venerdì 30 marzo 2018

Dittature a tempo

Non vorrei sembrare irriverente, ma alla Settimana di Passione propriamente detta questa volta è corrisposta una settimana di passione democratica davvero profondissima che non soltanto ha messo in rilievo difetti ormai cronicizzati, ma che addirittura ha fatto capire che probabilmente siamo ancora ben lontani dall’aver toccato il fondo.

I conflitti a colpi di clava in questa specie di inedito “tutti contro tutti” stanno sminuzzando ulteriormente quel poco di distinguibile che era rimasto tra le macerie di un vivere democratico che, pur con tutti i suoi difetti, era riuscito a prendere per mano un’Italia distrutta dalla guerra e prostrata dalla dittatura e a portarla nel consesso delle prime nazioni del mondo, assicurando ai propri cittadini benessere e sicurezza sociale che si estrinsecavano soprattutto nel lavoro, nella sanità e nell’istruzione.Se dovessi sintetizzare al massimo il motivo di questa nostra crisi politica, direi che il problema risiede nel fatto che la stragrande maggioranza dei notabili dei nostri partiti considera la democrazia come una specie di “dittatura a tempo”: quando sei eletto fai quello che vuoi per cinque anni, senza che chi non è d’accordo si possa permettere di disturbare. Poi, se perdi le elezioni successive, la colpa è del popolo che non ha capito le “meraviglie” che hai combinato.

E tutto questo senza che nessuno si renda conto che la storia insegna che, prima o dopo, uno dei due termini di “dittatura a tempo” finisce per cambiare e che quasi sempre non si tratta del sostantivo iniziale, mentre invece tende a sparire il suo specificativo limitativo. Ma pensare così lontano è faticoso e fastidioso e, quindi, la “dittatura a termine” appare tanto comoda che merita sfruttarla senza darsi problemi; anzi, magari tentando di cambiare leggi elettorali e Costituzione pur di mantenerla. Lo pensano i vincitori; lo pensavano – e forse lo pensano ancora – gli sconfitti.

Il fascino del capo, più che subirlo, lo cercano tutti. Berlusconi è stato ed è maestro: un po’ per il carisma della ricchezza, un po’ per la fanfaluca che tutto quello che tocca diventa oro, un po’ perché dove queste due doti non arrivavano poteva arrivare il denaro. Al suo posto adesso è arrivato Salvini che, a prescindere dalla sua profonda aliofobia, sembra non essere così autocratico («Io – ha replicato a Di Maio – non dirò mai: “O io premier, o morte”») per poi specificare, però, che il premier non spetta ai 5stelle, ma alla coalizione del centrodestra e che a capo della coalizione, guarda caso, c’è lui.

In comune con Di Maio ha soltanto la drammatica frase: «Devo rispettare la volontà del popolo» (evidentemente ognuno parla di un popolo diverso), ma il capo dei 5stelle si sente più divinamente predestinato perché, intanto, si vanta di una finta democrazia digitale che, come dimostrano le cronache di questi giorni, è truffabile, o già truffata; poi è convinto che soltanto loro siano gli onesti e infine in quanto, grazie alla follia firmata da Rosato, può affermare tranquillamente che il 32 per cento del suo solo partito vale di più del 37 per cento della coalizione del centrodestra. La sua “estasi da vittoria” è tale che non si accorge che, dal punto di vista istituzionale, la Casellati fa fare addirittura bella figura a Romani. Ed è tanta la sua boria che si sente superiore anche al presidente della Repubblica pretendendo di fare lui le consultazioni prima che comincino quelle del Quirinale.

Sul leaderismo di Renzi non ci sarebbe da spendere più nemmeno mezza parola, visto che non solo ha fatto da ras del PD per molti anni, ma che anche oggi, dopo una sfilza incredibile di batoste, e dopo aver fatto dimezzare i voti del suo partito, pretende ancora di dettare legge, da teorico dimissionario, ma imponendo i propri fedelissimi come capigruppo e come vicepresidenti dei due rami del Parlamento e già avvertendo che anche sul nuovo segretario la decisione sarà sua. La domanda è semplice: perché il partito non si ribella? E la risposta è altrettanto lapalissiana: perché il partito non esiste più, visto che si è trasformato in un comitato elettorale nel quale i posti importanti sono saldamente presidiati da renziani.

Ed è sul PD che vorrei soffermarmi un momento di più, perché, nonostante tutto, continuo a sperare che si liberi di Renzi e dei suoi e che torni a guardare a sinistra, dove ancora non c’è una altro raggruppamento che abbia una massa tale de poter diventare centro di attrazione per gruppi minori.In questi giorni sono stati molti gli organi di informazione che hanno fatto inchieste e interviste sul perché il Pd sia stato abbandonato da tanti suoi elettori che hanno finito per votare Lega, o 5stelle, o starsene a casa. L’elenco di delusioni improntate a un comportamento certamente non di sinistra è lungo e circostanziato, oltre che non sorprendente. Gli elettori si sono allontanati dal PD a causa del Jobs Act che non ha aumentato il lavoro, bensì il precariato e la conseguente subordinazione dei lavoratori; delle ingiustizie della legge Fornero; dello svilimento nei confronti dei non più giovani, evidente nella parola “rottamazione”; del disprezzo per l’istruzione e la cultura con una legge che solo con grande ironia ha potuto essere chiamata della “Buona scuola”; della presa in giro sul lavoro per i giovani con trovate di contratti e di stage che hanno l’unico scopo di procrastinare il momento della disoccupazione ufficiale; della trasformazione degli organismi della sanità in aziende che devono fare soprattutto utili; della follia di evitare il contatto diretto con i cittadini per parlare, invece, soltanto con tweet e apparizioni televisive; della decisione di soccorrere le banche truffatrici e di trascurare i correntisti truffati; dell’assoluta sordità a qualunque disaccordo interno e a ogni suggerimento; di una politica fiscale che spesso ha trattato i ricchi meglio dei poveri; di una totale assenza di idee sulle migrazioni, salvo poi inseguire concetti di pura esclusione con il ministro Minniti; dell’incapacità di aggregare su temi importanti e della facilità di risultare divisivi davanti ad ambizioni personali. E si potrebbe andare avanti ancora a lungo.

Ed è proprio per evitare queste realtà che molti che avevano votato PD: per scongiurare la possibilità che arrivassero “i barbari” a distruggere il delicato edificio dei diritti sociali faticosamente costruito, poi si sono accorti che avevano “i barbari” già in casa e si sono affrettati a cambiare indirizzo. Più per rancore verso chi ha tradito gli ideali di partenza, che per fiducia nei confronti dei nuovi.

E fa sorridere amaramente vedere che, dopo il terribile insuccesso del 4 marzo, molti che hanno contribuito a distruggere il partito cardine del centrosinistra, oggi criticano le proprie stesse azioni e parlano di “discontinuità”, come se per realizzare la discontinuità potesse bastare cambiare un renziano A con un renziano B.

