sabato 28 aprile 2018

Parole e Resistenze

Questo testo è già stato pubblicato sul Messaggero Veneto di questa mattina, sabato 28 aprile, con il titoletto “L’intervento” e il titolo “I valori della Resistenza non possono essere né barattati, né inquinati”. Adesso, nel pomeriggio, quando la stragrande maggioranza delle edicole è già chiusa, ve lo propongo anche su “Eppure…”.


Le parole hanno sempre un loro peso e, quindi, devono essere usate con la necessaria attenzione. Quando si legge, per esempio, che Marco Orioles, sul Messaggero Veneto di giovedì 26 aprile, scrive che «il 25 aprile è diventata una data radioattiva», non si può sfuggire all’immagine che sempre si affaccia alla mente quando si usa un simile aggettivo: un oggetto, o un posto dal quale è necessario fuggire e stare lontani per non diventare preda di radiazioni mortali. Meno sbagliato sarebbe stato utilizzare l’aggettivo “avvelenato” che fa pensare a qualcosa che può essere pericolosa, ma soltanto se la si usa senza la dovuta attenzione.

Sono due i temi toccati da Orioles per motivare questa “radioattività”: la festa «che dovrebbe unire gli italiani a prescindere dalle appartenenze» e il problema dei rapporti tra ebrei e palestinesi.

Credo che per prima cosa sia da ribadire che la Liberazione, come la Resistenza, non è di tutti.

Giustamente non lo è mai stata di Almirante, né di chi ha combattuto con la Repubblica Sociale Italiana alleata con i nazisti; non lo è neppure di coloro che a quelle idee ancora si rifanno, né di quelli che comunque si riconoscono in ideali fascisti e razzisti; ma nemmeno di chi sull’opposizione al 25 aprile è andato a caccia di voti in territori più a destra del proprio; e mi riferisco esplicitamente a Berlusconi al quale oggi, invece, fa gioco farsi fotografare a Porzûs davanti al labaro dei partigiani della Osoppo, cosa che ha fatto indignare Paola Del Din, medaglia d’oro della Resistenza.

Insomma, nella frase in cui si auspica la «condivisione dei principi che dovrebbero essere alla base della nostra Repubblica», cambierei il condizionale “dovrebbero” con l’indicativo “devono” e, per capirci meglio, specificherei che questa condivisione non può essere frutto di una mediazione tra posizioni diverse: i valori sono quelli per i quali sono morti a migliaia e non possono essere né barattati, né inquinati.

Fin quando ci sarà un sindaco Di Piazza che rifiuta di invitare alla Risiera di San Sabba, a Trieste, il presidente degli Istituti per lo studio del Movimento di Liberazione e fin quando a Pradamano ci sarà un signore che chiede lo scioglimento della banda comunale perché ha suonato “Bella ciao”, il fatto che il 25 aprile sia una data divisiva resterà non un difetto, bensì un valore a indicare che la nostra Repubblica vuole continuare a onorare i suoi principi costitutivi.

Molto più complesso e impossibile da affrontare in uno spazio ristretto il discorso sulla contrapposizione tra ebrei e palestinesi, ma alcune cose vanno dette.

Intanto guardar male i palestinesi di oggi perché il Gran Muftì di Gerusalemme fu alleato di Hitler, corrisponderebbe a trattar male i tedeschi di oggi perché i loro padri, o nonni, furono per la quasi totalità nazisti.

Poi, sempre pensando all’uso delle parole, occorrerebbe non confondere i termini “israeliani” ed “ebrei”. Sono molti, per esempio, gli ebrei – anche in Israele – che non concordano con la politica del loro Stato guidato da Netanyahu e che la considerano, a essere benevoli, un eccesso di legittima difesa.

E mi sembra del tutto fuori luogo, oltre che offensivo per la quasi totalità degli italiani, sostenere che i sentimenti ostili al governo di Tel Aviv «poi vengono proiettati sugli incolpevoli ebrei italiani», ma anche pretendere dall’ANPI una «moral suasion sui seguaci della Palestina»: intanto non sono seguaci, ma cittadini, e poi quella per cui stanno lottando è anch’essa una Resistenza per la Liberazione del proprio popolo. Si può anche non essere d’accordo sull’obbiettivo, ma è così.

