mercoledì 30 maggio 2018

Vicini e lontani

Mentre a livello nazionale tutto ribolle, sul piano regionale e comunale tutto è già chiaro e cristallizzato per cinque anni. A Roma ci sono pochissime certezze che riguardano Quirinale, 5stelle, Lega e PD.

Il presidente della Repubblica, per esempio, ha ben presente che un suo cedimento nella vicenda dei ministri non avrebbe avuto soltanto un significato politico opposto a quello che gli è stato dato, ma che sarebbe stato un ulteriore smottamento istituzionale che avrebbe potuto essere determinante per condurre a quella frana costituzionale desiderata da più d’uno e segnatamente da coloro che ragionano soltanto in termini di comodo a seconda delle contingenze del momento, senza neppure pensare che i contrappesi costituzionali potrebbero essere utili, o meglio necessari, anche a loro in situazioni contingenti diverse, se non diametralmente opposte.


I grillini, ma soprattutto Di Maio, non possono nemmeno pensare di non andare al governo questa volta in quanto sanno – e i sondaggi glielo stanno ricordando impietosamente – che la fase calante è già cominciata. Quindi, per arrivare a palazzo Chigi, sia pur in coabitazione, sono disposti a qualsiasi giravolta, come passare in poche ore, con splendida faccia di bronzo, dallo strillare all’impeachment, all’offrire collaborazione a Mattarella, pur di non veder sfumare il sogno.

La Lega si tiene in splendido quasi assoluto silenzio, non per sopraffina abilità politica, ma per placida sicurezza che se il governo arriva in porto, sbarca a palazzo Chigi; altrimenti i sondaggi la danno straripante in elezioni a tempi brevissimi.

Il PD, invece, continua ad andare verso la dissoluzione. Messa la sordina a divisioni interne che continuano a ribollire sotterranee, anche se poi fanno capolino ogniqualvolta Renzi parla ricordando che è «un semplice senatore», o «un mediano», ma che comunque si deve fare quello che dice lui, l’incertezza interna si manifesta anche con scelte francamente incomprensibili. Sollecitare per primi nuove elezioni in tempi brevissimi, per esempio, sembra dimostrare che quei dirigenti non hanno minimamente capito che se il partito non cambia – e non sta cambiando – la china che ha portato alla perdita di oltre cinque milioni di voti, rischia di assumere una pendenza ancora più vertiginosa. Oppure dichiarare di astenersi nel voto di fiducia a un possibile governo Cottarelli significa ancora una volta non saper scegliere, oppure privilegiare i bizantini equilibri di potere interni rispetto a una chiarezza di indirizzo che tanti vorrebbero: l’attuale PD non è né con Mattarella, né con chi l’accusa, come, del resto, dall’arrivo di Renzi alla segreteria, non è più né di destra, né di sinistra. E anche su una posizione di centro ci sarebbe qualcosa da ridire.

Lascio perdere, per carità di patria, la sinistra che continua a dividersi – e la vicenda Mattarella è il più recente, clamoroso esempio – tra inflessibile purezza e ragionata contaminazione, tra desiderio di unirsi e voglia di dividersi, con l’unica costante di una clamorosa assenza dalla scena. Sembra un sistema gravitazionale in cui la coesistenza di forze centripete e centrifughe non permettano alcun, seppur temporaneo, o addirittura momentaneo, equilibrio.

E veniamo alle nostre certezze. Per cinque anni, salvo inipotizzabili sorprese, Fedriga dominerà la Regione e Fontanini farà lo stesso a Udine. Balza subito in primo piano, insomma, la necessità di capire come fare opposizione. Può bastare il «Non faremo sconti» in consiglio? Credo di no, perché non ricordo alcuna opposizione che sia stata tenera a parole con la maggioranza; eppure i risultati delle elezioni successive non sono praticamente mai dipesi dalla lettura delle cronache consiliari. Molto più determinante, invece, può essere l’esplicitazione pubblica dei proprio dissenso, o, ancor meglio, l’impegno pratico a far sì che i progetti della maggioranza non si concretizzino.

Prendiamo l’esempio di Udine dove, per il momento, il massimo impegno del nuovo sindaco sembra essere quello di riservare parcheggi per sé e per i consiglieri vicino al municipio. Sicuramente utile è stata la manifestazione pubblica contro la scelta di Fontanini di inserire in giunta un elemento dichiaratamente nostalgico del fascismo; e che quel posto non sia andato direttamente a Salmé, ma alla sua compagna di vita ha messo in mostra soltanto un’ottima dose di ipocrisia.

Molto più importante, invece, mi appare una battaglia da cominciare subito in difesa di vicino/lontano evento culturale giunto al 14.mo anno di vita e che Fontanini ha detto che «va ripensato» come «Friuli doc». Già l’avvicinare questi due avvenimenti, lontanissimi tra loro, la dice lunga sulla sensibilità del nuovo sindaco. Ma bisognerebbe che la minoranza – ma anche la popolazione – ricordasse un po’ di cose al sindaco. Intanto per “ripensare”, bisogna aver prima aver “pensato” e questo non si attaglia proprio a vicino/lontano che in realtà è stato ideato da persone che con Fontanini non avevano contatti neppure casuali. Poi, visto che l’idea non appartiene né al sindaco, né al Comune di Udine, affermare di volerlo “ripensare” significa soltanto che a questa frase sottende una minaccia neanche tanto velata: “O accettate di cambiare, oppure il Comune non vi concederà più gli ormai tradizionali spazi, né vi darà più alcun aiuto”.

