lunedì 19 febbraio 2018

Ricordando Thoreau

Mi sembra assolutamente azzeccata la decisione, da parte della Einaudi, di ridare alle stampe un classico della filosofia politica scritto da Henry David Thoreau: quel “Disobbedienza civile” che è stato scritto nel 1849 raccogliendo una serie di interventi pubblici fatti l’anno prima dal giovane filosofo che allora aveva 31 anni. Un testo che ha segnato profondamente il ventesimo secolo, più di quello in cui è stato scritto e nel quale il concetto di obbedienza era molto più vicino a un imperativo categorico totale che a un tratto di consigliabile buona educazione. Un testo che è stato letto e metabolizzato da giganti come Gandhi e Martin Luther King. Un testo che merita l’appellativo di “classico” perché ancora oggi, a 170 anni di distanza, mantiene intatto il suo messaggio e il suo valore.

L’assunto di base sul quale Thoreau poggia il proprio ragionamento è che qualsiasi governo, anche il migliore possibile, non può non limitare profondamente la libertà etica del cittadino, cancellando di fatto quella che Kant definiva «autonomia morale» della persona. Quindi, in una visione del mondo in cui l’etica deve essere anteposta al vantaggio economico e in cui – pur in profonda differenza con l’attuale pensiero politico dominante – i diritti del singolo devono venire prima della massimizzazione dei profitti, per Thoreau – ma fortunatamente non soltanto per lui – la disobbedienza è il primo, necessario passo per tentare di riallineare il mondo esterno con il proprio mondo morale.

Ed è da queste considerazioni – nettamente avversate da chi detiene il potere e contestate anche da spera di conquistarlo, ma apprezzate dagli altri – che discendono direttamente delle domande decisamente accusatorie. Perché continuiamo a non fare nulla se lo Stato è da sempre amministrato nell’interesse di pochi più che dei tanti? Perché dimentichiamo di essere uomini dotati di dignità se ci troviamo senza reagire davanti a leggi che schiavizzano, o almeno non difendono, noi, ma anche altri esseri umani? Perché troppo spesso, per piccini desideri di tranquillità, o per convenienze assortite, seppelliamo in una studiata indifferenza il nostro senso di giustizia?

Davanti a queste rivalutazioni della responsabilità etica individuale è arrivata, come una specie di pugno nello stomaco, una frase di Romano Prodi che, nel rinnovare il suo appoggio a Gentiloni e, quindi, al PD, non si è limitato a esprimere la sua scelta, ma ha affermato che «la democrazia moderna esige raggruppamenti».

Parlo di pugno nello stomaco per tre motivi.

Il primo è che il raggruppamento – che è qualcosa di molto meno sentito e vincolante di un’alleanza fondata su ideali comuni – è proprio la negazione grossolana di ogni analisi etica individuale e della successiva scelta di comportamento.

Il secondo riguarda il fatto che aggiungere l’aggettivo “moderna” al sostantivo “democrazia” non soltanto fa balenare l’idea che il concetto di democrazia non sia un valore assoluto, ma che possa essere anche “antica”, o “moderna”. E che, visto che il concetto di moderno, se non usato in maniera esplicitamente spregiativa, implica un miglioramento, attualmente staremmo vivendo in un periodo di democrazia avanzata. Mentre c’è un generale accordo sul fatto che, invece, la democrazia stia proprio vivendo un momento di profonda crisi.

Il terzo tocca colui che questa frase ha pronunciato: Romano Prodi per il quale avrò sempre grande gratitudine per le due volte in cui ha sconfitto elettoralmente Berlusconi, e grande vicinanza per le tre volte in cui è stato tradito da coloro che avrebbero dovuto essere di sinistra, o di centrosinistra, ma che ora sento decisamente estraneo perché ritiene più importante il valore del “raggruppamento” che i valori del centrosinistra, visto che se il “raggruppamento” non c’è più, questo dipende proprio dal fatto che Renzi, l’attuale padrone del PD, ha tradito quei valori.

E, contemporaneamente a quei valori, ha tradito anche svariate centinaia di migliaia di elettori che hanno dato ragione a Thoreau mettendo in pratica la disobbedienza civile in un modo pacifico, ma clamoroso, anche se i politici hanno fatto finta di non vederlo: rinunciando al diritto di voto piuttosto che votare qualcosa in cui non si crede.


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