Proprio come per noi dal 1943 al ’45.

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mercoledì 25 aprile 2018

L’illusione del rimbalzo

Sento il dovere di cominciare questa riflessione con un sentito ringraziamento – personale, ma sono convinto, anche di molte altre persone – a Gino Dorigo per le parole che ha detto in piazza Libertà, a Udine, durante la celebrazione della Festa della Liberazione. Parole che tanti sentono costantemente dentro di sé, ma che soltanto raramente in questi ultimi anni hanno potuto sentire anche con le proprie orecchie in quanto il presunto “politically correct”, la moda di dire che destra e sinistra non esistono più, il desiderio di andare a pescare voti in stagni che fino a poco tempo prima erano considerati ricolmi di acqua putrida, in poche parole, la perdita di valori e di ideali, avevano cancellato dai discorsi pubblici.

Non ha detto cose sorprendenti, ma le ha dette. E le ha dette non soltanto ricordandoci che queste realtà esistono, ma anche con quel calore e quella sofferta partecipazione che anima la voce soltanto di chi sente davvero come propri i valori che alle barbarie si oppongono.

Purtroppo non ho sotto mano l’intero discorso di Dorigo, ma provo ad andare a memoria, anche se quasi sicuramente non rispetterò l’ordine in cui questi concetti sono stati espressi. 

Non si può definire in altra maniera che con la parola disumanità quella che anima chi usa violenza contro coloro che hanno una pelle di diverso colore e che approfitta della propria condizione di favore per negare loro l’aiuto di cui hanno bisogno. Il razzismo e il fascismo sono la medesima cosa e il fascismo non è un brutto ricordo, ma è una realtà ancora sempre presente ed è indiscutibilmente un reato, mentre il contrario del fascismo sono il lavoro, la libertà e la democrazia, tre realtà che oggi sono sotto assedio, se non già ampiamente compromesse. È intollerabile l’idea di trasformare la festa della Liberazione in festa della libertà, perché la Liberazione, come la Resistenza, non è stata e non è di tutti e se oggi siamo riusciti a liberarci dalla dittatura fascista, anche se non ancora dal fascismo, lo si deve alla Resistenza. E altrettanto assurdo è dire che tutti i morti sono uguali, perché è il motivo per il quale sono morti che li rende diversi: insomma non è che la morte sia una specie di grande cancellino di ogni colpa; un assassino morto resta sempre un assassino, mentre una vittima resta sempre una vittima.

Spero di essere stato abbastanza fedele alle parole di Gino e di non aver dimenticato troppe cose, ma ho ritenuto importante riassumerle per mettere in evidenza che nell’assordante silenzio della politica, si è dovuta attendere la voce di un lavoratore, di un sindacalista, per sentire quello che per troppo tempo non si era sentito: sembra quasi che soltanto in quegli anfratti popolati ancora da lavoratori continuino a sopravvivere quei principi che sono gli stessi enunciati e difesi dalla Costituzione.

Sono parole di grandissima importanza perché ricordano a una società che ha perduto la capacità, e soprattutto la voglia di pensare, affascinata più dalle apparenze che dalla sostanza delle cose, che non può continuare ad aspettare fatalisticamente, illudendosi che, una volta toccato il fondo, la risalita debba essere automatica, quasi come un riombalzo, mentre invece la fatica e la sofferenza sono inevitabili, perché altrimenti ogni volta, si potrà scavare e scendere ancora, pur sempre con una scusante pronta, ben disposti ad accusare gli altri, e mai disposti ad ammettere la propria ignavia.

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martedì 24 aprile 2018

Quel 98 per cento

È difficile dire se è più ridicola l’idea di Di Maio di affidare ai cosiddetti “esperti” il compito di trovare punti di convergenza tra il programma elettorale dei 5stelle, quello del Centrodestra e quello del PD, oppure quella di appiccicare il concetto di “scientificità” a una simile impresa.
 
