mercoledì 28 febbraio 2018

Il lavoro, grande assente

Per fortuna manca pochissimo perché si concluda questa cosiddetta campagna elettorale che, in realtà, è qualcosa a mezza via tra la propaganda pubblicitaria, con una serie di promesse mirabolanti ed evidentemente per la massima parte irrealizzabili, e un libro dei (loro) sogni, in cui si parla moltissimo di possibili future alchimie governative e addirittura di liste di ministri stilate ancor prima che il presidente della Repubblica possa cominciare a pensare a chi dare l’incarico.

Invece pochissimo si discute di argomenti di fondamentale importanza, come l’aumento iperbolico delle disuguaglianze sociali e, quindi, della povertà che è strettamente connessa – anzi, in buona parte dipendente – dalla crisi del mondo del lavoro.

Questa è l’ennesima conferma che non interessa davvero debellare la povertà perché sembra bastare soltanto non vedere i poveri allontanandoli dai centri storici cittadini. E che non interessa davvero debellare la disoccupazione perché sembra essere sufficiente giocare con i numeri dando per occupati contemporaneamente sia coloro che hanno un contratto a tempo pieno e indeterminato, sia quelli che riescono a lavorare, e spessissimo con una retribuzione assolutamente non dignitosa, soltanto poche ore al mese.

Lo facciamo perché la vista dei poveri e dei disoccupati è un atto di accusa per noi stessi che non siamo stati capaci – direttamente, o per interposte persone – di coniugare i diritti con i doveri. E abbiamo anche fatto finta di dimenticare che il lavoro è, sì, stipendio e guadagno, ma anche e soprattutto dignità e coscienza di utilità per sé e per i propri cari, per l’azienda, o l’ente, in cui si lavora e per l’intera società.

Tra il decreto Poletti del 2014 e il Jobs act del 2015 abbiamo visto imperversare – per usare il linguaggio caro a molti politici – Mini job, Fast job, Fake job, con lavoretti lampo anche di un giorno soltanto, lavori a termine, intermittenti, a chiamata, voucher di vecchio e nuovo tipo, collaborazioni, fantomatici stage e ipotetiche alternanze scuola–lavoro. Tutto questo mentre si sbandieravano i teorici pregi dei contratti a tutele crescenti ai quali i licenziamenti più semplici troppo spesso non hanno lasciato neppure il tempo di crescere.

Il tutto in una giungla nella quale si è fatto di tutto per aiutare quelli che una volta erano giustamente chiamati “datori di lavoro” e nulla per venire incontro a quelli che il lavoro devono farlo, con il risultato di offrire alla popolazione che per vivere deve lavorare pochissimi diritti e nessun futuro. Tanto che, mentre Renzi sbandiera il fatto che gli occupati sono aumentati – comunque esagerando – di un milione di unità, la quantità di lavoro in un anno è addirittura precipitata a oltre un miliardo di ore lavorate in meno.

Alcune considerazioni. Intanto c’è il fatto che i vantaggi per gli ex “datori di lavoro” sono, a lungo termine, più apparenti che reali perché è la qualità del lavoro, e quindi della produzione, a calare visto che gli uomini non sono macchine a rendimento costante, ma esseri viventi che migliorano con l’intelligenza, l’esperienza e la fidelizzazione. Se l’unica qualità richiesta al lavoratore è la rassegnazione a stipendi sempre più bassi e alla povertà, intelligenza, esperienza e fidelizzazione mancheranno e la caduta di qualità sarà inevitabile.

Sempre pensando all’economia, è incontrovertibile, poi, che una popolazione povera potrà muovere il mercato molto meno di una che riesce ad avere ancora qualche soldo dopo aver sostenuto le spese di prima necessità per la propria vita in una società in cui comunque le tariffe e i ticket continuano a crescere.

Dall’altra parte il lavoro dava, oltre alla dignità, anche la fierezza di sentirsi parte di un tutto e la debolezza individuale diventava forza di gruppo e rendeva possibile quell’ascensore sociale che per decenni è stata la spinta sociale prevalente del nostro Paese e che era considerato preziosissimo se non per sé, almeno per i propri figli. Cancellata questa realtà, sono rimaste l’umiliazione di chi è stato lasciato in strada, l’invidia contro chi è rimasto negli uffici o nelle fabbriche, il disprezzo reciproco tra questi due gruppi in una serie di profonde fratture che hanno ulteriormente indebolito i deboli a favore dei più forti.

E, alla fine, mentre coloro che dovevano governare impiegavano la maggior parte dei loro sforzi per convincere che la situazione era ingovernabile, mentre in altri Paesi almeno in parte si riusciva a fare qualcosa, la povertà e la disoccupazione sono diventate quasi come colpe da nascondere agli altri, ma anche a se stessi. Sono diventate, come per i migranti, una specie di peccato originale senza neppure la speranza di un nuovo battesimo che possa lavare una colpa che non si ha.

In questa cosiddetta campagna elettorale, tranne che a sinistra, si è preferito parlare più di “redditi di cittadinanza” che di lavoro e di strumenti concreti per rivitalizzarlo, ma al momento di votare è necessario ricordarsene: non soltanto perché – come dice la Costituzione – il lavoro è il fondamento della nostra Repubblica, ma anche in quanto è proprio da questo aspetto che dipenderanno il volto futuro del nostro Paese e il benessere, o meno, nostro e di chi arriverà dopo di noi.