E ancora più amaro è sentire con quale artefatta serietà alcuni sedicenti “politici” mettono a confronto i diritti sociali con quelli personali, ipotizzando che, se si favoriscono i secondi, occorre rassegnarsi a perdere qualcosa sui primi. Senza rendersi conto che i diritti, o sono tali e per tutti, o sono soltanto privilegi. Senza capire che, al di là dell’assurdità dell’idea del baratto tra diritti, non esiste alcuna motivazione per uno scambio che favorisca una categoria rispetto a un’altra; nemmeno quella della quantità di persone che sarebbero coinvolte. Sarebbe come se nella sanità si decidesse di non curare più le malattie poco frequenti per convogliare tutti i finanziamenti solo nella lotta contro quelle più diffuse. E quei malati non hanno diritto di vivere? Potevano essere di più, sarebbe l’assurda risposta.

Considerando che Liberi e Uguali non ha saputo raccogliere gli scontenti e i delusi, è il caso di rassegnarsi? Assolutamente no: occorre, invece, sforzarsi di creare qualcosa di nuovo, pur se con le radici saldamente affondate nelle convinzioni democratiche e nelle ambizioni sociali espresse nella Costituzione della nostra Repubblica. Mettendo da parte le ambizioni personali per curare gli obbiettivi collettivi. Riprendendo a parlare “con” la gente, e non “alla” gente. Ponendosi faccia a faccia non esclusivamente con gli amici, ma soprattutto con chi è critico. Ricordando che i diritti vanno non soltanto rispettati, ma anche riconquistati giorno per giorno.

E, soprattutto che una qualsiasi “dittatura a tempo”, anche se malamente mascherata con la parola “governabilità”, è già la negazione della democrazia.

Buona Pasqua a tutti.

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domenica 25 marzo 2018

Il tritacarne delle ditte

È successo alla Camera e al Senato. Ed è successo anche per la Regione Friuli Venezia Giulia e per il Comune di Udine. Quindi non si tratta di casi isolati e sporadici, ma di abitudini, o, meglio, di costumi ormai radicati profondamente nella mentalità – diciamo così – politica del nostro Paese.

A livello nazionale, per superare i veti incrociati che rendevano ostiche le scalate agli scranni presidenziali di Camera e Senato, la Lega ha usato, e poi gettato in un angolo, Giulia Bongiorno, dei suoi, e Anna Maria Bernini di Forza Italia; i 5 stelle hanno illuso Riccardo Fraccaro prima di far eleggere, alla Camera, Roberto Fico; i berlusconiani hanno fatto sentire importante Paolo Romani prima di metterlo da parte per fare spazio per la massima carica del Senato a Maria Elisabetta Alberti Casellati che, chissà per quale motivo al di là dell’umiliazione inferta a Berlusconi, è stata ritenuta più degna di essere votata dai grillini che poi, però, vergognandosi almeno un po’ di avere accettato colei che strillava al golpe davanti al tribunale di Milano quando l’uomo di Arcore era stato condannato, hanno preferito essere molto evasivi sul richiesto alto profilo istituzionale della nuova presidentessa del Senato.

In Regione la Lega, certa della propria forza a Roma, ha insistito su Fedriga, mentre Forza Italia ha lasciato cucinare a fuoco lento, prima di toglierli dal tavolo, Riccardo Riccardi, Sandra Savino e Renzo Tondo. E per il Comune di Udine la situazione è stata simile con Pietro Fontanini sostenuto soprattutto dal risultato nazionale della Lega e con Forza Italia che ha tentato di opporsi allettando invano Fabrizio Cigolot, Fabrizio Anzolini, Renato Carlantoni, Giovanni Barillari e forse ancora qualcun altro che adesso mi sfugge, prima di accettare di farsi rappresentare da Enrico Bertossi che si era proposto in quel ruolo già da molti mesi ma che fino a pochi giorni fa aveva ricevuto in risposta soltanto una sdegnosa indifferenza.

E il PD? Nulla di tutto questo, ma non per una scelta di comportamento virtuoso. Soltanto perché a livello nazionale è diventato del tutto ininfluente anche perché è ancora Renzi a dominare il partito, mentre a livello locale aveva già scelto in forte anticipo i candidati governatore e sindaco – Sergio Bolzonello e Vincenzo Martines – mettendosi al riparo da qualunque altra controcandidatura che potesse arrivare da una sinistra che sta ancora cercando di fondere i suoi vari pezzi, ma in un periodo elettorale che, per motivi di ambizioni personali edi vecchio partito, porta a esaltare più le differenze che le somiglianze.

La politica, insomma, si dimostra un tritacarne cieco e insensibile, disposto a fare a pezzi chiunque, anche il più fedele, anche colui che per una vita ha servito con dedizione e sacrificio i propri ideali e coloro che li rappresentavano. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: uno sfacelo che sta lasciando soltanto macerie dei partiti tradizionali e sta creando al loro posto meccanismi senz’anima, senza ideali e con pochi obbiettivi seriamente raggiungibili e comunque limitati, più che a un futuro molto prossimo, a un presente un po’ allungato.

Per analizzare questa situazione mi sembra utile partire da uno dei modi di dire per me più fastidiosi usati da Bersani, persona che, peraltro, continuo a stimare moltissimo. Non ho mai accettato, infatti, che potesse definire il suo partito «la ditta», sia perché, se di ditta si trattava, allora doveva rendersi subito conto che aveva cambiato completamente produzione, sia in quanto tra gli ideali e gli obbiettivi di un partito politico e i prodotti e i bilanci di una ditta le distanze continuano a essere siderali.

Eppure questa definizione oggi ci torna utile per capire quello che realmente è successo; perché è assolutamente vero che la politica ha deciso di modellarsi sui comportamenti delle ditte. E non soltanto trattando la sanità, l’istruzione, e altre cose ancora, come aziende che devono produrre utili, tanto che si decide di premiare personalmente e riccamente i dirigenti che questi utili raggiungono, ma anche coinvolgendo e stravolgendo una mentalità che prima cercava – o almeno diceva di cercare – il bene del cittadino, mentre ora si occupa soprattutto ed esplicitamente del benessere dei bilanci. E il parallelo con il mondo delle aziende balza agli occhi già ascoltando discorsi che non parlano di “investimenti”, ma soltanto di “spese”.

Però la cosa che appare più evidente è che in politica non dovrebbe trovare spazio quella che da sempre definisco la “sindrome dell’amministratore delegato”. Mi spiego: ricordate le vecchie iconografie classiche dell’industriale-padrone che potevano attagliarsi a non pochi protagonisti dell’economia di una volta? Ebbene, oggi ci appaiono quasi da rimpiangere, sia perché comunque rispettavano il valore della loro azienda che volevano mantenere sana e vitale, sia perché la sentivano come una propria creatura da lasciare integra e vitale ai propri eredi, sia soprattutto poiché, per una parte non irrisoria, erano perfettamente coscienti che la loro fortuna dipendeva in parte non trascurabile dalle capacità di coloro che in quella ditta lavoravano e che, quindi, dovevano essere pagati e trattati con dignità. Oggi non è più così. Le aziende sono affidate per la maggior parte ad amministratori delegati ai quali dagli azionisti è chiesto in primis, se vogliono mantenere il loro posto, di presentare bilanci positivi e in continua crescita. E per riuscire a fare ciò non sono pochi quelli che agiscono in maniera tale che la casella finale degli utili diventa non solo la cosa importante, ma l’unica cosa importante.