La cosa non dovrebbe stupire visto che il centrodestra ha sempre agito così nei confronti della cultura. Nella Destra Tagliamento, visto che Pordenonelegge era ormai lanciatissimo e praticamente autonomo, per ipotizzare un contenitore culturale di destra è stato creato Pordenonepensa, che si trascina da qualche anno trovando momenti di vivacità soltanto nei dibattiti tra posizioni sociali e politiche contrapposte. Per impadronirsi del Mittelfest, invece, a suo tempo non è stato rinnovato il contratto di direzione a Moni Ovadia, sperando di trovare un buon palcoscenico di propaganda. Ne è uscita la mortificante gestione Devetag, dapprima come presidente e poi come direttore artistico (?), che ha avvilito il Mittelfest fino a fargli rischiare la sparizione.

Ora la storia sembra potersi ripetere perché ancora non si è capito che la politica, se non c’è, può essere camuffata da propaganda, mentre la cultura, se non c’è, non c’è e basta.

Ecco: a me sembra obbligatorio rendersi conto che in una quinquennale serie di battaglie pubbliche e popolari di opposizione, quella per vicino/lontano mi sembra davvero la prima, e non solo temporalmente, perché è emblematica, ma è anche fondamentale per far capire che ci si può muovere assieme per salvare le cose che meritano di essere salvate in attesa di poterne costruire altre nuove. Difendere la cultura, insomma, anche per essere vicini alla politica e lontani dalla propaganda.

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venerdì 25 maggio 2018

Pianeti, satelliti e asteroidi

Una precisazione iniziale: non sono mai stato iscritto al PD, come a nessun altro partito politico, ma nella stragrande maggioranza dei casi, gli ultimi esclusi, da quando è stato fondato, è stato proprio per il PD che ho votato.

È stato con lo spirito di ospite, quindi, che, con tantissime altre persone, sono entrato nella sua sede dem udinese su invito di Enzo Martines che voleva ragionare, con tutti coloro che si collocano dal centrosinistra alla sinistra, su quello che è successo e su come andare avanti non disperdendo ciò che, nonostante la sconfitta, si è riusciti a costruire.

Ed è stato con lo spirito di ospite che, per rispetto degli ospitanti, ho scelto di non intervenire per evitare ogni possibile polemica che non avesse il tempo di essere sviscerata e analizzata, non andando quindi, verso una sua risoluzione, ma soltanto verso un ulteriore accumulo di rancori reciproci che sicuramente a sinistra non mancano, anzi sono talmente diffusi da rendere l’aria difficilmente respirabile. Preferisco, insomma, affidare allo scritto quello che penso lasciando a chi lo desidera di cominciare un dibattito che non sia limitato in poche frazioni di ora e che possa non essere inquinato dalle istintive reazioni a caldo che spesso vanno anche oltre l’intendimento di chi le ha.

Nella sede del PD ho sentito molti e apprezzabili progetti per il futuro, mi sono apparse troppo scarse le analisi – a dire il vero rinviate a data da destinarsi – sul perché di una sconfitta, ma è mancato del tutto un argomento che, a mio modo di vedere, è stato determinante, sul quale avrei voluto intervenire e che, probabilmente, mi avrebbe fruttato alcuni indispettiti «Fatti i fatti tuoi». In una serie di interventi tutti circoscritti alla situazione udinese, infatti, avrei voluto attirare l’attenzione generale sulla situazione del PD nazionale che, sempre secondo me, ma non credo soltanto secondo me, ha influito pesantemente anche sui risultati delle comunali, oltre ad aver creato disastri assoluti a livello nazionale e regionale. E a chi si fosse sentito offeso dalla mia “intrusione”, avrei voluto avere il tempo di spiegare che il problema è che questi sono anche fatti miei.

Provo a spiegarmi con un esempio astronomico. Attorno al Sole ruotano pianeti, satelliti e asteroidi. I pianeti sono diventati tali perché a un certo punto della loro genesi si è creato un nucleo di attrazione talmente potente da far unire a sé i frammenti che continuavano a orbitare separatamente. Nel frattempo si sono formati anche altri nuclei di attrazione secondari che sono diventati i satelliti, più piccoli, ma non privi di importanza: si pensi a quali problemi angustierebbero la Terra senza il fenomeno delle maree che dipende per grandissima parte proprio dalla Luna. E poi ci sono gli asteroidi, piccolissimi e insignificanti, incapaci di unirsi di fase di genesi, o di riunirsi se relitti di un antichissimo pianeta disgregatosi per cause a noi sconosciute; sono visti non certamente come possibili sedi di vita artificiale, ma soltanto, eventualmente come futuribili porzioni di materia da sfruttare succhiandone le ricchezze.