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giovedì 22 febbraio 2018

Il diritto è dovere

Voglio cominciare questo “Eppure…” scusandomi con coloro che mi leggono. Se, infatti, alcune persone, per le quali nutro la massima stima, hanno interpretato l’ultima frase di “Ricordando Thoreau”, la mia riflessione di lunedì 19, in maniera diversa da come la intendevo io, questo significa che non ho saputo esprimermi, o, che, quantomeno, ho scritto in maniera confusa.

Vi riporto quell’ultima frase: «E, contemporaneamente a quei valori, ha tradito (il soggetto è Renzi, citato alla fine della frase precedente) anche svariate centinaia di migliaia di elettori che hanno dato ragione a Thoreau mettendo in pratica la disobbedienza civile in un modo pacifico, ma clamoroso, anche se i politici hanno fatto finta di non vederlo: rinunciando al diritto di voto piuttosto che votare qualcosa in cui non si crede».

Ebbene, queste mie parole sono state da alcuni intese come un mio annuncio di rinuncia al voto. Io, invece, ben lontano da quell’idea, desideravo ricordare a tutti che, se molta gente non va più a votare, questo dipende dal fatto che sono moltissimi i politici che negli anni hanno tradito i principi e i valori che avrebbero dovuto rappresentare e difendere e che, con loro hanno tradito anche gli elettori la cui astensione resta – per me – sempre non condivisibile, ma almeno comprensibile e degna di attenuanti.

E non è per me condivisibile perché credo fermamente che chi non va a votare non stia rinunciando a un diritto, ma evitando un dovere.

Non c’è diritto, infatti, che non corrisponda a un dovere. Spesso ho ripetuto che il partigiano Enzo Biagi, sui monti dell’Appennino emiliano, aveva compreso talmente bene l’enorme valore del “diritto di resistenza” da farne tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della sua vita personale e professionale resistendo a qualunque pressione, a qualunque tentativo di accomodamento, sia in pubblico, sia in privato. E che con il diritto di resistenza Biagi si era conquistato anche altri diritti fondamentali, come quello della libertà, della deontologia, della dignità, che ci sanno indicare quale strada dovremmo seguire per realizzare una società più umana e, quindi, più giusta. E ognuno di questi diritti si era tanto radicato in lui da diventare anch’esso un dovere.

Questo vale per ognuno di noi e vale anche per il diritto al voto per ottenere il quale tantissime persone hanno sacrificato la vita e ancora di più hanno sofferto. Poi, ovviamente, soltanto raramente si riuscirà a votare con entusiasmo per un partito, o per una persona, ma, almeno, si voterà contro coloro che sono totalmente distanti dal proprio concetto di società.

Neppure questa volta riuscirò a votare con totale entusiasmo per il simbolo sul quale traccerò la mia croce, ma almeno con un po’ di speranza. Mentre sono certo che, così facendo, voterò contro coloro che mi sono totalmente distanti. E ve li elenco: coloro che hanno nostalgia dei fascismi; coloro che alimentano i razzismi e le paure; coloro che, per personali egoismi economici e con leggi fiscali apposite, pensano di arricchire ulteriormente i ricchi e di impoverire ulteriormente i poveri; coloro che dicono che non c’è più differenza tra destra e sinistra; coloro che ritengono secondaria la necessità di competenze e di esperienza per guidare un intero Paese; coloro che sono pronti a qualsiasi commistione pur di raggiungere, o di mantenere il potere; coloro che sentono la nostra Costituzione come una gabbia da infrangere per avere maggiori libertà per sé e per toglierle agli altri; coloro che tradiscono la sinistra continuando però a volerne usare il nome come specchietto per le allodole; coloro che hanno ideato questa infame legge elettorale e coloro che hanno contribuito a farla approvare; coloro che con tutta probabilità hanno creato schieramenti che non supereranno il 3 per cento dei suffragi e che, quindi saranno la causa del fatto che i voti di quelli che li hanno scelti finiranno dispersi (se saranno meno dell’uno per cento), o andranno ai partiti più forti delle cosiddette coalizioni; coloro che dicono che si dovrà tornare a votare subito senza prima cambiare questo indegno Rosatellum pensando che sarà il popolo ad arrendersi per sfinimento e non loro a dover togliersi dal centro decisionale di una democrazia di cui non sono degni.

Resta poco? D’accordo, ma qualcosa resta: almeno il diritto di dire che con alcuni non siamo per niente d’accordo e, facendo così, di porre le basi perché qualcosa finalmente cambi. Anzi, se ci pensate un momento, sarete d’accordo con me: non si tratta tanto di un diritto, quanto di un dovere.

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mercoledì 21 febbraio 2018

Amore ferito

Mercoledì 14 febbraio, contemporaneamente ricorrenza di San Valentino e giornata delle ceneri, la presidentessa del Lions Club Udine Castello, Alma Maraghini Berni, mi ha invitato a tenere una lunga conversazione sul tema “Amore ferito”. Ve la propongo. 