Se poi, per ottenere che questa casella contenga cifre sempre più cospicue, visto che è difficile aumentare la quantità dei ricavi, si finisce per operare più facilmente soprattutto sui risparmi, prosciugando le ricchezze interne non direttamente monetizzabili dell’azienda, indebolendone le strutture umane e tecniche, che sono i pilastri sui quali si regge, fino a portarla verso un inevitabile collasso, la cosa appare secondaria ed eventualmente riguarderà chi sarà chiamato alla difficile opera di risanamento. L’amministratore delegato, insomma, se non è davvero un fuoriclasse, rischia di essere miope per contratto.

Il politico questo non può – o non potrebbe – permetterselo, se vuole davvero cercare il bene della polis. Si tratta, insomma, di avere una visione a lungo raggio, di piantare alberi che daranno frutti probabilmente solo molto più tardi, spesso a mandato concluso. Ma oggi tutto questo anche in politica sembra non avere più senso. Non soltanto ci si limita a pensare al bilancio piùvicino, a praticare unicamente la tattica senza neppure immaginare una strategia, ma si agisce con sommo sprezzo del pericolo altrui, mandando avanti i più obbedienti, quelli disposti a sacrificarsi pur di ottenere un apparente risultato immediato. E il domani? Troppo lontano per pensarci.

È un atteggiamento che mi ricorda molto il modo di fare dei generali della prima guerra mondiale, quelli che agivano come se la mitragliatrice non fosse stata ancora inventata e mandavano a morire i loro soldati in una carneficina senza speranze. Svendevano l’umanità per una misera trincea. E molto spesso non riuscivano ad arrivare nemmeno a un risultato così meschinamente piccino.

Sinceramente mi interessa poco del destino di schieramenti politici neofascisti, aliofobi, od ondivaghi, ma al centrosinistra e alla sinistra vorrei chiedere quale appeal credano che possa essere esercitato dai partiti politici su persone che vorrebbero iscriversi e partecipare alla vita democratica, ma che sanno anche che, in caso di presunta necessità, sarebbero ignorati, se non buttati a mare senza pensarci troppo su?

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martedì 20 marzo 2018

La certezza del rovescio

A Catania la procura ha deciso il sequestro della nave di una Ong spagnola e l’incriminazione del capitano e del capomissione contestando loro «l’associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina». Non ha importanza il fatto che lo sbarco dei migranti salvati in mezzo al Mediterraneo non abbia avuto nulla di clandestino in quanto è stato effettuato alla luce del sole e con l’aiuto delle forze dell’ordine, né che la nave spagnola sia arrivata in Italia perché Malta faceva difficoltà a concedere l’approdo. Il diritto va seguito con stolida certezza, anche se l’illuminato ministro Minniti l’ha trasformato in “rovescio” istituendo, in pratica, il “reato di solidarietà”, anticipando le probabili mosse di un Salvini, o di un Di Maio, o di entrambi, se e quando saranno a Palazzo Chigi.

E dello stesso reato sembra essere colpevole, oltre confine, anche una guida alpina francese che sta rischiando cinque anni di prigione perché “colpevole” di aver aiutato a raggiungere alla svelta l’ospedale più vicino una donna incinta che stava tentando di arrivare in Francia su un sentiero coperto dalla neve a duemila metri di quota con marito e due figlioletti di 2 e 4 anni.

Ma se il cosiddetto “diritto” italiano e quello francese (non parliamo di quelli ungherese, ceco, slovacco, polacco, austriaco e forse di qualcun altro ancora) ragiona così, perché Udine dovrebbe fare eccezione? E, infatti, la prima uscita pubblica del candidato sindaco accettato dal centrodestra dopo molte titubanze e tensioni, Pietro Fontanini, è tesa soprattutto a far capire che il primo problema del capoluogo del Friuli è quello che Minniti ha tentato di risolvere in maniera così illuminata: quello dei migranti e, quindi, della cosiddetta “sicurezza”.

I numeri indicano che, in realtà, i reati sono in calo? «I numeri – risponde Fontanini – contano poco. Se c’è una diffusa percezione di insicurezza significa che è necessario invertire la direzione per non peggiorare ulteriormente le cose». Quindi, il fatto che i reati stiano calando non è importante; come importante non è tentare di far ragionare, proprio sui numeri, i cittadini, ma seguire pedissequamente, a caccia di voti, le loro sensazioni, a prescindere dal fatto che siano giustificate, o meno.

Il modo? Semplice: «Riproporre la sperimentazione delle squadre di sicurezza già avviata a Pordenone per aiutare le forze dell’ordine a controllare il territorio». In pratica, le ronde. Facendo diventare anche qui “rovescio” il diritto. Perché – forse è meglio ricordarlo a chi non frequenta spesso quella lettura – la Costituzione, all’articolo 117, sottolinea che, tra le varie materie in cui «lo Stato ha legislazione esclusiva», al punto H, c’è «l’ordine pubblico e la sicurezza, a esclusione della polizia amministrativa locale» che, intanto, deve essere dipendente – e quindi stipendiata – da un ente locale, ma che, anche se recentemente armata per scopi di eventuale legittima difesa, deve rimanere comunque impiegata soltanto in riferimento a possibili reati di tipo amministrativo. Nella Repubblica italiana, infatti, il mantenimento dell’ordine pubblico continua a essere affidato esclusivamente, tranne che all’interno di proprietà private, alle forze dell’ordine, appunto.

E non sono minimamente previste forze di polizia privata (magari in divisa verde, o adesso azzurra, per richiamare l’idea politica, oppure bruna, per rifarsi ai più conosciuti predecessori) che abbiano il diritto di fermare chicchessia; né italiani, né stranieri; né di pelle bianca, né di alcuna sfumatura più scura; né di lingua italiana fluente, né incerta. Per capirci, se qualcuno che non appartiene alle forze dell’ordine pretendesse di fermarmi per un controllo, io – rispettosissimo di polizia, carabinieri e guardia di finanza – risponderei educatamente di no e me ne andrei avanti, se di buona luna; risponderei in maniera decisamente meno educata e comunque andrei avanti, se di cattiva luna, o se l’insistenza dei “rondoni” diventasse eccessiva.

Ma il problema reale – non servirebbe neppure dirlo visto che la realtà dei numeri viene considerata priva di valore – non è quello della sicurezza, bensì di una ben marcata eterofobia ben spiegata con la frase «Dobbiamo far percepire ai migranti che Udine non sarà più una città di buonisti, ma una città nella quale si pretende il rispetto delle regole». Ai migranti, non ai cittadini tutti, come se il rispetto delle regole non riguardasse tutti, o come se i residenti e gli italiani in genere fossero totalmente alieni da qualsivoglia forma di infrazione delle leggi e delle regole.

