. Eccola: poco prima delle 3 di notte un
caporeparto di 49 anni, friulano, si è tolto la vita in un ufficio dello
stabilimento del centro stampa di Savogna, vicino a Gorizia, dove si
trovano le rotative che stampano il Messaggero Veneto e Il Piccolo.
Lascia la moglie e un figlio di 11 anni. Il fatto si verifica cinque
giorni dopo che il gruppo Gedi News Network, di cui sono parte
integrante le due testate, aveva annunciato la chiusura del centro
stampa isontino con il trasferimento dell’attività e del personale non
interessato da possibili prepensionamenti nel centro stampa di proprietà
del gruppo a Padova. La produzione è stata subito fermata e poligrafici
e giornalisti hanno proclamato un giorno di sciopero. Il Gruppo Gedi,
dal canto suo, si è dichiarato «profondamente colpito e addolorato».
«Siamo vicini alla famiglia ha continuato – alla quale non faremo
mancare il nostro aiuto». Va anche ricordato che il Centro stampa di
Gorizia era in funzione da circa sei anni, dopo la dismissione delle
rotative di Udine e di Trieste e il loro conseguente accorpamento
nell’Isontino.
Le segreterie regionali di Slc-Cgil,
Fistel-Cisl e Uilcom-Uil, nel commentare la notizia sottolineano:
«Temiamo che anche questa possa essere una delle ragioni della tragica
decisione». «Temiamo», dicono; e, infatti, nessuno può permettersi di
trinciare giudizi di correlazione tra quello che è avvenuto e il perché
questo è avvenuto, ma è altrettanto certo che se anche la notizia del
trasferimento obbligato a Padova è stato soltanto la goccia che ha fatto
traboccare un vaso, bisogna pur dire che è stata una goccia
terribilmente, drammaticamente importante.
Non si può pensare, infatti, che, al
di là dei dettagli di legge e di contratto, un trasferimento di città, a
una distanza di circa 160 chilometri, possa essere qualcosa che lascia
indifferenti, specie se la quantità di denaro a disposizione non è tale
da cancellare ogni preoccupazione legata a uno spostamento di residenza,
visto che un simile pendolarismo non è ipotizzabile. E non si può
pensare nemmeno che non abbiano peso la quasi certa perdita di amicizie e
di abitudini anche per la moglie e il figlio.
Intendiamoci: nessuna colpa
particolare al Gruppo Gedi, ma, casomai, al sistema–lavoro, alla società
che abbiamo costruito. Il Gruppo si è comportato come avrebbero fatto
quasi tutte le altre aziende: ha deciso tenendo d’occhio soltanto i
bilanci e non quelli che, lavorando, rendono possibili quei bilanci
stessi. Come tutti, anche il Gruppo Gedi ha guardato i numeri e non la
vita.
Nulla da eccepire se non che è
semplicemente, abitudinariamente, del tutto asimmetrico pretendere
dedizione, fedeltà e massimo impegno dai dipendenti, se l’azienda non li
ripaga con la stessa moneta.
Ma anche l’asimmetria è diventata di
moda e purtroppo non soltanto tra aziende e lavoratori, ma anche tra
tante persone e la loro coscienza. Un esempio emblematico in tal senso
mi sembra quello fornito in questi giorni da Alessandro Di Battista che
ha ceduto per 50 mila euro i diritti per un suo prossimo libro di
memorie alla Mondadori, editore Berlusconi. Alla maliziosa domanda del
giornalista che gli chiedeva se non gli creasse imbarazzo ricevere soldi
da uno degli imprenditori più disprezzati da lui e da tutti i 5stelle,
l’ex onorevole ha risposto che come guadagna denaro «sono cavoli miei»,
anche se, a dire il vero, non ha usato la parola “cavoli”, ma un’altra
che comincia sempre con la “c”, ma poi prosegue in modo diverso. E,
asimmetricamente, non gli è venuto neppure in testa che come risponde
lui, potrebbero rispondere tutti; Berlusconi compreso.
Ed è proprio per questo che
l’asimmetria ha successo: solo perché i numeri, il guadagno, hanno
sempre la precedenza sulla vita. Sarebbe assurdo se cercassi di
illustrare bene questo concetto quando c’è già stato chi lo ha fatto
alla perfezione. Si tratta di Robert Kennedy che il 18 marzo del 1968,
tre mesi prima di essere assassinato mentre era in campagna elettorale
per la Presidenza degli Stati Uniti, ha tenuto un discorso
all’università del Kansas. Ve ne ripropongo, parola per parola, la parte
che interessa l’argomento di cui sto parlando.
«Non troveremo mai un fine per la
nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento
del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non
possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones,
né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo».
«Il PIL comprende anche
l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze
per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei
fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le
nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle.
Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere
prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm,
missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare
la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli
equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che
aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi
popolari».
«Il PIL non tiene conto della salute
delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della
gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra
poesia, o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro
dibattere, o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né
della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra
di noi».
«Il PIL non misura né la nostra
arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra
conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese.
In breve, misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di
essere vissuta».
Le mie più sentite e commosse
condoglianze alla famiglia e ai colleghi che non sono soltanto suoi, ma
anche miei, perché nei vecchi giornali i poligrafici esistevano ancora
ed erano della stessa famiglia dei giornalisti in quanto entrambe le
categorie sapevano che l’una senza l’altra non poteva esistere. E sono
convinto che la stessa regola, pur con il dilagare dei computer, sia
ancora del tutto valida, se si vuole sfruttare al massimo due
professionalità e non accontentarsi di ibridi che non potranno mai – e
non per colpa loro – dare il massimo, né in un campo, né nell’altro.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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