Fino a ieri
Eugenio Sangregorio, 79 anni, italiano all’estero, era quasi per tutti
un perfetto sconosciuto; oggi, invece, è un deputato della Repubblica al
quale dobbiamo gratitudine perché, pur senza rendersene conto, ci
costringe a meditare su come si sia lasciata cambiare questa nostra
società proprio nelle sue fondamenta.
Questo è un rapido dialogo apparso in questi giorni su Repubblica.
Un governo M5S-Lega lei lo voterebbe?, gli chiede l’intervistatore.
«Certo», è la risposta di Sangregorio. E PD-M5S? «Va bene lo stesso». E
centrodestra-Pd? «Perché no?». Ma sono tre cose diverse! «Lo so, ma
bisogna trovare una soluzione per il bene del Paese. Le ideologie non
contano più nulla; contano le persone». Insomma, il suo voto è
assicurato comunque? «Alcuni colleghi mi hanno detto: “Io andrò
all’opposizione”. Ma quale, se non c’è nemmeno una maggioranza; io, in
ogni modo, preferisco stare al governo».
A prima vista si è portati a
catalogare l’onorevole Sangregorio nella stessa categoria dei Razzi,
Scilipoti e De Gregorio, ma subito ci si accorge che sarebbe sbagliato
perché il parlamentare che arriva dall’Argentina non si comporta così
per personali motivi economici, ma sia per una certa smania di
protagonismo e voglia di contiguità al potere, sia in quanto alcune
martellanti campagne propagandistiche, mai controbattute con sufficiente
decisione, lo hanno convinto che destra e sinistra, con i loro valori e
disvalori, non esistono più perché hanno seguito, in una teorica
dissoluzione, tutte le ideologie che finora hanno fatto muovere il
mondo; anche quelle che lo hanno fatto progredire.
E, non bastassero le ideologie, per
il neodeputato anche che tra Salvini, Berlusconi, Di Maio, Grillo,
Renzi, o chiunque altro del PD non sia soltanto il portavoce del forse
ex segretario dem, non ci sono differenze nel pensiero, nei progetti che
hanno, nelle decisioni che prenderebbero. A lui quello che interessa è
che qualcuno – indifferente chi – vada al potere e che lui possa dire di
essergli in qualche modo vicino. Come questo potrebbe cambiare l’Italia
gli è del tutto indifferente.
Sangregorio, insomma, ci offre
l’ennesima, ma non per questo meno importante, dimostrazione che le
parole possono essere manipolate fino a cancellarne l’aderenza al
proprio significato originario. Anzi, più utilmente, fino a mantenerle
apparentemente vive, mentre, in realtà, sono ormai morte e prive di
significato.
Sangregorio, per esempio,
difficilmente potrebbe essere accusato di infedeltà visto che, per
essere infedele, occorre prima avere una qualche fede. Ma merita anche
notare che, se di fede nessuno parla più, due possono essere le cause,
entrambe provocate da scelte deliberate.
La prima, portata a livelli
professionali dai grillini, ma già molti anni fa praticata da centristi
assortiti che passavano con noncuranza da destra a sinistra, a seconda
di chi avesse avuto più cose da offrire, era camuffata con vari giri di
parole tra i quali, quello probabilmente più usato dai sensali del
Parlamento era “la politica dei due forni” che, ovviamente, con la
politica, intesa nel vero senso del termine, aveva ben poco da fare.
La seconda, ben più grave e dagli
effetti più profondi, può essere spiegata meglio con una similitudine di
ambito spirituale. Molti, infatti, in tutti i culti, percepiscono che
la strada della fede e quella della religione a un certo punto si
separano e, in quel momento, finiscono per non seguire più né l’una, né
l’altra; anche se continuano a scrutare entrambe, ma con più intenzione
quella della fede percependo che è quella – l’unica – che può portare
verso obbiettivi davvero degni.
Nel mio modo di vedere alla fede,
con i suoi ideali e i suoi valori, corrispondono le ideologie; alla
religione, con le sue ritualità e i suoi paramenti più o meno sacri,
corrispondono i partiti. E, se la fede e le ideologie chiedono fedeltà
alle idee, le religioni e i partiti richiedono obbedienza al capo. È un
concetto magnificamente espresso nel 1965 da don Lorenzo Milani in
quella sua lettera ai cappellani militari della Toscana che è più nota
con il titolo “L’obbedienza non è più una virtù” e il cui destino è stato quello di essere molto citata e ben poco seguita.
Lasciamo perdere partiti come Forza
Italia, la Lega, Fratelli d’Italia e il Movimento 5stelle che, nei
fatti, sono nati e si sono sviluppati in una venerazione del capo che
non poteva in alcun modo sposarsi con una democrazia sostanziale.
Parliamo, invece del PD, che era nato con idee opposte e che ha finito,
pur mantenendo la virtuosa idea di non inserire il nome del capo nel
simbolo del partito, per diventare un’accozzaglia di persone che la
pensano in maniera diversa, ma finiscono per votare tutti nello stesso
modo, scegliendo l’obbedienza perché, essendo gli ideali confusi, non ci
può essere fedeltà. Se avessero percepito che l’obbedienza – ammesso
che lo sia mai stata – davvero non è più una virtù, Bersani e compagni
se ne sarebbero usciti molto prima e oggi non sarebbero ancora nel PD
coloro che si illudono di poter strappare quel partito dalle mani di un
capo che ha deliberatamente mescolato le carte in modo da avere tutti
gli assi in mano sua.
Dicevano e dicono che non si possono
tradire i propri ideali. Hanno ragione, ma è loro sfuggita l’evidenza
che non abbandonando quel partito stavano proprio abbandonando – e
quindi tradendo – i loro ideali di sinistra. Ora, tornando al paragone
spirituale, per riavvicinarsi alla strada della fede allontanandosi
decisamente da quella della religione, sembra inevitabile la soluzione
che è stata ventilata, questa volta senza presupponenza, da Massimo
Cacciari che, sulle pagine dell’Espresso, ha scritto di cancellazione
del PD: «Una sinistra può nascere soltanto dalla fine del colossale
equivoco rappresentato dal PD».
Stiamo parlando di una sinistra che
riporti in primo piano le sue idee e non i nomi dei suoi esponenti che
nutrono più o meno grandi ambizioni personali e di gruppo, che sappia
davvero che il suo compito principale è quello di combattere le
disuguaglianze e che una delle armi per fare ciò è già nelle nostre
mani. Si tratta di quella Costituzione che si è riusciti a difendere un
anno e mezzo fa e che già nel suo primo articolo, parlando di lavoro, fa
capire che ogni occupazione deve servire non soltanto a dar da
mangiare, ma anche a sostenere quella dignità necessaria perché donne e
uomini si rialzino dalla condizione di sudditi per diventare cittadini.
La parola “disoccupazione” non dovrebbe essere usata con la scarsa
partecipazione che si usa quando si parla di disgrazie accadute lontano e
a persone che non si conoscono: dovrebbe essere considerata alla
stregua di un handicap, non fisico, né mentale, ma sociale e si dovrebbe
far di tutto per aiutare chi ne è temporaneamente colpito.
In tanti dicono che si tratta di
idee vecchie, sorpassate e perdenti. Non è così e anche se si sente
questa tesi ripetuta da persone che temporaneamente riscuotono il favore
dell’elettorato, occorre ricordare sempre che è importante la fedeltà
all’idea, non l’obbedienza al capo; o a chi riesce a farsi passare per
tale.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
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