Quando la vostra presidentessa mi ha indicato l’Amore ferito” come tema per la chiacchierata della serata di San Valentino, mi sono reso conto che di affrontare questo argomento mi è capitato soltanto occasionalmente, e abbastanza di sfuggita pur nel mio quasi mezzo secolo di professione, e, quindi, ho provato ad avvicinarmici gradatamente, cercando punti di vista per me inconsueti e stando attento a non infarcire la serata di luoghi comuni, o di considerazioni prettamente personali. Ma soprattutto ponendomi l’obbiettivo di rispondere a due domande. La violenza nasce soltanto da rapporti di forza, fisica o psicologica che sia, squilibrati? E, ancora più importante, stiamo sempre parlando di amore?

Vi chiedo, quindi, di accompagnarmi con pazienza in questo percorso la cui prima tappa è costituita da una curiosità da soddisfare: chi era San Valentino che, tra l’altro, è anche protettore degli epilettici ed è capace – giurano a Chiasiellis e a Zoppola – di scongiurare grandine e tempeste durante i temporali. Ma a noi interessa soltanto perché è diventato patrono degli innamorati. Vissuto nel II secolo, divenne vescovo a soli 21 anni e poi morì martire per decapitazione, dopo l’immancabile tortura, vicino al ponte Milvio. Secondo alcune fonti Valentino sarebbe stato giustiziato perché aveva celebrato il matrimonio tra una giovane cristiana e un legionario romano pagano: la cerimonia avvenne in fretta, perché la giovane era malata, e i due sposi morirono, insieme, proprio mentre Valentino li benediceva. E questa è la prima versione, non propriamente consolante, del perché San Valentino sia legato agli innamorati.

Però ci sono anche racconti più romantici. In uno il vescovo, passeggiando, vide due giovani che stavano litigando e andò loro incontro porgendo una rosa e invitandoli a tenerla unita nelle loro mani: i giovani si allontanarono non solo riconciliati, ma addirittura innamorati, mentre numerose coppie di piccioni – piccioncini, appunto – svolazzavano loro intorno scambiandosi sfioramenti e beccatine d’affetto. In un altro il santo avrebbe donato a una fanciulla povera una somma di denaro necessaria come dote per il suo sposalizio, evitando che la ragazza, priva di sostanze, rischiasse la perdizione.

La realtà, però, è probabilmente molto meno romantica. Le origini di questa festa, infatti, potrebbero risalire al IV secolo, quando fu introdotta per sostituire e far dimenticare la festa dei Lupercalia, gli antichi riti pagani dedicati al fauno Luperco, protettore della fertilità, che si celebravano il 15 febbraio e prevedevano festeggiamenti sfrenati, in aperto e netto contrasto con la morale e l’idea di amore dei cristiani. In particolare, il clou della festa si aveva quando le matrone romane si offrivano, spontaneamente e per strada, a gruppi di giovani che scorrazzavano nudi. Anche le donne in attesa si sottoponevano volentieri al rituale, convinte che avrebbe fatto bene alla nascita del futuro pargolo. Per creare la festa di un amore molto diverso, papa Gelasio I, nel 496, decise di spostarla al giorno precedente, già dedicato a San Valentino, facendolo così diventare automaticamente il protettore degli innamorati.

Comunque della giornata di San Valentino si parla da moli secoli. Nel 1601 Shakespeare, nell’Amleto”, durante la scena della pazzia di Ofelia, fa cantare la fanciulla vaneggiante: «Domani è san Valentino e, appena sul far del giorno, io che son fanciulla busserò alla tua finestra; voglio essere la tua Valentina». Ma risale addirittura a circa tre secoli prima un manoscritto in cui l’inglese Geoffrey Chaucer raccontava come nel giorno di San Valentino gli uccellini iniziassero le loro danze d’amore. A Parigi, il 14 febbraio 1400, fu fondato l’Alto Tribunale dell’Amore, un’istituzione ispirata ai principi dell’amor cortese che aveva lo scopo di decidere su controversie legate ai contratti d’amore, ai tradimenti, e – già quella volta – alla violenza contro le donne. Curioso il fatto che i giudici erano selezionati sulla base della loro familiarità con la poesia d’amore. E la più antica “valentina” di cui sia rimasta traccia fu scritta da Carlo d’Orléans, all’epoca detenuto nella Torre di Londra dopo la sconfitta alla battaglia di Agincourt nel 1415. Carlo si rivolgeva a sua moglie, Bonne di Armagnac, con le parole: «Anche qui io sono preda dell’amore, mia dolcissima Valentina».

Non possiamo, però, dimenticare che oggi è anche il mercoledì delle ceneri, il giorno in cui comincia la Quaresina che ci porterà a quel Giovedì Santo che, in qualche modo, ci ricollega, anch’esso, al titolo della serata – “Amore ferito” – perché nulla può ferire un amore, di qualsiasi genere sia, più di un tradimento; proprio come quello compiuto da Giuda il giovedì.

A questo punto, appoggiandoci al concetto di tradimento, potrebbe apparire naturale inoltrarsi nello sterminato campo dei problemi psicologici ed etici che sono il brodo di cultura nel quale prosperano quelle violenze sulle donne e quei femminicidi che quotidianamente rattristano le nostre cronache.