Con tutto il rispetto per Fontanini, vorrei almeno fargli notare che in nessun caso, per quante ronde lui possa sognare di far circolare per le strade, tutta Udine diventerà mai come vorrebbe lui. Perché qualcuno – anzi, visto il comportamento tenuto finora dai cittadini, una grandissima parte della popolazione – continuerà a rimanere “buonista”, come ama definirla lui, ma, più semplicemente e più realmente, solidale con chi soffre e chiede aiuto, con chi non ha e domanda soltanto di che vivere in pace. Forse l’attuale differenza sociale e politica maggiore tra chi ha diritto di voto è proprio quella di interrogarsi se, davanti a chi soffre, ci si domanda per prima cosa da dove viene, che lingua parla, se la sua pelle è abbronzata, o è così naturalmente, oppure, semplicemente, chiedersi se ha fame, o se sta male, e come si può aiutarlo.

Mi piacerebbe che qualcuno tentasse di spiegarmi, se è vero che non ha più senso parlare di "destra" e "sinistra" e se le ideologie hanno fatto il loro tempo e devono sparire, perché questa tesi debba riguardare soltanto le ideologie di sinistra e di inclusione, e non quelle di destra e di esclusione.


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domenica 18 marzo 2018

Politica e democrazia

Sembra che tutto sia organizzato per distrarci. Tutti i mezzi di informazione si dedicano anima e corpo a tutta una serie di argomenti che definiscono “politici”. In primis si parla del futuro possibile (o impossibile) nuovo governo, con Di Maio che si fa già chiamare presidente e che parla di accordi con altre forze, basta che non siano messe in dubbio né la sua presidenza del Consiglio, né alcuno dei ministri che ha presentato già prima delle elezioni; con Salvini che tenta, con scarso successo, di darsi una verniciata di democraticità dicendo che si può discutere su tutto, ma attaccando continuamente l’Europa, l’euro, ovviamente i migranti e anche tutta una serie di leggi che hanno reso questa Italia un Paese un po’ più civile di quello che era; con quelli del PD che giurano che non faranno governi con i grillini, né, tantomeno con la Lega, ma che, insomma, se Mattarella chiedesse un atto di responsabilità, allora…

E sempre cosiddetti “politici” sono anche i servizi che si diffondono sui desideri di riunione tra una parte del PD e Liberi e Uguali, mentre tra gli stessi Liberi e Uguali non si sono ancora sopiti i contraccolpi e le forze centrifughe innestate dalle delusioni alle urne. Per non parlare delle baruffe esplicite e difficilmente componibili all’interno del centrodestra tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, di cui un esempio evidente lo abbiamo in questa regione dove, nel tentativo di mediare tra gli appetiti delle due forze maggiori e tra i dissidi intestini alle stesse singole forze, si è deciso di presentare un candidato che avrebbe dovuto non scontentare nessuno, mentre, invece, sembra avere l’affetto dello scoppio di una bomba la cui deflagrazione sta mandando in frantumi gli esili legami che esistevano tra comitive elettorali (di alleanze non si è potuto mai parlare seriamente) e che, oltre che sulla Regione, sembrano poter avere effetti anche sul Comune di Udine.

Ancora “politici” sono considerati i dissidi interni ai Cinque stelle, con cacciate e ripudi che si susseguono a ritmo sempre elevato. E sempre “politiche” sono definite le discussioni attorno a quella mostruosità chiamata Rosatellum grazie al quale ancor oggi non si sono riusciti ad assegnare circa dieci seggi, mentre sono preannunciati oltre trenta ricorsi. Il tutto mentre Rosato riesce tranquillamente a far finta di non vergognarsi di quello che ha fatto; o, magari, addirittura non se ne vergogna davvero.

Evidentemente, però, il significato dell’aggettivo “politico” ha perso ogni contatto con la propria etimologia che, invece, vuol significare che si parla di cose che sono dirette al bene della polis, cioè dei cittadini di uno Stato. Perché se l’etimologia avesse ancora un valore, allora tutti i mezzi d’informazione non potrebbero non dedicarsi soprattutto al fatto che ben quasi tre milioni di quei cittadini italiani per i quali lo Stato dovrebbe far di tutto al fine di assicurare loro diritti, dignità e benessere, sono poveri nonostante lavorino, nonostante nominalmente siano considerati tra gli occupati.

Tre le considerazioni immediate.

La prima riguarda non soltanto l’ingiustizia del Jobs Act al quale non interessa il lavoro per i lavoratori, ma il lavoro per quelli che, per buona parte, una volta potevano essere chiamati datori di lavoro e che oggi, al massimo, possono essere definiti “imprenditori”.

La seconda, già ripetuta molte volte, tocca la falsità di una propaganda politica che, nell’ansia di far passare per buone anche le riforme fallimentari, pretende di inserire nel numero di coloro che non sono disoccupati anche quelli che lavorano – più o meno remunerati, ma di solito tanto meno – soltanto per qualche ora al mese.

La terza punta l’indice contro una politica che non solo non è capace di recepire il fatto che le disuguaglianze sono aumentate a dismisura e che la ricchezza si è concentrata in pochissimi gruppi, mentre la povertà va condivisa tra sempre più persone, ma che addirittura non fa nulla per cambiare questa situazione e per ridurre quelle disparità che sono l’indice inequivocabile di una democrazia boccheggiante, se non moribonda.

Vi riporto alcune delle parole con le quali il Censis analizza il fenomeno, dopo aver spiegato che in troppi si approfittano impunemente della fame di lavoro di giovani che, «pur di inserirsi nel mercato del lavoro accettano qualunque retribuzione d’ingresso», o di lavoratori licenziati che, «per reinserirsi, si adattano a contratti precarissimi», o a «part–time subiti per necessità»: «La maggior parte delle assunzioni – è scritto – si è concentrata nei livelli bassi dove si è creata una specie di “gabbia”, nel senso che, una volta che si accettano condizioni di lavoro particolarmente svantaggiose, è difficile venirne fuori: si è intrappolati tra precarietà e discontinuità».

Credo che per sperare di ricostruire questo Paese sia fondamentale cominciare dando di nuovo il giusto valore alle parole. Soprattutto a “politica” e a “democrazia”. E anche a “lavoro”.

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giovedì 15 marzo 2018

Il meno peggio?

Il PD potrebbe quasi rallegrarsi di aver raccolto il 18,7 per cento dei voti alla Camera e al 19,1 al Senato. Se gli elettori, infatti, avessero potuto già sentire in anticipo le parole pronunciate da Franceschini in questi giorni, sicuramente le percentuali sarebbero state ancora inferiori. Anche perché l’ex segretario del PD dal 2006 al 2008, è ancora una delle personalità di spicco di quel partito, capace – dicono – di influire su una cospicua quota di iscritti.
 