Il paragone con la nostra situazione politica mi sembra evidente. Quando il PD ha perduto la sua fisionomia politica e, quindi, la sua forza gravitazionale, si sono staccati milioni di asteroidi che non vogliono più sentire alcuna forma di attrazione, rischiano di allontanarsi ancora di più, fino a uscire dall’orbita, i vari satelliti; e lo spesso pianeta sta isterilendosi fino a rischiare di sparire schiacciato dalle forze gravitazionali di nuovi pianeti che invece stanno crescendo a dismisura.

Fuor di metafora: o il PD a livello nazionale ritroverà il suo spirito originario, o i disastri, anche a livello locale saranno terribili e difficilmente riparabili. Sono convintamente antirenziano e l’archivio dei miei “Eppure…” dimostra anche che temporalmente sono stato uno dei primi, ma vi prego di credere che nella mia analisi l’antipatia per Renzi c’entra ben poco, mentre domina la convinzione che sia necessario avere un PD nuovamente attrattivo perché anche gli altri corpi celesti del centrosinistra e della sinistra tornino ad avere un ruolo nella cosmologia della politica italiana.

Ora si parla sempre più insistentemente di una nuova separazione in casa PD in cui sarebbe Renzi ad andarsene per creare, in omaggio alla sua “grandeur”, un proprio nuovo partito personale modellato su quello di Macron. Si tratta di movimenti che passano sulla testa delle varie realtà locali? Certamente sì, ma non del tutto, perché, in previsione del congresso del PD, indicazioni preziose e importantissime possono arrivare anche e soprattutto dai responsi delle elezioni locali dei delegati e, soprattutto dalla preparazione a queste elezioni.

Prego, insomma, il PD di tornare alle sue origini e di dimenticare chi l’ha portato talmente fuori strada da fargli perdere oltre cinque milioni di voti. Non sono fatti miei? Altroché se lo sono. Anzi, lo sono di un numero incredibilmente alto di italiani.

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domenica 20 maggio 2018

Qualcosa di nuovo; anzi, d’antico

A naso, l’unica soluzione possibile sembra quella di rinchiudere l’intero PD in un unico posto: i renziani, gli antirenziani, quelli che sono convinti della loro collocazione, quelli che non riescono a trovare il coraggio di andarsene e quelli che sono ancora lì soltanto perché non riescono a decidere cosa sono in realtà, o in quanto ripugna loro l’idea di uscire da quella che hanno sempre considerato casa propria e che ora dovrebbero lasciare in mano a coloro che sentono come “estranei”.

Bisognerebbe chiuderli tutti insieme a doppia mandata e poi lasciarli uscire soltanto quando hanno deciso cosa fare: mantenere il PD in una posizione di centro con forti simpatie per il centrodestra, riportarlo nelle posizioni di centrosinistra nelle quali e per le quali era nato, oppure finire di distruggerlo definitivamente con nuove diaspore e deporre il suo ricordo in un mausoleo assieme a quelli dei tanti partiti italiani che non ci sono più.

L’unica cosa che dovrebbe essere proibita sarebbe quella di continuare ad arzigogolare sul nulla, su bizantinismi che sicuramente avranno importanza per gli equilibri di potere interno, ma che sono perniciosi – e lo si vede sempre più distintamente – per l’intero Paese.

Lasciamo pur perdere che ben difficilmente, se non perché Renzi ha scelto e tiene in pugno troppi dirigenti e parlamentari, si può riuscire a capire come e perché l’ex sindaco di Firenze sia ancora lì a fare il bello e cattivo tempo in un partito che da quattro anni sta portando da una sconfitta all’altra e del quale, sempre in quattro anni, è riuscito a più che dimezzare le percentuali (da 40,81 a 18,72%) e a perdere oltre cinque milioni di voti.

Ma ancora più ostico è tentar di capire come non sia stato mandato a quel paese durante l’assemblea romana (alla quale ha scelto di non presenziare), che avrebbe dovuto decidere molte cose e non ha deciso nulla, se non di non decidere. Riassumo brevemente: all’Ergife le dimissioni di Renzi sono diventate «irrevocabili», anche se tutti erano convinti che fossero già state dichiarate tali già dopo il 4 marzo, ma ancora una volta l’obbediente Orfini è riuscito, pur tra fischi e urla, a rinviare la formalizzazione delle dimissioni. Ufficialmente per lasciare spazio – quel pochissimo che è rimasto dopo la discussione sul rinvio – per discutere sulla situazione politica venutasi a creare dopo l’accordo tra Lega e 5stelle; in realtà, per non arrivare subito alla designazione di un segretario non più soltanto reggente e, quindi, al fine di concedere tempo all’“irrevocabilmente dimissionario” per assicurarsi che non ci siano sorprese lungo la strada che deve far arrivare sullo scranno che conta un altro ubbidiente a tutta prova.