Ma, prima di entrare nel rapporto tra violenza e amore, credo sia necessario dare una dimensione un po’ più definita al fenomeno delle prepotenze sulle donne, anche se va rilevato che in molti casi il rapporto con l’amore non esiste nemmeno a scopo di presunta giustificazione. È proprio di ieri un rapporto Istat nel quale si sottolinea che si stima, ma ovviamente per grande difetto causato dalla vergogna a denunciare, e anche soltanto a confidarsi, che siano quasi 9 milioni, circa il 44 per cento, le donne fra i 14 e i 65 anni che nel corso della vita abbiano subito una qualche forma di molestia sessuale e che siano oltre 3 milioni quelle che le hanno subite negli ultimi tre anni. Non solo: nel corso della vita più di un milione e 173 mila donne sono state vittime di ricatti sessuali sul luogo di lavoro per essere assunte, per mantenere il posto, o per ottenere progressi di carriera. E stupisce, ma solo a prima vista, che la maggior parte di questi fatti sia accaduta nel settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche, seguite da quello del lavoro domestico. Tra l’altro, se nel loro insieme i dati sulle molestie sulle donne negli ultimi anni risultano in diminuzione, sono invece stabili i ricatti sessuali sul lavoro.

Quindi, prima di soffermarci su problemi psicologici ed etici, mi appare necessario un passaggio di tipo educazionale che si riferisce a qualcosa di ben più materiale della psicologia e dell’etica e che può essere completamente estraneo a qualsivoglia implicazione sentimentale. E mi riferisco al corpo.

A nessuno sfugge che qualunque nostra fotografia non ci mostra in maniera completa e assoluta, ma soltanto come siamo in quel determinato momento; e sappiamo bene che, a meno di eventi traumatici, nessuno si accorgerà del cambiamento sopravvenuto anche soltanto un giorno dopo; ma siamo ben consci che quel cambiamento inevitabilmente ci sarà stato, in quanto ogni contatto con l’esterno ci trasforma perché il corpo, anche se questo può apparire sorprendente, non è un’entità finita, né definita. E quello che vale per il corpo, vale anche per la mente e per il cuore.

Ma forse ancora più stravolgente, se guardiamo al corpo pensando alla realtà della società in cui viviamo, alle sue leggi scritte e non scritte, è il fatto che ci rendiamo conto che noi non siamo gli esclusivi padroni del nostro corpo.

E partiamo proprio dall’effettiva titolarità del nostro corpo domandandoci cos’altro è la violenza sulle donne, sui bambini, sui malati, sugli handicappati, sui deboli in genere, se non l’impadronirsi del corpo di un altro? E di cos’altro parliamo, se non di questo, quando ci dobbiamo confrontare con il ritorno della cultura della violenza e della tortura nelle istituzioni del nostro Paese? Sono ragionamenti spinosi, e probabilmente divisivi, ma che, a prescindere da come una la pensi, non possono essere sottaciuti. Pensiamo alla giustizia fai da te vista in questi giorni, ma anche, per esempio, alla Diaz di Genova, o a Cucchi morto martoriato mentre era in custodia cautelare. E non perché sia lecita la violenza – diciamo così – privata, ma perché mentre quella suscita inequivocabile riprovazione, quella praticata delle istituzioni rischia, pur se in limitate circostanze, di far passare il messaggio di una sua presunta liceità.

Soffermiamoci anche a riflettere sul fatto che a suo tempo il corpo di Eluana Englaro e quello di Piergiorgio Welby sono diventati campi di battaglia su cui, a prescindere dalle rispettive posizioni, si sono affrontati, spesso disinteressandosi della volontà dei diretti interessati e dei loro familiari, politica, Chiesa, scienza medica, gruppi di pressione di vario tipo. E realizziamo anche che sono sempre piccoli e inessenziali particolari del corpo, come il colore della pelle, il taglio degli occhi, o il tipo di capelli, che portano alle discriminazioni, ai respingimenti, alle moderne schiavitù, al sempiterno razzismo.

Il corpo, insomma, è un elemento centrale della discussione pubblica e i vari orientamenti politici e sociali derivano soprattutto da due modi principali di interpretare la vita: il primo ne considera preminente la sacralità perché ritiene che la vita discenda da Dio e che, quindi, non sia disponibile da parte del soggetto che la riceve in dono, né, ovviamente, da parte di altri; il secondo, invece, antepone a tutto la libertà in quanto ritiene che la vita emerga, diciamo così, dal basso e che, quindi, sia totalmente disponibile da parte di chi la riceve in sorte.

Ed è proprio su questi scivolosi argomenti che la società ha sempre mostrato il massimo dell’ipocrisia. Non entriamo in considerazioni etiche, ma se c’è davvero tanto rispetto per il corpo da opporsi, anche con la forza, a decisioni individuali come il suicidio, o il lasciarsi morire per mantenere intatta la propria dignità, perché questo rispetto scompare del tutto davanti a cose molto simili, ma decise dall’alto come le guerre, gli sfruttamenti, le discriminazioni? Viene quasi il dubbio che il disegno più importante sia proprio il fatto che la vita e il corpo non restino nelle mani di coloro cui quel corpo davvero appartiene, ma che passino nelle disponibilità di chi detiene il potere.