Ebbene, parlando delle prospettive politiche, ancora molto nebulose, del dopo elezioni, l’ineffabile ministro della Cultura ha proposto l’ipotesi di un governo «senza maggioranza», cioè con dentro tutti, o quasi – cita Di Maio, Salvini, Berlusconi, Martina, lasciando fuori soltanto Liberi e Uguali e Fratelli d’Italia – e non, ovviamente, per affrontare l’ordinaria amministrazione, bensì per creare una «legislatura costituente» e per fare riforme costituzionali tra le quali, in primis, «il monocameralismo» e una riforma elettorale «o che dia la maggioranza al primo arrivato, o punti a un sistema proporzionale, ma allora devi accettare che si stringano alleanze in Parlamento»; ma «dopo lo scontro frontale nei collegi uninominali, è difficile mettersi insieme».

Arduo pensare che Franceschini si sia già dimenticato del risultato del referendum del 4 dicembre 2016: molto più probabile che lo consideri soltanto un fastidioso inciampo lungo la strada allora tracciata da Renzi e dai suoi (tra i quali c’era anche lo stesso Franceschini), una strada che è stata rifiutata dal 60 per cento degli italiani che l’hanno considerata come il rischio di un vulnus gravissimo e pericolosissimo nel corpo della democrazia italiana.

Parlare della sostanza democratica del referendum sarebbe importante, ma ne abbiamo già parlato moltissimo e, inoltre, stante il fatto che sono stato referente provinciale del Comitato per il No, il mio giudizio sarebbe scontato. Quello che, invece, mi appare agghiacciante è il fatto che a Franceschini non importi per nulla il giudizio dato dal 60 per cento degli italiani, una maggioranza larghissima che sicuramente non è cambiata nel corso di poco più di un anno perché, se è vero che gli italiani non hanno più alcuna fiducia nei partiti, è altrettanto vero che continuano ad averne parecchia nella Costituzione; anzi, a considerarla come una specie di ultimo scudo contro le scorribande velleitarie e antidemocratiche che hanno segnato profondamente questi ultimi decenni senza dare, se non in rari casi, dei corrispettivi di leggi che facessero migliorare la società italiana.

Sulla legge elettorale, poi, visto che non implicitamente sostiene un nuovo premio di maggioranza, anche enorme, da dare a chi «arriva primo», dimostra che non tiene molto conto neppure delle sentenze della Corte Costituzionale.

Il disprezzo dimostrato dall’ancora ministro nei confronti delle scelte dei cittadini, impone prese di posizione nette da parte di tutti coloro che non vogliono dimostrarsi complici di un simile atteggiamento. Soprattutto da parte del PD, del quale Franceschini fa parte, e che non può limitarsi a un distratto silenzio. Altrimenti ci sarebbe il rischio che anche la triste abitudine del voto per “il meno peggio”, pur attraverso altre liste alleate, potrebbe risultare talmente indigesta da diventare impraticabile, spingendo così, nell’attesa dell'agognata nascita di nuovi partiti politici credibili, verso forze poste agli estremi, o a ulteriori e sempre deprecabili astensioni dal voto.

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venerdì 9 marzo 2018

Miopia temporale

Se qualcuno desiderasse capire perché, se il PD non cambierà linea politica e protagonisti, non riuscirà a risalire la corrente e perché anche per l’Italia intera le prospettive non appaiono assolutamente rosee, basterebbe che valutasse con attenzione le ultime dichiarazioni di Sergio Bolzonello che punta a succedere a Debora Serracchiani sulla poltrona di governatore della Regione.

Ebbene, duramente colpito e frastornato dalla batosta subita domenica dal suo PD, Bolzonello ha giustamente sentito tremargli la terra sotto i piedi e, nella fretta di offrire segni di reazione, non ha trovato di meglio che annunciare che si dovrà fare «una rivisitazione importante delle UTI con il coinvolgimento di tutti i 216 sindaci attraverso un confronto vero e di sostanza». E, in più, assicura «una riconsiderazione del sistema sanitario» regionale con seri correttivi alla riforma entrata in vigore da non molto.

Ora, se per prima cosa non ci si può non domandare dove si trovasse Bolzonello, vicepresidente della giunta Serracchiani, mentre UTI e riforma sanitaria venivano decise e approvate, ancor più importante di questo quesito è la considerazione che queste correzioni promesse non sarebbero state neppure prese in considerazione se non si fosse stato il disastro di domenica e se non apparissero come un mezzo per tentare di recuperare almeno una parte della mostruosa quantità di voti perduti dal Pd da cinque anni fa a oggi.

Non si tratta, insomma, di un cambio di rotta ragionato e magari ispirato da ideali e valori sociali, bensì di un espediente irriflesso e deciso soltanto pensando a una prospettiva breve, di circa un mese e mezzo, che si allunga soltanto fino alla prossima chiamata alle urne, il 29 aprile. Un cambio di rotta che, visto che nasce con esigenze elettorali e non poggia su convinzioni politiche e sociali, non è detto né che porti a soluzioni non pasticciate, né che poi queste riforme arrivino davvero in porto.

Ma, attenzione. Il comportamento del PD e, quindi, di Bolzonello, non è molto diverso da quelli della Lega e dei Cinque stelle, e questo non può non far preoccupare per il futuro della Regione e anche dello stesso intero Paese. Infatti,, se il Pd ora gioca in difesa correggendo se stesso, Lega e grillini giocano in attacco, soffiando sulla paura per i diversi, la prima, e sul rancore contro chi non sta con loro (e per ciò stesso è considerato sospetto, se non colpevole), i secondi. Tutti e tre, però, hanno in comune quella miopia politica che li obbliga e vedere e a considerare soltanto le cose che vedono, quelle temporalmente molto vicine, promettendo veloci retromarce da parte del primo, rapide cacciate di migranti dalla seconda, e immediati redditi di cittadinanza dai terzi. Di pensieri e progetti complessi e generali per un futuro lontano, nemmeno l’ombra.

Va detto che tutto questo non deve assolutamente sorprendere. Sono ormai molti anni che assistiamo quasi in colpevole silenzio al proliferare di un mondo politico che si disinteressa – perché non è abbastanza intelligente – del passato, e non si avventura – perché non è abbastanza intelligente – a prefigurare il futuro. E il paragone sull’intelligenza chiama in causa quel mondo politico che ben sapendo dove voleva arrivare e pur tra ricorrenti difficoltà, sacrifici e contrapposizioni spesso anche sanguinose, è stato capace di togliere l’Italia dalle macerie di una guerra disastrosa e indirizzarla su una strada che l’avrebbe portata al boom economico e a una serie di legislazioni sociali che tutto il mondo ci invidiava e che oggi, almeno in parte, stiamo amaramente rimpiangendo.