Poi, alla fine, come sempre, il voto con un unanimismo di maniera nella speranza di far vedere al mondo di essere sempre uniti, senza, però, risolvere nulla, senza riuscire neppure a illudere se stessi, per non parlar degli altri. A questo proposito merita riportare le parole pronunciate, dopo il voto dell’Assemblea PD, da Olga D'Antona, ex deputato del PD, alla cerimonia in ricordo del marito Massimo D'Antona, il giurista assassinato 19 anni fa dalle nuove brigate rosse: «E Maurizio Martina cosa fa? Non può permettere tutto questo. Ragazzi fate qualcosa, quello è entrato in casa nostra, ha sfasciato tutto il mobilio e adesso si è messo a mangiare i pop–corn con i piedi sul tavolo». E Rosi Bindi, “madre nobile” del PD, ha detto senza mezzi termini che «la sinistra va ricostruita e questo significa lo scioglimento del PD».

La domanda che mi pongo – e che sicuramente è anche la vostra – è: perché perdere tempo a parlare di un partito il cui recupero nella lotta contro il centrodestra e i grillin–casaleggiani appare un’impresa sempre più evidentemente disperata? La risposta è semplice: perché in quella lotta non si può rinunciare a nessuno di coloro che ancora credono che ritrovare nostalgici fascisti dichiarati, o populisti dotati soltanto di istinti sovranisti e di esclusione, nei posti dove si può decidere sia un incubo al quale non ci si può rassegnare. E anche nel PD ce ne sono molti che, però, non si decidono né a ribaltare sul serio presidenza e segreteria, né ad andarsene per tentare di creare qualcosa di nuovo; anzi, d’antico. E certamente non di vecchio e inutilizzabile.


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giovedì 17 maggio 2018

Comprendere non è condividere

Non posso dire di non comprendere Giancarlo Velliscig quando dà sfogo al suo scoramento per l’elezione di Fontanini dicendo che quella di quest’anno sarà l’ultima edizione di Udin&jazz che si svolgerà nel capoluogo friulano perché il jazz è di sua natura antifascista visto che, infatti, «è stata una musica fortemente osteggiata dai regimi dittatoriali e autoritari di tutto il mondo».
 
Posso comprendere, dicevo, visto che sono tantissimi – e tra questi anch’io – coloro che stanno vivendo come un incubo la probabilità che nella giunta comunale udinese siano inseriti un paio di nostalgici fascisti dichiarati. Ma comprendere non è condividere.

Tanti hanno sentito che Fontanini starebbe compilando una lista di proscrizione di manifestazioni culturali sgradite; e lui stesso ha affermato, senza poi mai smentire, che vicino/lontano dovrà cambiare, o sparire.

Poi, se vogliamo andare più a fondo, pensiamo soltanto a cosa succederà il prossimo 25 aprile: parlerà lui che ha sempre disertato la cerimonia perché disse – forse per motivi di sue opportunità politiche, ma le parole sono pietre – che vedeva la Resistenza soltanto come una parte di una guerra civile, praticamente senza maggiori meriti dell’altra, perché di tutti i morti – indifferente se vittime o carnefici – bisogna avere la medesima pietà? O magari designerà a farlo il futuribile assessore Salmè?.

Cosa dovrebbe fare l’Anpi? Andarsene da Udine? Disertare la manifestazione in piazza? Contestare sonoramente il sindaco? Oppure, ancora, creare una manifestazione alternativa?

L’unica ipotesi impossibile è proprio la prima perché non è andandosene che si combatte un’idea che si aborrisce. Lo si fa restando e combattendo con le proprie armi.

Parliamo di jazz? E allora parliamo anche della sua storia di libertà e di emancipazione. Lavoriamo su quello che finora è stato fatto evidentemente in maniera non sufficiente: facciamo cultura non tenendola soltanto nei posti deputati, ma diffondendola dappertutto, anche e soprattutto dove inizialmente può essere vista come una fastidiosa orticaria. Anche tra i più deboli e gli ultimi, gratuitamente, per far loro percepire che povertà non è necessariamente sinonimo di emarginazione sociale.

Non rendiamo più facile a Fontanini, andandocene, il compito di compilare le liste di proscrizione che, anzi, se saranno davvero compilate si rivolteranno potentemente contro di lui.

La nostra politica deve essere impastata di cultura, deve essere essa stessa cultura. E sono convinto che sia stata proprio la mancanza di una cultura non autoreferenziale, non sdegnosa e aperta davvero a tutti, la causa che ha innescato la crisi che ha sminuzzato il PD e che ha continuato e continua a travolgere la sinistra in genere.

Gramsci di cui domani, venerdì, alle 18, presenterò una nuova biografia di Angelo D’Orsi, alla Feltrinelli di Udine, per combattere il fascismo non se n’è andato dall’Italia, se non in fase di crescita e poi è tornato, ben sapendo quali rischi avrebbe corso e ha trasformato la sua lunga carcerazione nella distillazione di pensieri che poi si sono rivelati mortalmente venefici per quel fascismo che oggi è tornato ad alzare il capo soltanto perché noi non siamo stati evidentemente capaci di indurre sentimenti di sdegno e ripulsa in coloro che poi si sono lasciati affascinare da schifose smanie di suprematismo, di esclusione, di rapporti di forza e non di giustizia.