Credo, insomma, che non potremmo capire bene il rapporto tra corpo e società, e, per quello che questa sera ci interessa, tra amore e violenza, se trascurassimo inizialmente il fatto che il nostro involucro di pelle, carne e ossa è anche oggetto di una continua rappresentazione e manipolazione che ha fatto sì che il corpo, per definizione sede dell’umano, oggi sembri essere diventato una specie di luogo di transizione che spossessa il corpo stesso dal suo reale padrone.

Culture e religioni spesso hanno vietato la rappresentazione del corpo umano, o l’hanno manipolato e cambiato. Pensiamo ad antiche pratiche corporee di tipo sacrale, come la circoncisione e l’infibulazione. Pensiamo alle mostrificazioni tribali di orecchie, nasi, colli e corpi, a deformità varie, tra l’altro quasi sempre non accessibili a tutti, ma usate per segnalare cariche particolari, potere, ruoli sociali, rapporti privilegiati con il sacro. Nella modernità li abbiamo sostituiti con elementi come paramenti sacri, o corone, gradi sulle maniche, o fregi sui cappelli, perché comunque il corpo, con le sue appendici, resta un immediato strumento di identificazione di una persona con un sistema di segni e informazioni.

Ma oltre che per il potere e per la sacralità, il corpo viene manipolato per funzioni culturali. Ricordiamo i piedi deformati delle donne cinesi, o i colli allungati, le labbra, le narici, le orecchie allargate di alcune tribù, le perforazioni e le scarificazioni. O, per venire ai giorni nostri, pensiamo ai tatuaggi e ai piercing che sono strumenti per far vedere agli altri il modo in cui si vuole essere percepiti. Pensate al trucco delle donne, cosa normale e comunissima, che vuole far passare un’immagine di corpo che è diversa, poco o tanto che sia, da quella reale, quasi sempre per scopi di attrazione. E la stessa cosa, anche se in forme un po’ diverse, accade anche per gli uomini.

Facciamo ancora un passo in avanti e pensiamo alla pubblicità martellante che fra un po’ vorrà ricordare a tutti che torna l’estate, che l’estate è spiaggia, che spiaggia vuol dire esposizione del proprio corpo e che, quindi, si postula l’obbligo di prepararlo attentamente a questa particolare forma di comunicazione. E lo si fa con diete e ginnastiche tonificanti. Ma certi arrivano addirittura alla chirurgia plastica. L’amore, per altri o per se stessi, resta sempre sullo sfondo, ma siamo proprio sicuri che non sia, magari gravemente, già ferito?

Comunque, anche se non sono pochi coloro che tentano di riappropriarsi del proprio corpo in maniere diverse da quelle del passato, alcuni cedono il possesso del proprio corpo alle regole imposte dalle tradizioni, dalle mode e dal mercato. E, se passa il concetto che io accetto di non essere più padrone del mio corpo, contemporaneamente non può non passare anche l’idea che qualcuno pensi di poter impadronirsi di quei corpi che sono ormai senza padrone.

E in più, pur se extracorporei, si sono aggiunti anche altri aspetti che possono mettere in crisi la reale proprietà del proprio corpo. Perché lo spossessamento di se stessi può continuare con l’aumento del controllo da parte di altri, conosciuti o non conosciuti che siano; un aumento di controllo che coincide con una cessione di autonomia e, quindi, di libertà.

Pensate soltanto a schiavitù tecnologiche che a prima vista non appaiono tali, ma che sono molto efficaci, come per esempio il cellulare che è tracciabile anche da spento, che è diventato una vera protesi corporea e che , oltre a localizzare in ogni momento il nostro corpo, fornisce una massa impressionante di informazioni che riguardano tutto l’insieme delle nostre relazioni personali, sociali, economiche e le nostre opinioni perché non soltanto mette in evidenza se si telefona a un partito, o a un altro, alla parrocchia, alla sinagoga, o alla moschea, ma fa anche registrare tutto quello che diciamo.

Ogni giorno in Italia si scambiano più di 300 milioni tra sms e telefonate e tutto – anche i più intimi sussurri d’amore – viene trattenuto e registrato. Questo, si dirà, riguarda esclusivamente le forze dell’ordine, ma è vero solo in parte perché non soltanto ci sono dei programmi che permettono, non troppo legalmente, anche ai privati di accedere a dati teoricamente coperti da privacy. Ma non basta, perché moltissimi fanno a gara a pubblicizzare volontariamente tutto quello che sono e tutto quello che fanno sui cosiddetti social, senza rendersi conto che in internet la parola “amicizia”, ha un significato profondamente diverso da quello della vita reale dove, comunque, è già abbondantemente inflazionato. Quindi in questa maniera quasi ci sdoppiamo: il nostro corpo elettronico si separa da quello fisico e non è più un’entità finita e definita perché finisce per esistere anche un corpo virtuale ed elettronico che non può non falsare la nostra immagine reale; che non ci consente di essere valutati in tutta la nostra capacità e complessità. E che può portare a situazioni di grande pericolo.

