Sento il dovere
di cominciare questa riflessione con un sentito ringraziamento –
personale, ma sono convinto, anche di molte altre persone – a Gino
Dorigo per le parole che ha detto in piazza Libertà, a Udine, durante la
celebrazione della Festa della Liberazione. Parole che tanti sentono
costantemente dentro di sé, ma che soltanto raramente in questi ultimi
anni hanno potuto sentire anche con le proprie orecchie in quanto il
presunto “politically correct”, la moda di dire che destra e sinistra
non esistono più, il desiderio di andare a pescare voti in stagni che
fino a poco tempo prima erano considerati ricolmi di acqua putrida, in
poche parole, la perdita di valori e di ideali, avevano cancellato dai
discorsi pubblici.
Non ha detto cose sorprendenti, ma
le ha dette. E le ha dette non soltanto ricordandoci che queste realtà
esistono, ma anche con quel calore e quella sofferta partecipazione che
anima la voce soltanto di chi sente davvero come propri i valori che
alle barbarie si oppongono.
Purtroppo non ho sotto mano l’intero
discorso di Dorigo, ma provo ad andare a memoria, anche se quasi
sicuramente non rispetterò l’ordine in cui questi concetti sono stati
espressi.
Non si può definire in altra maniera che con la parola
disumanità quella che anima chi usa violenza contro coloro che hanno una
pelle di diverso colore e che approfitta della propria condizione di
favore per negare loro l’aiuto di cui hanno bisogno. Il razzismo e il
fascismo sono la medesima cosa e il fascismo non è un brutto ricordo, ma
è una realtà ancora sempre presente ed è indiscutibilmente un reato,
mentre il contrario del fascismo sono il lavoro, la libertà e la
democrazia, tre realtà che oggi sono sotto assedio, se non già
ampiamente compromesse. È intollerabile l’idea di trasformare la festa
della Liberazione in festa della libertà, perché la Liberazione, come la
Resistenza, non è stata e non è di tutti e se oggi siamo riusciti a
liberarci dalla dittatura fascista, anche se non ancora dal fascismo, lo
si deve alla Resistenza. E altrettanto assurdo è dire che tutti i morti
sono uguali, perché è il motivo per il quale sono morti che li rende
diversi: insomma non è che la morte sia una specie di grande cancellino
di ogni colpa; un assassino morto resta sempre un assassino, mentre una
vittima resta sempre una vittima.
Spero di essere stato abbastanza
fedele alle parole di Gino e di non aver dimenticato troppe cose, ma ho
ritenuto importante riassumerle per mettere in evidenza che
nell’assordante silenzio della politica, si è dovuta attendere la voce
di un lavoratore, di un sindacalista, per sentire quello che per troppo
tempo non si era sentito: sembra quasi che soltanto in quegli anfratti
popolati ancora da lavoratori continuino a sopravvivere quei principi
che sono gli stessi enunciati e difesi dalla Costituzione.
Sono parole di grandissima
importanza perché ricordano a una società che ha perduto la capacità, e
soprattutto la voglia di pensare, affascinata più dalle apparenze che
dalla sostanza delle cose, che non può continuare ad aspettare
fatalisticamente, illudendosi che, una volta toccato il fondo, la
risalita debba essere automatica, quasi come un riombalzo, mentre invece
la fatica e la sofferenza sono inevitabili, perché altrimenti ogni
volta, si potrà scavare e scendere ancora, pur sempre con una scusante
pronta, ben disposti ad accusare gli altri, e mai disposti ad ammettere
la propria ignavia.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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