Per combattere questa situazione non si può lasciare campo libero a chi vorrebbe farlo diventare un campo obbligato.

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venerdì 11 maggio 2018

Fascismi, alleanze e ignoranze

Il ballottaggio tra Martines e Fontanini per diventare sindaco di Udine avrà comunque il merito di far capire anche ai più distratti quali pericoli stiamo correndo; e non soltanto a livello locale. L’apparentamento di Fontanini con Stefano Salmé, segretario nazionale di RSI Fiamma nazionale e il sostegno dichiarato da parte dei seguaci di Casapound, ha messo definitivamente in chiaro, infatti che in Italia è molto difficile parlare ancora di centrodestra in quanto del “centro” è rimasto soltanto il ricordo, mentre la “destra” è diventata sempre più estrema e priva di pudore, quasi esultante perché crede di veder vicino il momento di un’impossibile riabilitazione di quella che è stata la peggiore destra italiana.
 
Nel dibattito finale televisivo con Martines Fontanini ha sostenuto che con Salmè stanno soltanto un paio di liste civiche che si rifanno alle politiche di destra, che comunque in un’amministrazione cittadina non si vede perché si debba parlare di fascismo e di antifascismo, che però Udine è amministrata da troppi anni dalla “sinistra” (ha detto così e non “centrosinistra”) e che il “centrodestra” (ha detto così e non “destra”) merita di vincere per il concetto di alternanza (probabilmente a prescindere) e perché altrimenti Udine rimarrebbe l’unica città non amministrata dal “centrodestra” in una regione di “centrodestra”. Il tutto in una povertà di indicazioni e proposte da lasciare addirittura sorpresi.

Ma la parte più interessante, anche per i non udinesi, riguarda i rigurgiti fascisti che stanno acquistando sempre più forza e flatulenza etica. E se Fontanini cerca di glissare il più possibile per non allontanare da sé coloro che ancora pensano a una destra moderata e liberale, i suoi seguaci sono più sinceri e più ruspanti e danno vita a dibattiti social nei quali desta imbarazzo scegliere tra la protervia e l’ ignoranza.

Per carità di patria taccio il nome del protagonista, ma è interessante annotare alcune sue dichiarazioni.

Davanti all’affermazione che Udine, città medaglia d’oro per la Resistenza, rischia di trovarsi dei fascisti in giunta, interviene dicendo: «Il problema sta tutto nella definizione di “fascismi”» e alla risposta che «I fascismi di adesso sono quello che i fascisti possono permettersi in attesa e nella (loro) speranza che torni davvero il fascismo», chiede: «E quindi chi sarebbero questi presunti fascisti tanto pericolosi?».

Nel colloquio, diventato a più voci, un interlocutore dà un esempio: «I sovranisti per primi» e riceve una risposta che lascia inizialmente interdetti: «Quindi l art.1 della Costituzione sarebbe pericolosamente fascista?». Dopo un istante ci si rende conto che probabilmente fa riferimento alle parole «La sovranità appartiene al popolo…» e si capisce che per il simpatizzante nostalgico la sovranità cui si riferisce la Costituzione non riguarda la potestà di decisione del popolo sulle proprie leggi e sui propri progetti, ma ha unicamente una connotazione territoriale ed eventualmente etnica.

Ma lui persevera: «L’antifascismo (quello vero non l’attuale squallida pagliacciata) fu marcatamente sovranista, e la nostra bellissima Costituzione lo dimostra». A parte il profondo fastidio di sentir finire una termine come “Costituzione” nella bocca di chi usa questa nobile parola soltanto per stravolgerla a suo uso e consumo, va detto che la vera pagliacciata è il fascismo, neo o vecchio che sia, e ancor più pagliacci sono coloro che tentano di sostenere i nostalgici facendo finta di non farlo. E che i partigiani e gli antifascisti hanno lottato e hanno dato la vita per la libertà e per la democrazia; non per la sovranità. Altrimenti avrebbero potuto benissimo restare sotto Mussolini che la sovranità la voleva, eccome, e, anzi, la sognava sempre più vasta e imposta ad altri popoli in un vergognoso e pernicioso delirio imperial–coloniale.

Si potrebbe andare ancora avanti, ma lo squallore di chi vuole la destra estrema, e contemporaneamente si vergogna di farlo cercando di mascherarsi dietro arzigogoli di vertiginosa ignoranza e illogicità, è già abbondantemente evidente.

E anche l’insegnamento è chiaro: se Udine è l’ultimo avamposto regionale ancora non inquinato dai fascisti (neo o vetero che siano) e dai loro fiancheggiatori, è giusto e doveroso fare in modo che resti tale. Domenica non ci sono alibi: chi non vota per chi si oppone a questa destra, ma anche chi non va a votare credendo di essere ininfluente, deve sapere che tipo di responsabilità si assume.