A tale proposito, tornando ai dati Istat, si evince che il 6,8% delle donne ha avuto proposte inappropriate o commenti osceni o maligni sul proprio conto attraverso i social network e all'1,5% è capitato che qualcuno si sia sostituito per inviare messaggi imbarazzanti, o minacciosi, od offensivi ad altre persone.

Insomma, non ci sono più soltanto le superiorità di forza fisica, di censo, di potere sociale a determinare il sopruso da parte del più forte, ma oggi a creare quella differenza che permette, se non induce, la violenza si sono aggiunte delle cause che annichiliscono e disumanizzano ulteriormente il più debole.

E veniamo alla seconda domanda: se parliamo di “amore ferito”, stiamo sempre parlando di amore? A prima vista la risposta dovrebbe essere un ben no, tondo ed esplicito. Magari accompagnandola con la parafrasi di una famosa frase di Jean-Jacques Rousseau che diceva che «di tutti gli attributi di una divinità onnipotente, la bontà è quello senza il quale non la si potrebbe neppure concepire». Sul nostro argomento potremmo affermare, invece, che «di tutti gli attributi di un amore, la violenza è quello che sicuramente ne negherebbe l’esistenza».

Ma ovviamente il discorso non è così semplice perché l’amore non soltanto è un sentimento estremamente complesso, ma anche in quanto sembra che nei secoli si sia fatto a gara per mistificarlo e travisarlo. Magari con alti intenti. Magari da parte di personaggi al di sopra di ogni sospetto.

Prendiamo Dante, per esempio. Chi non ricorda il verso «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»? Siamo nel V canto dell’Inferno della “Divina Commedia”, e Virgilio ha portato Dante davanti a Francesca da Rimini e a Paolo Malatesta. Merita, anzi, ricordare interamente le due terzine che ci interessano e i due versi successivi: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. / Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona / Amor condusse noi ad una morte. / Caina attende chi a vita ci spense».

La storia è quella di Francesca, amante di Paolo, e sposata con il fratello di lui, Gianciotto che scopre il tradimento e li uccide entrambi. Dante, insomma, parla di un femminicidio e di un fratricidio; eppure per lui a dominare su tutto è il concetto di amore, tanto che, in forma sostantivale o verbale, lo usa ben cinque volte di cui tre addirittura nello stesso verso. Ma qual è il vero amore: quello passionale che – dice lui – non consente a una persona che sia davvero amata di non ricambiare il sentimento, oppure quello consacrato dal sacramento del matrimonio che non consente di amare nessun altro? Non c’è, poi, una contraddizione in termini in quel «amor ch’a nullo amato amar perdona», che diventa assurdo se uno è amato contemporaneamente da due, o più, persone diverse? Ed è davvero possibile che un tradimento porti allo stesso posto – l’Inferno – di un omicidio? Se davvero esiste un aldilà e se davvero ci dovesse essere un sistema premiale e punitivo per ciò che si è fatto in vita, è mai possibile che Dio, nella sua onnipotenza e, quindi, nella sua infinita saggezza, incaselli tutto in due uniche categorie finali: innocenti e colpevoli? Perché, al di là del fatto che tutti noi sappiamo bene di avere tanti grigi, si ha un bel dire che fuoco, ghiaccio o escrementi sono cose ben diverse; ma passarvi immersi l’intera eternità rende praticamente identica la pena.

Sono domande che richiedono una risposta impossibile, più che difficile; e, infatti, anche il povero Dante non sa che dire; sa soltanto che prova così tanta pietà per i due spiriti che ha davanti da perdere i sensi: «…sì che di pietade / io venni men così com’io morisse. / E caddi come corpo morto cade».

Ma se vogliamo riallargare i confini dell’amore e abbandonare le contraddizioni indotte dal cristianesimo, ci conviene retrocedere nel tempo fino a imbatterci nella distaccata concretezza greca. Platone, nel “Simposio”, dice che l’amore è un’espressione della follia, e spiega che noi siamo fatti di una parte ragionevole e una folle e che alla nostra parte folle possiamo accedere soltanto con una forma di conoscenza non razionale perché la ragione è impotente a capire la follia. Possiamo arrivarci – dice – attraverso l’erotica, che poi è la stessa strada che porta una madre a capire i bisogni di un neonato che non parla: lo comprende attraverso mediazioni di un amore che è “atopia”, che si colloca fuori dal luogo della ragione e che è figlio di povertà, trasgredendo la tradizione greca che lo faceva figlio di Afrodite, Venere per i latini, dea della sessualità, e di Ares, Marte, dio dell’aggressività. Platone sostiene che l’amore è figlio di povertà perché è una dimensione di quel desiderio che, in definitiva, è sintomo di mancanza e che, quindi, produce una tensione verso l’altro che fa scoprire dell’altro un’infinità di cose che, senza quella tensione desiderante, non avvertiremmo neppure lontanamente. Quindi, nel momento della nostra irrazionalità amorosa, possiamo diventare più capaci di capire l’irrazionalità nostra e altrui; diventiamo cioè più razionali anche rispetto a un mondo irrazionale. Con l’amore posso entrare nella mia follia e posso esprimerla. E, del resto, riferendosi all’amore, comunemente si dice «Ho perso la testa», o «Mi fai impazzire».