Sta di fatto che il risultato del confronto tra le tre esagerate promesse elettorali parla di dieci possibili punti in comune, però in realtà estremamente generici, mentre la sentenza finale deve ammettere che «le divergenze riguardano temi e problemi tra quelli più rilevanti per l'azione dello Stato, all'interno e all'esterno, e sono quindi tali da rendere ardua la formazione di un governo coeso».

Questa propagandistica e inevitabilmente vana ricerca di punti di contatto ricorda molto da vicino la frase «Sono molte di più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono» che spesso si è sentito dire quando forze diverse hanno deciso di dare vita a un’alleanza elettorale che quasi invariabilmente ha mostrato la corda non appena si è tentato di spostare l’accordo sul piano davvero politico.

Il problema è che, nella valutazione di quello che unisce e di quello che divide, non si tratta di valutare la quantità, bensì la qualità. E tento di spiegarmi: gli scimpanzé hanno un corredo genetico simile al nostro per il 98%, eppure sono indiscutibilmente molto diversi dagli uomini. La stessa cosa vale pure in politica; e, infatti, quanto a valori e ideali, ho delle grosse, anche se variabili, difficoltà a sentirmi vicino a fascisti, leghisti, berlusconiani, grillini e renziani.

Ma il fatto è che, anche se davvero le differenze fossero poche, sarebbe su quelle che è necessario lavorare con fatica e testardaggine; mentre non ci si dovrebbe adagiare sulle cose sulle quali si è d’accordo. La storia della sinistra – dove si è abituati a ragionare e a eccepire, a guardare e a cogliere le sfumature, tutte attività che, se ti affidi a un capo diventano inutili – insegna abbondantemente che il tralasciare di intestardirsi a smussare piccoli angoli ha finito per far lacerare il tessuto politico e sociale sul quale quei modesti spuntoni continuavano a strusciare giorno dopo giorno. È su questa convinzione, sulla necessità di capirsi davvero, senza far finta di farlo, che nasce il programma di SinistrAperta che punta a ricostruire una sinistra ormai prostrata non soltanto dalle divisioni interne, ma anche dalla protervia di Renzi e dei suoi.

Ma al di là di queste aspirazioni politiche, la situazione dovrebbe farci meditare anche sul fatto che l’attuale enorme e inevitabile difficoltà di creare un governo ci mette di fronte a un bivio nel quale, se dovessimo scegliere la strada sbagliata, correremmo rischi gravissimi.

Davanti alla distanza dei programmi, alle manie di protagonismo e ai tantissimi veti incrociati, sono molti quelli che pensano che la soluzione sia rappresentata da un sistema maggioritario vero e senza correzioni, che consegni spensieratamente in mano al vincitore una specie di dittatura a tempo che permetta scelte veloci e, quindi, né dibattute, né tantomeno condivise, senza curarsi del fatto che la Costituzione – che parla di una Repubblica parlamentare e non di una presidenziale – sarebbe stravolta e che l’appetito decisionista del vincitore accoppiata alla convinzione di essere sempre nel giusto, tanto da diventare “l’uomo della provvidenza”, potrebbe aumentare fino a far sparire la locuzione “a tempo”.

Molto più democratica e fruttuosa è, invece, la strada del ritorno a un vero sistema proporzionale che ricordi che in democrazia non è detto che chi ha la maggioranza ha anche contemporaneamente ragione, che rispetti il concetto di rappresentanza e che cerchi la governabilità non nel decisionismo, ma nella mediazione tra le diverse necessità sociali del Paese. Un proporzionale che torni a far capire a tutti che in ogni avversario non ci sono soltanto cose da distruggere a prescindere, ma che il dialogo – a cui ci si è ormai il maggioritario ha totalmente disabituato – è non soltanto necessario, ma soprattutto utile per arrivare a risultati di valore assoluto.

