mercoledì 25 aprile 2018

L’illusione del rimbalzo

Sento il dovere di cominciare questa riflessione con un sentito ringraziamento – personale, ma sono convinto, anche di molte altre persone – a Gino Dorigo per le parole che ha detto in piazza Libertà, a Udine, durante la celebrazione della Festa della Liberazione. Parole che tanti sentono costantemente dentro di sé, ma che soltanto raramente in questi ultimi anni hanno potuto sentire anche con le proprie orecchie in quanto il presunto “politically correct”, la moda di dire che destra e sinistra non esistono più, il desiderio di andare a pescare voti in stagni che fino a poco tempo prima erano considerati ricolmi di acqua putrida, in poche parole, la perdita di valori e di ideali, avevano cancellato dai discorsi pubblici.

Non ha detto cose sorprendenti, ma le ha dette. E le ha dette non soltanto ricordandoci che queste realtà esistono, ma anche con quel calore e quella sofferta partecipazione che anima la voce soltanto di chi sente davvero come propri i valori che alle barbarie si oppongono.

Purtroppo non ho sotto mano l’intero discorso di Dorigo, ma provo ad andare a memoria, anche se quasi sicuramente non rispetterò l’ordine in cui questi concetti sono stati espressi. 

Non si può definire in altra maniera che con la parola disumanità quella che anima chi usa violenza contro coloro che hanno una pelle di diverso colore e che approfitta della propria condizione di favore per negare loro l’aiuto di cui hanno bisogno. Il razzismo e il fascismo sono la medesima cosa e il fascismo non è un brutto ricordo, ma è una realtà ancora sempre presente ed è indiscutibilmente un reato, mentre il contrario del fascismo sono il lavoro, la libertà e la democrazia, tre realtà che oggi sono sotto assedio, se non già ampiamente compromesse. È intollerabile l’idea di trasformare la festa della Liberazione in festa della libertà, perché la Liberazione, come la Resistenza, non è stata e non è di tutti e se oggi siamo riusciti a liberarci dalla dittatura fascista, anche se non ancora dal fascismo, lo si deve alla Resistenza. E altrettanto assurdo è dire che tutti i morti sono uguali, perché è il motivo per il quale sono morti che li rende diversi: insomma non è che la morte sia una specie di grande cancellino di ogni colpa; un assassino morto resta sempre un assassino, mentre una vittima resta sempre una vittima.

Spero di essere stato abbastanza fedele alle parole di Gino e di non aver dimenticato troppe cose, ma ho ritenuto importante riassumerle per mettere in evidenza che nell’assordante silenzio della politica, si è dovuta attendere la voce di un lavoratore, di un sindacalista, per sentire quello che per troppo tempo non si era sentito: sembra quasi che soltanto in quegli anfratti popolati ancora da lavoratori continuino a sopravvivere quei principi che sono gli stessi enunciati e difesi dalla Costituzione.

Sono parole di grandissima importanza perché ricordano a una società che ha perduto la capacità, e soprattutto la voglia di pensare, affascinata più dalle apparenze che dalla sostanza delle cose, che non può continuare ad aspettare fatalisticamente, illudendosi che, una volta toccato il fondo, la risalita debba essere automatica, quasi come un riombalzo, mentre invece la fatica e la sofferenza sono inevitabili, perché altrimenti ogni volta, si potrà scavare e scendere ancora, pur sempre con una scusante pronta, ben disposti ad accusare gli altri, e mai disposti ad ammettere la propria ignavia.

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