E Platone arriva anche a dire che l’amore è assolutamente lontano da qualunque vizioso concetto di possesso dell’altro; quindi da ogni aggressività e da ogni violenza. Anzi dal dialogo del filosofo greco si desume che ogni gesto d’amore è un tentativo di ricomposizione. E, a tale proposito, l’etimologia ci viene, premurosa, in aiuto. La parola “sesso”, infatti, deriva dalla parola “nesso”, che significa connessione. E non è senza importanza che in tutte le lingue indoeuropee la radice “nek” abbia a che fare con la parola “conoscenza”. Del resto anche la Bibbia, quando vuol indicare che due fanno l’amore, dice che si sono conosciuti. Conosciuti “biblicamente”, diciamo noi, appunto.

Insomma, da qualunque parte lo guardiamo, anche da quello della follia, l’amore è la negazione della violenza. Ma, allora, se in Italia ogni anno in numero dei femminicidi è superiore a 140 (quasi uno ogni due giorni) e se quello delle violenze domestiche è talmente elevato da sfuggire a qualsiasi tentativo di darne una dimensione numerica, anche soltanto per gli episodi denunciati che sono soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno enormemente più diffuso, il tutto deve forse essere associato a una grande varietà di mancanze, diciamo così, etiche? È possibile che tutto dipenda da un momento storico in cui dominano l’edonismo, la ricerca di divertimento e di svago a prescindere dalle conseguenze per sé e per gli altri; in cui dilaga una superficialità legata a un presente cannibale, che non è in grado di pensare strategicamente al futuro e che deliberatamente preferisce non conoscere e comunque non considerare il passato?

Non ci sono dubbi sul fatto che nell’amore ci sia sicuramente bisogno di etica e che, dunque, non abbia fondamento quella cultura, per certi versi dominante, che sostiene che al cuore non si comanda e che, quindi, nell’amore non ci possano, né debbano, esistere obblighi di tipo morale. Altrimenti, tra i tanti limiti che vengono soppressi, c’è anche quello che impedisce gli sconfinamenti nel possesso e nella violenza.

Ma approfondiamo ancora il nostro tema e, non sottovalutando il fatto che ogni volta in cui diciamo «Ti amo», a ben guardare, puntiamo a tranquillizzare non soltanto l’oggetto del nostro amore, ma anche noi stessi, andiamo a scandagliare alcuni aspetti dell’amore: quelli che, forse, possono riuscire a spiegare tanti eccessi praticati tentando di nascondersi indegnamente dietro il suo nome. Mentre, come scriveva Ungaretti, «Il vero amore è una quiete accesa».

Prendiamo la passione, per esempio, sulla quale a Illegio fino a pochi mesi fa era aperta una mostra intitolata “Amanti. Passioni umane e divine. Cos’e? l’amore?”, sulla quale recentemente sono venuti a parlare in sala Ajace, chiamati dalla vostra presidentessa, i due organizzatori, monsignor Angelo Zanello e don Alessio Geretti. In una visione artistica e non esclusivamente ecclesiastica, la mostra ha voluto sottolineare che saper amare e saper vivere sono la stessa cosa e che tutti i cicli narrativi su cui si basa la nostra civiltà testimoniano che è proprio l’essenza dell’amore a dare consistenza alla nostra vita, trascinandola attraverso storie struggenti e sublimi, mitiche e reali, sensuali e spirituali, tenere e torbide, romantiche e violente. E in tutte, pur traguardate attraverso una visione religiosa e sacrale, non può non emergere un giudizio sulla qualità di questo amore che, puntando a un sentimento più forte della morte, respinge proprio quella violenza che della morte, intesa come dissoluzione, è prodromo.

Guardandola da un punto di vista schiettamente laico, invece, le cose cambiano un po’. Umberto Galimberti, con quel suo rigoroso gusto per l’apparentemente paradossale, afferma che «Non conosciamo più la passione perché l’abbiamo affogata nel sesso che, nel corpo a corpo, annulla la distanza di cui la passione si alimenta. Finché la generazione non si stancherà del sesso – dice – sarà difficile reperire passioni in quella forma eroica e sublime che l’età romantica conobbe e seppe distinguere dall’amore». Ma lo dice quasi con scettico sollievo, in quanto, continua, «A differenza dell’amore, la passione non ubbidisce a regole, ignora il governo di sé, risponde a un’attrazione violenta che non conosce il limite, non si alimenta di progetti e costruzioni, ma cammina nelle prossimità del sacrificio di sé, sino a fiancheggiare la morte, perché, in preda alla passione, indiscernibile diventa il confine tra la forza del desiderio che trascina e la morte che chiama».

E la passione può continuare la sua creazione fantastica soltanto se ad alimentarla sono il dubbio e l’incertezza. Però, sciolta dalla realtà, inevitabilmente la passione può farsi inquieta, esponendosi al gioco dell’illusione e della delusione, e nutrendosi di speranze insoddisfatte. Talvolta questo continuo procedere sul filo del rasoio fa perdere il controllo di sé, in una situazione che non conosce mediazioni, né adeguamenti, ma quasi soltanto irriducibilità e sofferenza del non possesso, e che può portare gli amanti a una condizione in cui diventano alieni a se stessi, e anche stranieri l’uno per l’altro.

