venerdì 13 aprile 2018

Infedeltà e disobbedienza

Fino a ieri Eugenio Sangregorio, 79 anni, italiano all’estero, era quasi per tutti un perfetto sconosciuto; oggi, invece, è un deputato della Repubblica al quale dobbiamo gratitudine perché, pur senza rendersene conto, ci costringe a meditare su come si sia lasciata cambiare questa nostra società proprio nelle sue fondamenta.

Questo è un rapido dialogo apparso in questi giorni su Repubblica. Un governo M5S-Lega lei lo voterebbe?, gli chiede l’intervistatore. «Certo», è la risposta di Sangregorio. E PD-M5S? «Va bene lo stesso». E centrodestra-Pd? «Perché no?». Ma sono tre cose diverse! «Lo so, ma bisogna trovare una soluzione per il bene del Paese. Le ideologie non contano più nulla; contano le persone». Insomma, il suo voto è assicurato comunque? «Alcuni colleghi mi hanno detto: “Io andrò all’opposizione”. Ma quale, se non c’è nemmeno una maggioranza; io, in ogni modo, preferisco stare al governo».

A prima vista si è portati a catalogare l’onorevole Sangregorio nella stessa categoria dei Razzi, Scilipoti e De Gregorio, ma subito ci si accorge che sarebbe sbagliato perché il parlamentare che arriva dall’Argentina non si comporta così per personali motivi economici, ma sia per una certa smania di protagonismo e voglia di contiguità al potere, sia in quanto alcune martellanti campagne propagandistiche, mai controbattute con sufficiente decisione, lo hanno convinto che destra e sinistra, con i loro valori e disvalori, non esistono più perché hanno seguito, in una teorica dissoluzione, tutte le ideologie che finora hanno fatto muovere il mondo; anche quelle che lo hanno fatto progredire.

E, non bastassero le ideologie, per il neodeputato anche che tra Salvini, Berlusconi, Di Maio, Grillo, Renzi, o chiunque altro del PD non sia soltanto il portavoce del forse ex segretario dem, non ci sono differenze nel pensiero, nei progetti che hanno, nelle decisioni che prenderebbero. A lui quello che interessa è che qualcuno – indifferente chi – vada al potere e che lui possa dire di essergli in qualche modo vicino. Come questo potrebbe cambiare l’Italia gli è del tutto indifferente.

Sangregorio, insomma, ci offre l’ennesima, ma non per questo meno importante, dimostrazione che le parole possono essere manipolate fino a cancellarne l’aderenza al proprio significato originario. Anzi, più utilmente, fino a mantenerle apparentemente vive, mentre, in realtà, sono ormai morte e prive di significato.

Sangregorio, per esempio, difficilmente potrebbe essere accusato di infedeltà visto che, per essere infedele, occorre prima avere una qualche fede. Ma merita anche notare che, se di fede nessuno parla più, due possono essere le cause, entrambe provocate da scelte deliberate.

La prima, portata a livelli professionali dai grillini, ma già molti anni fa praticata da centristi assortiti che passavano con noncuranza da destra a sinistra, a seconda di chi avesse avuto più cose da offrire, era camuffata con vari giri di parole tra i quali, quello probabilmente più usato dai sensali del Parlamento era “la politica dei due forni” che, ovviamente, con la politica, intesa nel vero senso del termine, aveva ben poco da fare.

La seconda, ben più grave e dagli effetti più profondi, può essere spiegata meglio con una similitudine di ambito spirituale. Molti, infatti, in tutti i culti, percepiscono che la strada della fede e quella della religione a un certo punto si separano e, in quel momento, finiscono per non seguire più né l’una, né l’altra; anche se continuano a scrutare entrambe, ma con più intenzione quella della fede percependo che è quella – l’unica – che può portare verso obbiettivi davvero degni.

Nel mio modo di vedere alla fede, con i suoi ideali e i suoi valori, corrispondono le ideologie; alla religione, con le sue ritualità e i suoi paramenti più o meno sacri, corrispondono i partiti. E, se la fede e le ideologie chiedono fedeltà alle idee, le religioni e i partiti richiedono obbedienza al capo. È un concetto magnificamente espresso nel 1965 da don Lorenzo Milani in quella sua lettera ai cappellani militari della Toscana che è più nota con il titolo “L’obbedienza non è più una virtù” e il cui destino è stato quello di essere molto citata e ben poco seguita.

Lasciamo perdere partiti come Forza Italia, la Lega, Fratelli d’Italia e il Movimento 5stelle che, nei fatti, sono nati e si sono sviluppati in una venerazione del capo che non poteva in alcun modo sposarsi con una democrazia sostanziale. Parliamo, invece del PD, che era nato con idee opposte e che ha finito, pur mantenendo la virtuosa idea di non inserire il nome del capo nel simbolo del partito, per diventare un’accozzaglia di persone che la pensano in maniera diversa, ma finiscono per votare tutti nello stesso modo, scegliendo l’obbedienza perché, essendo gli ideali confusi, non ci può essere fedeltà. Se avessero percepito che l’obbedienza – ammesso che lo sia mai stata – davvero non è più una virtù, Bersani e compagni se ne sarebbero usciti molto prima e oggi non sarebbero ancora nel PD coloro che si illudono di poter strappare quel partito dalle mani di un capo che ha deliberatamente mescolato le carte in modo da avere tutti gli assi in mano sua.

Dicevano e dicono che non si possono tradire i propri ideali. Hanno ragione, ma è loro sfuggita l’evidenza che non abbandonando quel partito stavano proprio abbandonando – e quindi tradendo – i loro ideali di sinistra. Ora, tornando al paragone spirituale, per riavvicinarsi alla strada della fede allontanandosi decisamente da quella della religione, sembra inevitabile la soluzione che è stata ventilata, questa volta senza presupponenza, da Massimo Cacciari che, sulle pagine dell’Espresso, ha scritto di cancellazione del PD: «Una sinistra può nascere soltanto dalla fine del colossale equivoco rappresentato dal PD».

Stiamo parlando di una sinistra che riporti in primo piano le sue idee e non i nomi dei suoi esponenti che nutrono più o meno grandi ambizioni personali e di gruppo, che sappia davvero che il suo compito principale è quello di combattere le disuguaglianze e che una delle armi per fare ciò è già nelle nostre mani. Si tratta di quella Costituzione che si è riusciti a difendere un anno e mezzo fa e che già nel suo primo articolo, parlando di lavoro, fa capire che ogni occupazione deve servire non soltanto a dar da mangiare, ma anche a sostenere quella dignità necessaria perché donne e uomini si rialzino dalla condizione di sudditi per diventare cittadini. La parola “disoccupazione” non dovrebbe essere usata con la scarsa partecipazione che si usa quando si parla di disgrazie accadute lontano e a persone che non si conoscono: dovrebbe essere considerata alla stregua di un handicap, non fisico, né mentale, ma sociale e si dovrebbe far di tutto per aiutare chi ne è temporaneamente colpito.

In tanti dicono che si tratta di idee vecchie, sorpassate e perdenti. Non è così e anche se si sente questa tesi ripetuta da persone che temporaneamente riscuotono il favore dell’elettorato, occorre ricordare sempre che è importante la fedeltà all’idea, non l’obbedienza al capo; o a chi riesce a farsi passare per tale.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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