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lunedì 7 maggio 2018

Le tante democrazie

Nelle nostra costante smania di semplificazione parliamo sempre, in maniera indifferenziata, di “democrazia”, mentre, invece, pur senza entrare troppo nei dettagli, dovremmo riferirci ad almeno quattro democrazie: quella in ingresso, quella in elaborazione, quella in uscita e quella in verifica. E basta che una sola delle quattro non funzioni perché l’intero sistema democratico vada in crisi, o, almeno, in difficoltà. Ma se ad avere problemi sono tutte e quattro queste fasi, allora si può ben dire che la malattia del sistema è davvero grave e può condurre a una vera e propria metastasi che minaccia seriamente di morte quella democrazia che Winston Churchill ha definito «la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora» e, per conquistare la quale tanti hanno sacrificato la propria vita.
 
Passiamo in rassegna queste quattro fasi.

Democrazia in entrata. È quella che riguarda il modo con cui i cittadini scelgono coloro che li rappresentano, o che dovrebbero rappresentarli. Si lega ovviamente ai sistemi elettorali e deve districarsi nella ricerca di un punto di equilibrio tra la rappresentanza e la cosiddetta governabilità. Difficilmente riesce ad accontentare tutti, ma in qualche raro caso e con la presenza di una mente particolarmente devota al caos, come quella di Rosato con i cui effetti stiamo penosamente convivendo, può riuscire a negare sia rappresentanza, sia governabilità. Inoltre la crisi può essere aggravata dall’eliminazione delle preferenze e, quindi della possibilità di scegliere davvero i propri rappresentanti, perché i capi dei partiti preferiscono non correre rischi e mandare in Parlamento donne e uomini di sicura fedeltà, più che di certa capacità. Dicono che le preferenze sono state tolte per evitare voti di scambio tra i candidati. A parte il fatto che con la preferenza unica questo già non poteva succedere, ma sarebbe stato come se una volta avessero tolto tutti bancomat perché talvolta li facevano saltare. È stato logico, invece, difendersi meglio dai delinquenti.

Democrazia in elaborazione. Di questa, purtroppo, ormai dovrei parlare soltanto al passato perché attiene all'attività del Parlamento come costruttore di leggi, e in questo campo quasi tutti i disastri sono già stati combinati: ha cominciato Berlusconi, ma la demolizione della funzione parlamentare è stata eseguita con ben più grande efficacia da Renzi che ha abusato di decreti d'urgenza e di voti di fiducia. Inutile cercare paragoni esplicativi perché l'operato di Renzi ha sfiorato la perfezione distruttiva sia con il comportamento del suo governo, sia con il tentativo fortunatamente fallito, di stravolgere la nostra Costituzione.

Democrazia in uscita. Potrebbe essere definita come l'aderenza tra le leggi approvate e le reali necessità dei cittadini e non serve trovare paragoni di fantasia visto che la realtà ci ha fornito esempi in abbondanza: dal Jobs Act che ha risolto alcuni problemi imprenditoriali creandone molti di più ai lavoratori che hanno l'unica apparente soddisfazione di uscire dall'elenco dei disoccupati se lavorano per un paio di giorni al mese, alla Buona scuola che, tagliando, tagliando, riesce a scontentare docenti e discenti; dagli interventi per le banche, che salvano gli istituti di credito truffatori, ma non i risparmiatori truffati, al mondo della sanità nel quale tutti gli interventi sembrano spingere gli ammalati dalle strutture pubbliche a quelle private; e l'elenco potrebbe proseguire.

Democrazia di controllo. È quella teorica possibilità di giudizio da parte degli elettori sul comportamento degli eletti che, se non si sono comportati bene dovrebbero non essere rieletti. Ma, visto che la scelta delle liste non appartiene all'elettorato, ma soltanto ai piaceri delle segreterie dei partiti, anche la possibilità di controllo non esce dal novero delle possibilità che non riescono a diventare realtà. E questa desolante constatazione si attaglia anche a chi non vuole chiamarsi partito, ma movimento, perché intanto la scelta viene affidata a sondaggi telematici che sono nelle mani di un'azienda privata, la Casaleggio Associati, che dei 5stelle è non soltanto parte importantissima, però addirittura ideatrice e fondatrice, ma poi si è visto, anche qui in regione, che se il risultato via internet non è di gradimento del cosiddetto "capo politico", questo può tranquillamente cambiarlo decidendo a suo piacimento.

Va sottolineato anche che l'importanza di queste quattro fasi è chiaramente discendente: se il primo livello, insomma, non funziona, ne discende in maniera praticamente automatica che difficilmente reggerebbe il secondo e poi questo accade anche per il terzo e per il quarto. E ne consegue anche che, per far funzionare bene il primo livello, occorre non soltanto operare sui sistemi elettorali, ma anche e soprattutto è necessario che siano gli elettori a essere convinti dei propri doveri, oltre che dei diritti, partecipando al voto e prendendo la scheda in mano informati di cosa sta succedendo e ben coscienti della propria responsabilità.