Dicono che con il proporzionale ci si impantana in discussioni che non portano a nulla. Eppure la nostra storia dimostra il contrario. È stato con Parlamenti eletti con il proporzionale che l’Italia è riuscita a ricostruirsi in tutti i sensi dopo i disastri della guerra e a fare leggi – cito solo tre esempi, ma sono soltanto i più eclatanti – che dimostrano la bontà del sistema: le leggi sul divorzio e sull’aborto e quella che creò l’attualmente smantellato Statuto dei lavoratori che – non lo si dovrebbe mai dimenticare – furono approvate mentre erano in carica, come sempre, del resto, in quei decenni, dei governi a guida democristiana. Altro che ingovernabilità! Era, invece, una governabilità che riusciva a far emergere le tendenze degli italiani e non dei capi del momento.

Buon 25 aprile a tutti coloro che si ricordano che è dalla Resistenza e dal sangue versato da chi si è opposto al fascismo e al nazismo che è nata la nostra Costituzione che va difesa strenuamente e testardamente anche dai furbeschi tentativi di cambiarla nella sostanza, pur senza mutarne il testo.

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venerdì 13 aprile 2018

Infedeltà e disobbedienza

Fino a ieri Eugenio Sangregorio, 79 anni, italiano all’estero, era quasi per tutti un perfetto sconosciuto; oggi, invece, è un deputato della Repubblica al quale dobbiamo gratitudine perché, pur senza rendersene conto, ci costringe a meditare su come si sia lasciata cambiare questa nostra società proprio nelle sue fondamenta.

Questo è un rapido dialogo apparso in questi giorni su Repubblica. Un governo M5S-Lega lei lo voterebbe?, gli chiede l’intervistatore. «Certo», è la risposta di Sangregorio. E PD-M5S? «Va bene lo stesso». E centrodestra-Pd? «Perché no?». Ma sono tre cose diverse! «Lo so, ma bisogna trovare una soluzione per il bene del Paese. Le ideologie non contano più nulla; contano le persone». Insomma, il suo voto è assicurato comunque? «Alcuni colleghi mi hanno detto: “Io andrò all’opposizione”. Ma quale, se non c’è nemmeno una maggioranza; io, in ogni modo, preferisco stare al governo».

A prima vista si è portati a catalogare l’onorevole Sangregorio nella stessa categoria dei Razzi, Scilipoti e De Gregorio, ma subito ci si accorge che sarebbe sbagliato perché il parlamentare che arriva dall’Argentina non si comporta così per personali motivi economici, ma sia per una certa smania di protagonismo e voglia di contiguità al potere, sia in quanto alcune martellanti campagne propagandistiche, mai controbattute con sufficiente decisione, lo hanno convinto che destra e sinistra, con i loro valori e disvalori, non esistono più perché hanno seguito, in una teorica dissoluzione, tutte le ideologie che finora hanno fatto muovere il mondo; anche quelle che lo hanno fatto progredire.

E, non bastassero le ideologie, per il neodeputato anche che tra Salvini, Berlusconi, Di Maio, Grillo, Renzi, o chiunque altro del PD non sia soltanto il portavoce del forse ex segretario dem, non ci sono differenze nel pensiero, nei progetti che hanno, nelle decisioni che prenderebbero. A lui quello che interessa è che qualcuno – indifferente chi – vada al potere e che lui possa dire di essergli in qualche modo vicino. Come questo potrebbe cambiare l’Italia gli è del tutto indifferente.

Sangregorio, insomma, ci offre l’ennesima, ma non per questo meno importante, dimostrazione che le parole possono essere manipolate fino a cancellarne l’aderenza al proprio significato originario. Anzi, più utilmente, fino a mantenerle apparentemente vive, mentre, in realtà, sono ormai morte e prive di significato.

Sangregorio, per esempio, difficilmente potrebbe essere accusato di infedeltà visto che, per essere infedele, occorre prima avere una qualche fede. Ma merita anche notare che, se di fede nessuno parla più, due possono essere le cause, entrambe provocate da scelte deliberate.