Il fatto è che per decenni abbiamo lasciato c he Berlusconi, uomo ricco di prezzi, ma senza valori, demolisse pezzo dopo pezzo la politica denigrando meticolosamente, anche attraverso le televisioni e i suoi dipendenti, le ideologie e le culture politiche. E di questa distruzione oggi soffrono, anche se pensano di goderne, tutti i partiti e movimenti politici, che non indicano alcuna prospettiva e non si sentono obbligati a fare la fatica di sognare, pensare, immaginare, ragionare e pianificare perché ormai nessuno si attende da loro qualcosa di più di un temporaneo tampone che neutralizzi alla meno peggio la crisi del momento, in attesa che arrivi ineluttabilmente la prossima.

E così, operando sul nulla, affidandosi all’improvvisazione e allo spontaneismo, affidandosi senza obiezioni ai voleri del capo, non leniscono le delusioni, né riescono a cancellare rabbie e risentimenti, ma soprattutto non prefigurano scenari di miglioramento organico e a lungo termine e, così non facendo, finiscono per tarpare le ali alla speranza, vero motore di ogni società ancora vitale. E, contemporaneamente, finiscono per sottolineare la loro inadeguatezza, se non inutilità, in un sistema democratico che, invece, avrebbe bisogno come del pane del loro ruolo fondamentale e costituzionale: quello di cinghia di trasmissione capace di portare le varie necessità dei governati fino ai governanti.

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martedì 6 marzo 2018

Utopie, esperienza e scorie

Del PD – di questo PD che sembra essere ancora di Renzi – mi interesserebbe ben poco se non fosse per il fatto che tra un po’ meno di due mesi qui si voterà per la Regione e per alcuni comuni, tra cui quello di Udine e che sarebbe il caso che non si ripetessero i risultati di domenica. Ed è in quest’ottica che mi sembra inconcepibile, oltre che inqualificabile, che quel partito continui a fare praticamente finta di niente a livello nazionale, dove Renzi, dopo aver dato dimissioni ma senza indicare la data, ha incolpato della sconfitta Mattarella, Gentiloni, gli altri ministri, i vertici del partito che non appartengano alla cerchia dei suoi amici intimi; tutti, tranne se stesso. Ma anche a quello regionale in cui la Serracchiani dà davvero le dimissioni dalla segreteria nazionale, ma sia perché tra non molto decadrà automaticamente dalla presidenza regionale, sia in quanto non vede più motivi logici per stare attaccata a un Renzi ormai comunque alla fine della corsa e che, del resto, l’aveva già scaricata a suo tempo togliendole la vicesegreteria.

E, sempre a livello regionale, appariva ancor più deprecabile, l’atteggiamento di reiterata cecità politica della segretaria regionale del PD, Antonella Grim, che escludeva di dare le dimissioni, dando, così, un concreto segno di discontinuità per riportare il PD nel suo territorio politico di origine, cioè il centrosinistra. Va capito che rinnegare quel che è stato, per la Grim è stato come rinnegare se stessa, anche se, in realtà, è sempre stata soltanto – come hanno dimostrato anche le sue dimissioni tardive – la portavoce di Debora Serracchiani che, a sua volta era la portavoce di Matteo Renzi; ma l’idea che un PD disastrato predicasse umiltà mantenendo, però, la solita spocchia e che cercasse un accordo con la sinistra predicando la necessità di unione, solo nel senso di voto utile e non mettendo neppure in dubbio il proprio candidato scelto in casa, né il proprio programma che altro non è che la continuazione di quello, davvero non proprio esaltante, del quinquennio appena concluso, lasciava prevedere un’altra passeggiata per la destra. Ora, però, il pericolo non è ancora assolutamente escluso.

Se, infatti, a Udine, per le comunali, qualche passo in avanti il PD lo ha fatto, anche se resta ancora il non trascurabile ostacolo rappresentato dal fatto che per molti tracciare una croce anche sul simbolo del PD sarebbe probabile causa di una forte orticaria intellettuale, in regione, questo finora non è accaduto: lì hanno continuato a dire che «quella sarà un’altra partita», come se il responso delle urne di domenica non contasse niente, come se non fosse accaduto che il centrodestra ha fatto il pieno vincendo in tutti i collegi uninominali della regione.

Sembra fortunatamente esclusa l’eventualità che Rosato possa offrirsi per aiutare nelle scelte politiche regionali da qui al 29 aprile. Fortunatamente, infatti, sembra sia già molto occupato a fare ulteriori danni a livello nazionale. A riprova del pericolo che costituirebbe anche per la regione, basterebbe ricordare la sua acutezza e lungimiranza politica, dimostrata ancora una volta quando, dopo il disastro, rispondendo a una domanda sui difetti della legge elettorale che porta il suo nome, ha detto che «Abbiamo individuato che c’è stata una fatica, ai seggi, nella trascrizione del talloncino antifrode». Tutto qua, a riprova dell’inesausta cupidigia della dirigenza del PD renziano di prendere in giro gli elettori, infischiandosene delle conseguenze.

Ma sarebbe assurdo dimenticare che anche a sinistra le cose non sono andate bene. Ho già accennato all’incomprensibile ritardo con cui i fuoriusciti dal PD hanno deciso di diventare tali e di fondare MDP; al fatto che una fusione tra partiti è quasi impossibile se il tentativo avviene nell’imminenza di elezioni; a una campagna elettorale che non c’è mai stata e che non ha mai messo le idee della sinistra a contatto con i cittadini; a una compilazione delle liste che ha dato l’idea di seguire le necessità dei maggiorenti dei partiti più che quelle del partito stesso che spesso meglio sono state espresse da giovani sui quali sarà obbligatorio, oltre che logico, scommettere per il domani.

Ed è proprio su quest’ultimo punto che vorrei spendere due parole in più. In regione il simbolo di Liberi e Uguali è andato meglio – o meno peggio – alla Camera che al Senato e questo non può non far pensare che in questo momento gli ideali di sinistra riescano a fare più breccia tra i giovani che tra gli anziani. Forse noi, che giovani più non siamo, abbiamo accumulato maggiori esperienze, probabilmente siamo più capaci di sognare utopie che per tanti anni abbiamo vagheggiato senza riuscire quasi mai a realizzale, ma questi due teorici vantaggi hanno portato con loro anche tante scorie che si sono depositate nella nostra testa e nel nostro cuore senza riuscire a essere eliminate del tutto.

Tutto questo probabilmente a noi ha tarpato – poco o tanto che sia per ognuno – le ali di quell’entusiasmo che ai giovani, invece, non manca. E a questo punto proprio la nostra esperienza e le nostre utopie dovrebbero essere lo stimolo a farci capire che è ai giovani che dobbiamo lasciare più spazio e più campo soprattutto per far capire al mondo che la sinistra non se ne sta andando con quelli che l’hanno praticata fin da quando erano giovani e non facevano minimamente caso al fatto che qualcuno dei “benpensanti” potesse considerare “sinistra” una brutta parola.

Poi le utopie e le esperienze saranno sempre a loro disposizione, quando lo vorranno. E non dico “se lo vorranno”, sia perché sono sicuro che, senza le scorie che appesantiscono noi, loro non sprecheranno alcuna opportunità, sia in quanto devo ancora conoscere qualcuno che riesca a farci stare zitti, e, quindi, continueremo a parlare, a scrivere, ad agire, a vivere e a votare sempre ben attenti a non tradire noi stessi e i nostri valori.