Per fare un esempio secco e immediato, tutti coloro che al ballottaggio per il Comune di Udine andranno al seggio con l'intenzione di scegliere Fontanini e non Martines, non possono non sapere che Fontanini si è ufficialmente apparentato con Stefano Salmé, segretario nazionale di RSI Fiamma nazionale. E, quindi, devono rendersi conto di chi, votando Fontanini, vorrebbero portare nel centro decisionale del capoluogo del Friuli, città medaglia d'oro della Resistenza. Poi, in democrazia, ognuno può scegliere la strada che preferisce, ma deve anche assumersi la responsabilità delle proprie scelte. E non è che non andando a votare ci si può lavare le mani perché si passerebbe soltanto da esecutori materiali a complici.

Ancora una cosa: perché il sistema democratico funzioni occorre che prima funzionino in maniera democratica alcune realtà come i partiti e altri corpi intermedi che sono stati previsti dalla Costituzione come cinghie di trasmissione capaci di portare le necessità dei cittadini dai posti in cui vivono tutti ai luoghi in cui pochi decidono e devono decidere con conoscenza e coscienza di causa. Ed è evidente che se la democrazia non tornerà nei partiti e nei corpi intermedi, ben difficilmente riuscirà a tornare a vivere nelle quattro fasi della democrazia nostra e altrui.

In definitiva, la conclusione è lapalissiana, però non per questo va sottaciuta, ma anzi va ripetuta insistentemente e ad alta voce: la democrazia senza il demos, senza il popolo, non è altro che una finzione nella quale prosperano proprio coloro che non la amano; non pochi, ma soprattutto i fascisti e i loro fiancheggiatori.

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venerdì 4 maggio 2018

Ricordando Angela

Il cielo non ha sprecato una giornata di sole nell’inutile tentativo di stemperare la tristezza per l’addio ad Angela Felice. Molti hanno già scritto molte cose su di lei, sulla sua vita, la sua cultura, la sua dedizione per l’insegnamento, il suo amore per il teatro. A me resta il desiderio di mettere in luce un altro suo aspetto, quello che forse, unito agli altri, ma più vincolante degli altri, ci ha portato spesso a scambiarci pensieri, opinioni, idee di progetti: mi riferisco alla sua passione sociale e, quindi, politica, unita alla maniacale attenzione con cui usava l’italiano individuando proprio nell’approssimazione, nella sciatteria nell'uso delle parole, una delle cause fondamentali del declinare di troppi dei vecchi caposaldi della nostra società, della loro scomparsa non perché fossero obsoleti e, quindi, fosse necessaria una loro sostituzione, ma soltanto in quanto era troppo faticoso mantenerli in piedi.

A proposito della sinistra, per esempio, continuava a sottolineare come la parola “unità” venisse colpevolmente confusa con “unanimità”. E sono sicuro che oggi ripeterebbe il medesimo concetto.

Anche nel teatro non c’era avventura nella quale si buttasse a corpo morto che non avesse uno sfondo sociale che poi, in realtà diventava il vero protagonista della pièce; e a tal proposito vi ricordo soltanto alcuni (perché sono quelli che mi hanno coinvolto di più) dei tanti spettacoli che con il suo aiuto sono nati: “Prima che sia giorno” e “Parlamentarmente” con Massimo Somaglino e Riccardo Maranzana su testi di Carlo Tolazzi e la lunga serie di spettacoli di Giuliana Musso, tra cui "La fabbrica dei preti" e "Mio eroe" alla quale Angela ha voluto dedicare una splendida antologia nel suo “Akropolis”.

Non c’era aspetto di crisi umana e sociale che non sollecitasse la sua attenzione e la sua riflessione; e tutto questo si riverberava anche sul Palio studentesco nel quale le sue due maggiori passioni– il teatro e l’educazione dei giovani – convergevano nel medesimo filone di attività. È difficile dimenticare il suo frenetico e vigoroso impegno per salvare il Palio messo incredibilmente in pericolo da un assessore regionale quantomeno distratto, ma anche la sua evidente coscienza che proprio quel momento di pericolosissima crisi poteva diventare un momento di grande crescita sociale per i ragazzi, se riusciva a farli stare assieme per lavorare per un unico obbiettivo e anche a far loro rendere conto di quale forza possa ancora avere l’unità di intenti in un’epoca nella quale è l’individualismo sfrenato a essere più superficialmente apprezzato.


Potrei portare molti altri esempi, ma mi sembrerebbero superflui per dimostrare che Angela Felice non mancherà soltanto a me e ai tanti che ne hanno scritto, ma mancherà anche a moltissimi che non hanno la possibilità di esprimere pubblicamente il loro dolore. E mancherà anche a tantissimi che non lo sanno nemmeno perché non l’hanno conosciuta, ma che se lei fosse ancora qui l’avrebbero incontrata in una delle sue tante attività. E se ne sarebbero inevitabilmente arricchiti.