La prima, portata a livelli professionali dai grillini, ma già molti anni fa praticata da centristi assortiti che passavano con noncuranza da destra a sinistra, a seconda di chi avesse avuto più cose da offrire, era camuffata con vari giri di parole tra i quali, quello probabilmente più usato dai sensali del Parlamento era “la politica dei due forni” che, ovviamente, con la politica, intesa nel vero senso del termine, aveva ben poco da fare.

La seconda, ben più grave e dagli effetti più profondi, può essere spiegata meglio con una similitudine di ambito spirituale. Molti, infatti, in tutti i culti, percepiscono che la strada della fede e quella della religione a un certo punto si separano e, in quel momento, finiscono per non seguire più né l’una, né l’altra; anche se continuano a scrutare entrambe, ma con più intenzione quella della fede percependo che è quella – l’unica – che può portare verso obbiettivi davvero degni.

Nel mio modo di vedere alla fede, con i suoi ideali e i suoi valori, corrispondono le ideologie; alla religione, con le sue ritualità e i suoi paramenti più o meno sacri, corrispondono i partiti. E, se la fede e le ideologie chiedono fedeltà alle idee, le religioni e i partiti richiedono obbedienza al capo. È un concetto magnificamente espresso nel 1965 da don Lorenzo Milani in quella sua lettera ai cappellani militari della Toscana che è più nota con il titolo “L’obbedienza non è più una virtù” e il cui destino è stato quello di essere molto citata e ben poco seguita.

Lasciamo perdere partiti come Forza Italia, la Lega, Fratelli d’Italia e il Movimento 5stelle che, nei fatti, sono nati e si sono sviluppati in una venerazione del capo che non poteva in alcun modo sposarsi con una democrazia sostanziale. Parliamo, invece del PD, che era nato con idee opposte e che ha finito, pur mantenendo la virtuosa idea di non inserire il nome del capo nel simbolo del partito, per diventare un’accozzaglia di persone che la pensano in maniera diversa, ma finiscono per votare tutti nello stesso modo, scegliendo l’obbedienza perché, essendo gli ideali confusi, non ci può essere fedeltà. Se avessero percepito che l’obbedienza – ammesso che lo sia mai stata – davvero non è più una virtù, Bersani e compagni se ne sarebbero usciti molto prima e oggi non sarebbero ancora nel PD coloro che si illudono di poter strappare quel partito dalle mani di un capo che ha deliberatamente mescolato le carte in modo da avere tutti gli assi in mano sua.

Dicevano e dicono che non si possono tradire i propri ideali. Hanno ragione, ma è loro sfuggita l’evidenza che non abbandonando quel partito stavano proprio abbandonando – e quindi tradendo – i loro ideali di sinistra. Ora, tornando al paragone spirituale, per riavvicinarsi alla strada della fede allontanandosi decisamente da quella della religione, sembra inevitabile la soluzione che è stata ventilata, questa volta senza presupponenza, da Massimo Cacciari che, sulle pagine dell’Espresso, ha scritto di cancellazione del PD: «Una sinistra può nascere soltanto dalla fine del colossale equivoco rappresentato dal PD».

Stiamo parlando di una sinistra che riporti in primo piano le sue idee e non i nomi dei suoi esponenti che nutrono più o meno grandi ambizioni personali e di gruppo, che sappia davvero che il suo compito principale è quello di combattere le disuguaglianze e che una delle armi per fare ciò è già nelle nostre mani. Si tratta di quella Costituzione che si è riusciti a difendere un anno e mezzo fa e che già nel suo primo articolo, parlando di lavoro, fa capire che ogni occupazione deve servire non soltanto a dar da mangiare, ma anche a sostenere quella dignità necessaria perché donne e uomini si rialzino dalla condizione di sudditi per diventare cittadini. La parola “disoccupazione” non dovrebbe essere usata con la scarsa partecipazione che si usa quando si parla di disgrazie accadute lontano e a persone che non si conoscono: dovrebbe essere considerata alla stregua di un handicap, non fisico, né mentale, ma sociale e si dovrebbe far di tutto per aiutare chi ne è temporaneamente colpito.