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lunedì 5 marzo 2018

Oggi, ieri, domani

Ci sono poche cose più tristemente ridicole del vedere qualcuno che, dopo una zuffa, si trascina dolorante a quattro zampe e tenta di sorridere dicendo: «Poteva andare peggio. Tutto sommato, non mi fa tanto male». Fortunatamente questa volta almeno il ridicolo ci è stato risparmiato; non certamente il dolore; e neppure la tristezza. Poteva andare peggio? Tutto è possibile, ma francamente mi sentirei di rispondere con un secco «No!», perché in politica peggio dell’irrilevanza ci può essere ben poco.

La sinistra esce da questo confronto elettorale decisamente e dolorosamente disastrata e credo che sia obbligatorio soffermarsi su almeno tre aspetti: il perché di questi numeri, gli ideali, il futuro.
 

Sui numeri c’è poco da dire: si tratta di una batosta senza attenuanti e accompagnata da un senso di desolazione che non può essere nemmeno vagamente attenuato dalla quasi certezza che finalmente Renzi finirà di fare danni a quel centrosinistra al quale dice di appartenere, ma che ha demolito lasciando dietro di sé soltanto una landa di macerie che non coinvolgono soltanto il suo partito, ma, sia pur indirettamente, tutto il centrosinistra; ovviamente, sinistra compresa.

E spinge in direzione diametralmente opposta alla consolazione anche il pensiero che Mattarella dovrà trovare un’alternativa di governo tra il razzismo viscerale di Salvini e la vaghezza opportunistica di Di Maio. Sempre che i due rischi non possano arrivare addirittura a sommarsi.

Unica altra ipotesi – e non facilmente praticabile neppure questa – un governo di scopo per scrivere e far approvare una legge elettorale meno stupida e scandalosa di quella sulla quale ci ha tenuto a far mettere il suo nome l’ineffabile Rosato. Ma su questa strada ci sono due ostacoli: per fare una legge condivisa occorre essere disposti a condividere qualcosa. E poi, comunque, si correrebbe il rischio di ritrovarsi comunque al punto di partenza, oppure, visto che delle pur fruttuose fatiche di un proporzionale vero nessuno vuol sentir parlare, si rischierebbe di voler uscire dallo stallo assecondando ancora una volta la tentazione di drogare i risultati elettorali con premi assurdi e, quindi, tendenzialmente anticostituzionali.

Sul perché di questo disastro su “Eppure…” ho scritto ben prima che la catastrofe si materializzasse. I fuoriusciti dal PD avrebbero dovuto uscire ben prima, perché già da molto tempo il quadro era inequivocabile. Tentare una fusione tra partiti diversi è sempre una cosa difficilissima, ma diventa quasi impossibile se il tentativo avviene nell’imminenza di elezioni in cui ognuno crede che la cosa più importante sia non dare un volto preciso e comune alla nuova creatura, bensì difendersi dai compagni di viaggio che sono visti più come un pericolo che come amici. La compilazione delle liste ha dato più l’idea di seguire le necessità dei maggiorenti dei partiti che quelle del partito che spesso molto meglio sono state espresse da giovani sui quali sarà obbligatorio, oltre che meritatamente logico, scommettere per il domani. La campagna elettorale non è stata sbagliata: semplicemente non c’è mai stata e riesce difficile capire come uno schieramento di sinistra pensi di restare tale senza mai confrontarsi, faccia a faccia, con i cittadini elettori e organizzando, invece, soltanto incontri tra amici.

In base a queste considerazioni, a prima vista la conseguenza apparentemente inevitabile sembrerebbe quella di mollare tutto, rassegnarsi e ritirarsi a vita privata; ma qui interviene il secondo punto, quello dei propri principi e valori. Già molte volte ho scritto che uno dei più importanti insegnamenti della democrazia consiste nel fatto che avere la maggioranza non necessariamente coincide con l’essere nel giusto. E, conseguentemente, che se si viene sconfitti non perdono di valore anche i principi in base ai quali si ragiona, si parla, si opera, si vive.

Personalmente, insomma, sono ben conscio che oggi appartengo alla schiera dei battuti, ma continuo a essere convinto che sia doveroso, oltre che giusto, impegnarsi a lottare contro le disuguaglianze, la disoccupazione e la povertà, contro i razzismi, gli egoismi, le esclusioni, contro le corruttele e gli opportunismi, contro le incompetenze e le approssimazioni. Non continuare a lottare per questi ideali significherebbe tradire noi stessi. E, quindi, non c’è altra possibilità che rispolverare il vecchio, ma sempre validissimo sprone di Francesco Saverio Borrelli: «Resistere! Resistere! Resistere!».

E già con questo entriamo nel terzo punto: quel futuro, prossimo e lontano, sul quale tornerò più diffusamente nei prossimi giorni. Perché, in chiave generale, occorrerà ricostruire una casa che possa accogliere, a livello nazionale, tutti coloro che credono negli alti ideali e nei valori umani di quella sinistra che – è bene non stancarsi di ripeterlo – esiste ancora in tantissime persone e che è tutt’altra cosa della destra.

Ma sarà importante, e anche più urgente vista la fretta indotta dai tempi – riconsiderare strategie, tattiche e nomi per le elezioni regionali e comunali del 29 aprile. Arrendersi senza combattere sarebbe un vero e proprio delitto contro se stessi e contro gli altri.

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venerdì 2 marzo 2018

Chi resta fuori?

Prima che scatti l’anacronistica regola del silenzio elettorale vorrei spendere ancora qualche parola su un argomento - quello dell’immigrazione, dei profughi, dei migranti - che sembra averla fatta da padrone della cosiddetta campagna elettorale, ma che, in realtà, non ha mai affrontato davvero l’argomento, visto che si è andati avanti quasi esclusivamente a colpi di slogan contrapposti e con un vero e proprio sperpero di quelle che oggi sono chiamate “fake news” e che una volta andavano sotto il meno affascinante, ma più comprensibile, nome di bugie truffaldine e deliberatamente disoneste.

In una propaganda pubblicitaria infarcita di falsità in ogni settore quello che, però, mi ha colpito di più è che tutte le parti contendenti e anche coloro che, temendo di perdere voti - indifferente quali - danno un colpo al cerchio e uno alla botte, hanno sempre affrontato l’argomento dal puro punto di vista numerico ed economico senza mai andare a disturbare quei ragionamenti etici che potrebbero mettere in crisi.

Provo a spiegarmi. Spesso si dividono coloro che arrivano da altri Paesi in almeno tre categorie: gli immigrati (che vengono da noi in cerca di un lavoro), i profughi (che scappano da una guerra) e i richiedenti asilo (che fuggono da persecuzioni e violenze che possono arrivare fino all’omicidio e alla strage). È sicuramente una distinzione importante dal punto di vista legislativo, ma la ritengo eticamente sbagliata; e che filosoficamente sia addirittura un non senso.