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martedì 1 maggio 2018

Difficile come camminare

Primo maggio, festa del lavoro e, quindi, dei lavoratori. Per festeggiarla degnamente tutti dovremmo fare qualcosa: al di là del decidersi a ottemperare alle leggi sulla sicurezza nei cantieri evitando, così, quella strage di lavoratori che funesta ogni giornata in questo Paese, gli imprenditori non dovrebbero costringere donne e uomini a lavorare anche in questa giornata; noi non dovremmo entrare nei negozi che restano aperti; il PD dovrebbe decidersi a scaricare quel suo “semplice senatore” che, con la solita faccia tosta, continua a vantarsi del «milione di posti di lavoro creati dal Jobs Act» proprio mentre i mezzi di informazione raccontano le storie di molti che vengono inconsapevolmente inseriti in questo milione di teorici non disoccupati perché hanno lavorato un paio di giorni al mese, o, addirittura, soltanto per una notte una tantum.
 
Ma la prima domanda che riguarda quel “semplice senatore”, che è anche ex presidente del Consiglio, che afferma anche di non essere più segretario del PD e che risponde al nome di Matteo Renzi, è a che titolo e da chi gli è stato regalato domenica un pulpito seguitissimo come “Che tempo che fa” dal quale ha dettato le regole con le quali il PD dovrebbe rapportarsi, o, meglio, non rapportarsi, con i 5stelle. Non intendo entrare nel merito di questa questione, ma, a prescindere da cosa se ne pensi, soltanto rilevare che già sarebbe intollerabile – e non soltanto per Martina – il fatto che il teorico ex segretario, approfittando della visibilità donatagli, parli da segretario in carica, ma ancor più inaccettabile è che approfitti della situazione per tentare di riproporre i cambiamenti della Costituzione già bocciati dal referendum del 4 dicembre 2016.

L'ineffabile pseudo–ex segretario pretende, come sempre, di impartire lezioni di comportamento politico e accusa tutti – tranne ovviamente se stesso – di prendere in giro gli elettori del 4 marzo 2018, visto che i vincitori non riescono a fare (o non vogliono) il nuovo governo. Ma non gli passa neppure lontanamente per la testa che la sua proposta di far rientrare dalla finestra la riforma costituzionale e quella elettorale è una colossale presa in giro per quel 60 per cento di italiani che poco più di un anno fa ha già bocciato senza incertezze le sue derive antidemocratiche.

A prima vista potrebbe sembrare che tutto questo c'entri ben poco con i risultati delle regionali del Friuli Venezia Giulia e con le comunali di Udine, ma così non è. Intanto sono proprio queste prese in giro, queste scelte di voler fare tutto quello che passa nella propria testa senza mai curarsi del fatto se passa, o meno, anche nella testa degli altri cittadini, che causano quel calo di affluenza alle urne che per la prima volta ha fatto rimanere a casa più della metà degli aventi diritto al voto di questa regione. Poi è stata la perdita di identità della sinistra, indotta da un PD renziano che, soprattutto in fatto di diritti sociali, ha scelto di scimmiottare le idee della destra (che, invece, la sua identità l’ha anzi riportata a livelli temibili) a togliere speranze e motivazioni a molti di coloro che votavano sempre pensando proprio ai diritti sociali, oltre che a quelli individuali. E non è stato indifferente neppure il fatto che a guidare per cinque anni il Friuli Venezia Giulia sia stata Debora Serracchiani, convintissima seguace di colui che dice di sé di essere «recordman del mondo in fatto di dimissioni», ma che è di certo anche l’ex più presente della storia.

Ma tutto questo non basta per spiegare la delusione per il risultato di SinistrAperta. Ci si può appigliare, è vero, a problemi oggettivi come una nascita troppo recente, una carenza economica e organizzativa, una litigiosità troppo alta tra componenti ancora troppo gelose delle proprie particolarità, alcune smanie di protagonismo che hanno illuminato più alcuni nomi che i principi politici della lista; ma questo non può bastare.

Il vero problema è costituito dal fatto che se si vuole riprendere a essere attrattivi, bisogna tornare ad apparire convinti e sinceri; occorre fare attente analisi e autocritiche, e, se si vuole che l’Associazione SinistrAperta non muoia prima di nascere, bisogna riparlare di ideali di sinistra, ma anche essere aperti, sia per chi è fuori e sinceramente vuole entrare, sia per chi è già dentro e decide di uscire un po’ se, con il confronto sulle cose che ci dividono e non su quelle che ci uniscono, si rende conto che il luogo più giusto per far incontrare, senza stravolgerli, i nostri ideali sarà un po’ fuori dal contenitore che in questo momento siamo abituati a immaginare.

In tutto anche in attesa che il PD – se non è già troppo tardi – possa liberarsi davvero del suo pseudo–ex segretario per tornare a essere quel partito di massa di cui il centrosinistra ha bisogno per fare da centro di gravità in un sistema di alleanza che non siano soltanto elettorali, ma che restino costantemente strette per il progresso della nostra società.

Sembra difficilissimo, ma in realtà non è più difficile del camminare, quando continuiamo a perdere l’equilibrio e cadere, passo dopo passo, ma sempre recuperando immediatamente l’equilibrio per poi rischiare di cadere ancora. Passo dopo passo. Ma senza mai rovinare a terra.

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