In tanti dicono che si tratta di idee vecchie, sorpassate e perdenti. Non è così e anche se si sente questa tesi ripetuta da persone che temporaneamente riscuotono il favore dell’elettorato, occorre ricordare sempre che è importante la fedeltà all’idea, non l’obbedienza al capo; o a chi riesce a farsi passare per tale.

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sabato 7 aprile 2018

Lucida e rigorosa

Bella, istruttiva e, quindi, utile, l’intervista a Luigi Di Maio pubblicata oggi (sabato 7 aprile) su Repubblica e realizzata da Annalisa Cuzzocrea.

Lei chiede: «Lei è uscito dallo studio di Sergio Mattarella formalizzando una proposta a due forze alternative: la Lega e il PD. Ma come può pensare di andare al governo indistintamente con chi è per i vaccini e chi è contro; chi sostiene la Russia di Putin e chi espelle due suoi diplomatici; chi è pronto a uscire dall'euro, e chi non ci ha mai pensato?». Lui risponde: «Non mi risulta che le posizioni delle due parti siano queste. In ogni caso… con chi troveremo le convergenze maggiori, lavoreremo».

Lei chiede: «Ma come si fa ad aprire contemporaneamente a due forze opposte?». Lui risponde: «Lega e PD non devono sentirsi sullo stesso piano».

Lei chiede: «Che vuol dire che non sono sullo stesso piano? Con una delle due si possono trovare più convergenze?». Lui risponde: «Non è quello che intendevo».

Lei chiede: «Crede che le politiche sull’immigrazione del PD e quelle di Salvini siano scambiabili?». Lui risponde: «Il punto non è questo, ognuno porta le sue idee, il contratto si scrive insieme».

Sarebbe il caso di leggere l’intera intervista, ma mi limito a segnalarvi ancora un paio di passaggi.

Lei: «Perché ha tolto il veto su Renzi?». Lui:«Io non ho mai posto veti, o parlato di PD “derenzizzato”, come qualcuno ha scritto». Peccato che non siano state cancellate tutte le registrazioni di “Dimartedì” quando Di Maio ha posto in maniera esplicita il veto a un PD ancora con Renzi, anche se l’uscita di Renzi sarebbe auspicabilissima non solo dai 5stelle, ma soprattutto da tutti coloro che ancora hanno idee di sinistra.

E poi. Lei: «Berlusconi, Salvini e Meloni andranno uniti alle consultazioni. Negando quel che lei ha detto davanti al capo dello Stato, che non esiste un centrodestra unito». Lui: «Salvini sta scegliendo la restaurazione invece della rivoluzione».

Lei, dopo aver sentito parlare a lungo della necessità di senso della responsabilità: «Se l’unica strada per andare a un governo fosse un suo passo indietro?». Lui: «Questo Paese ha avuto tantissimi presidenti del Consiglio che hanno preso zero voti dagli italiani. Ora c’è un candidato premier che ne prende 11 milioni e la prima cosa che si chiede è che si faccia da parte?».

Lei: «Con le nuove regole interne ai 5stelle lei può decidere tutto, anche sulla guida dei gruppi parlamentari. Siete passati dall’uno vale uno all’uno vale tutti?». Lui: «Non è così. Semplicemente, alcune decisioni spettano al capo politico».

Molti altri botta e risposta avrebbero dignità per essere riportati, ma questi credo possano bastare per far capire che in questa intervista tra la Cuzzocrea e Di Maio emerge chiaramente il fatto che c’è una visione lucida della situazione e un’interpretazione rigorosa della realtà, doti necessarie per chi ambisce a fare il premier. Peccato che queste due doti sembrano appartenere alla Cuzzocrea e non certamente a Di Maio che, tra l’altro, appare davvero il migliore dei 5stelle.
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