La prima domanda che mi e vi pongo riguarda coloro che scappano. L’essere costretti a morire di fame, oppure essere obbligati a prostituirsi, fisicamente o spiritualmente, per dar da mangiare a sé e ai propri cari, è davvero tanto diverso, è davvero tanto meno grave dell’essere perseguitati nell’accezione canonica del termine? La fame o il non avere la possibilità di curarsi, è davvero tanto meno terribile della tirannide, o del despotismo? Il secondo quesito riguarda, invece, coloro che sarebbero chiamati ad accogliere: è giusto legare l’obbligo di aiuto nei confronti del proprio prossimo alle contingenze politiche del luogo e del momento in cui l’aiuto dovrebbe arrivare?

Per la prima domanda la risposta mi sembra debba essere indiscutibilmente negativa. Non è possibile che una generalizzata tortura per fame possa essere meno grave di un pur mirato supplizio individuale, o di gruppo, effettuato con raffinati strumenti, o metodi, ideati per causare dolore. Si può forse consigliare calma e pazienza a un genitore che vede ischeletrire e morire i propri figli, solo perché quelli che sono comunque veri e propri soprusi di regimi di vario tipo non sono particolarmente appariscenti? Direi proprio di no.
Insomma, a voler parlare di diritto d’asilo, ci si trova obbligati a dover confrontarsi con almeno due discriminanti. 

La prima è di tipo quantitativo, e cerco di esemplificarla. Prendiamo il Kurdistan, un Paese creato sulla carta subito dopo la fine della prima guerra mondiale, ma mai realizzato sul terreno vero e proprio. Bene: è difficile trovare qualcuno che davanti alle stragi di curdi perpetrate, alternativamente o contemporaneamente, da iracheni, turchi e siriani, con gas, agenti chimici e altre armi, più o meno convenzionali, possa dire razionalmente che i curdi non devono chiedere e ottenere diritto d’asilo. Ma molti sostengono anche che un limite sia necessario. E lo dicono non riferendosi soltanto all’Italia, ma a tutta l’Europa e anche all’Occidente, al cosiddetto mondo libero. Allora un altro interrogativo appare inevitabile e conseguente: davanti alla lunghissima fila di curdi che chiedono di entrare per salvare se stessi e i propri cari, quando e perché si dirà: «Basta. Il posto è esaurito. Tu ancora puoi passare; tu, invece, devi tornartene indietro a morire. E, attenti bene!, senza protestare, senza rompere le scatole e senza tentare di entrare lo stesso.»?.

La seconda discriminante – che si ricollega anche alla seconda domanda – è di tipo qualitativo: davanti a quale diritto conculcato si può dire «Tu puoi passare» e davanti a quale, invece, si chiude la porta e si dice «Tu resti fuori»? Chi è che deve stabilire qual è il limite oltre il quale si è autorizzati a non sopportare più e a cercare di andarsene per sopravvivere, se non si ha l’animo di fare rivoluzioni? Si può forse legarlo ai voleri della maggioranza del momento del Paese di accoglienza? La risposta è chiaramente negativa e, per sostenere questa tesi, vi porto un esempio soltanto: un antinazista, o anche un ebreo non particolarmente politicizzato, che avesse deciso di scappare da Hitler nella seconda metà degli anni Trenta non sarebbe certamente stato accolto in Italia.

Eppure, per superare oggi questa barriera, la risposta sarebbe semplice: basterebbe, infatti, affidarsi all’articolo 10 della nostra Costituzione che dice: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge». È uno dei passi più belli, più commoventi, delle regole che si era dato un Paese che usciva da dittature, guerre, torture, fame e distruzioni e nel quale si era ancora convinti – come avrebbe detto anni più tardi Giorgio Gaber – di poter essere liberi e felici, solo se lo erano anche gli altri».

L’alibi principale dietro al quale si nascondono leghisti, neofascisti, liberisti, egoisti, ma anche alcuni che amano farsi passare per progressisti, pur di potersi defilare da ogni imperativo etico, è quello della cosiddetta «richiesta strumentale» e di quella quota di delinquenza che l’immigrazione porta con sé. È sicuramente un problema, ma è un altro problema. Non è un filtro legittimo, bensì un problema successivo, perché la delinquenza va scoperta, fermata e punita esattamente come si fa – o come si dovrebbe fare, in taluni casi – per gli italiani.

Perché, con buona pace di tutti coloro che si appellano alle tradizioni di non si sa chi, in uno dei Paesi più meticciati dell’intero mondo, non è respingendo masse di affamati e disperati alle frontiere, non è cancellando la loro identità e cultura per fare posto alla nostra, non è ghettizzando i “diversi” che sono già entrati, che si riuscirà a mantenere intatta la società civile occidentale che alcuni indicano trionfalmente e tronfiamente come quella superiore a tutte le altre esistenti al mondo.

Sarebbe il caso di ricordare a chi è affascinato dalle teorie dell’esclusione, ma non è ancora totalmente obnubilato, che noi italiani eravamo considerati dal resto del mondo molto peggio di quando oggi in Italia molti, comunque troppi, considerano i migranti. Sarebbe il caso di ricordare che ancora oggi nel Nord Italia molti guardano con diffidenza chi parla con accento meridionale, che nel Triveneto si prova un certo fastidio se si sente parlare in dialetti lombardi, piemontesi, liguri, che in Friuli si arriccia il naso se c’è traccia di triestinità in colui che ci si trova di fronte, che in Carnia si è diffidenti con chi parla in un friulano che non ha in sé alcuni vocaboli e alcune durezze ereditate dalla durezza della vita tra le montagne. E così via, in una parcellizzazione che sembra in grado di concludersi soltanto quando uno resta solo con se stesso. Se poi riesce davvero a sopportarsi.

È soltanto con la cultura, e non con gli slogan, che si può mantenere gli “altri” «vivi e felici» e a ricordare che l’umanità è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità.

Un ultimo appunto. Salvini si scaglia anche contro i vescovi pur di lucrare qualche voto tramite la semina di odio e di paura, quasi fosse lui il depositario dell’ortodossia del cattolicesimo. A tale proposito vorrei concludere citando un passo di Erri De Luca che, riferendosi a Gesù, scrive: «Nascesse oggi, sarebbe in una barca di immigrati, gettato a mare insieme alla madre in vista delle coste di Puglia o di Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere, e il 25 dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui il tempo si è ridotto a un frattempo, a una parentesi di veglia tra la sua morte e la sua rivenuta. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti sono ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di Occidente, la colonna di stranieri in fila; fuori; all’ultimo sportello».

Insomma, forse cominceremo a risalire quando, invece di “diritto di asilo”, parleremo di nuovo di “diritto di vivere assieme”. O, più semplicemente, di “diritto di vivere”.

Buon voto a tutti. Ricordando che chi non vota comunque non si libera dal peso della complicità con coloro che potrebbero continuare a sottrarci ulteriormente umanità.

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