È la passione, insomma, la causa di tante ferite, di tanti lutti e sofferenze? È qualcosa da evitare, o addirittura proibire come vogliono fare la maggior parte delle religioni? Non è detto; in quanto, se la passione riesce a evitare il proprio suicidio, allora quell’amalgama di immaginazione e di emozione che scatena è la prima forza che consente a ciascuno di prefigurare una felicità al di là della pigra rassegnazione, di costruirsi una visione del mondo più luminosa di quella offerta dall’opacità del reale. E pensiamo a cosa sarebbe il mondo se nessuno ne avesse sognato uno migliore, se nessuno fosse stato disposto a sopportare umiliazioni e dolore perché accadesse qualcosa di meglio rispetto agli scenari che la prudenza della ragione e il calcolo del realismo prefigurano per una teorica sicurezza che cancella ogni utopia. George Bernhard Shaw disse: «L’uomo ragionevole si adatta al mondo; l’irragionevole insiste nel tentare di adattare il mondo a sé. Quindi, ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole».

Ho già citato più volte il concetto di possesso che tende a instaurarsi quando la passione non approda all’immedesimazione con la persona amata e che, come ho detto parlando del corpo, porta a credere che il corpo dell’amata, o dell’amato, non sia più nella disponibilità del suo vero e unico proprietario.
Ma il processo di espropriazione continua a convivere con quello di riappropriazione dando vita a un conflitto complesso e aperto che va seguito con attenzione e che, per non sfociare in esiti drammatici, va collocato nel sistema dei nostri valori etici, sociali e culturali. Il possesso, comunque, riduce alla persona amata le possibilità di relazioni, fino a sacrificarla nello spazio ristretto in cui l’assillo dell’amante la imprigiona. In questo assedio, a essere sacrificata non è soltanto la persona amata, ma anche l’amante che, a sua volta, riduce le sue relazioni con il resto del mondo e il significato della propria esistenza al puro e semplice possesso dell’amato con estremizzazioni che possono investire anche il campo dei rapporti di forza e portare, appunto, alla violenza.

Poi, prima o dopo, se non causa danni, la brama di possesso cessa, ma soltanto perché si estingue la passione a lei legata che, in realtà non era amore per l’altro, ma perverso amore di sé. Però normalmente non scompare quella gelosia che praticamente tutti abbiamo provato e che non è, pur essa, un segno d’amore, ma quasi sempre una specie di bisogno di tirannia che, se non è subito individuato come tale, diventa difficilissimo da estirpare anche perché è un tormento che attorciglia l’anima e finisce per alterare la percezione, l’attenzione, la memoria, il pensiero e il comportamento.

Shakespeare, nell’“Otello”, fa dire a Emilia: «Per i gelosi non c’è una cagione: son gelosi perché sono gelosi, e tanto basta. La gelosia è un mostro che si genera da sé, è figlia di se stessa». E Jago rincara: «Guardatevi, signore, dalla gelosia: è il mostro dagli occhi verdi che irride al cibo di cui si nutre». Alcuni sociologi sostengono che in origine la gelosia non era un evento connesso all’amore, ma un requisito che garantiva le condizioni di sopravvivenza. Attraverso la gelosia, infatti, il maschio, che ha sempre considerato il corpo della donna come una sua proprietà, si tutelava dal rischio di allevare figli non suoi, mentre la donna, grazie alla gelosia del maschio, garantiva per sé e per la sua prole cibo e sicurezza. Sarà vero, ma poi sicuramente la sua natura è cambiata perché altrimenti ancora oggi questo sentimento dovrebbe trovare più posto nelle società povere, nelle economie di sussistenza, mentre invece si allarga a tutti i ceti sociali.

A complicare il quadro c’è il fatto che alcuni gelosi indirizzano la propria ostilità contro il partner e altri contro il rivale. Molti psicologi, tra cui soprattutto Freud, hanno tentato di analizzare questo sentimento andando a collocarne quasi sempre la nascita tra i piccoli o grandi traumi dell’infanzia, ma a noi, più delle cause interessano le conseguenze, anche culturali, che, in molti luoghi e in molte epoche hanno portato e portano a conseguenze degradanti per le donne, come l’accertamento della verginità, o le pratiche crudeli di mutilazione dei genitali femminili, in una sorta di odiosa gelosia preventiva.

È una specie di “cannibalismo sentimentale”, che vuole divorare l’essere amato affinché nessuno possa più sottrarcelo, e che, quando si esce dall’ambito metaforico, diventa violenza, anche omicida. E così, di quello che una volta era un grande amore, rimane soltanto un titolo di cronaca con foto della vittima, magari sorridente, e ancora ignara di quello che le accadrà. Si è voluto suggellare con il nulla la fine di un amore. E non sono rari i casi in cui la follia rende anche tanto orgoglioso del suo misfatto l’assassino da farlo autoaccusarsi subito, cercando quella che lui considera una gloria, su Facebook, o su altri social.

Se la gelosia, comunque, è motivata, allora arriviamo al tradimento che offende chi è tradito, ma ravviva, in chi tradisce, la fiducia in se stesso. Il vero problema, però, è che non esiste tradimento se non all’interno di un rapporto d’amore. A tradire infatti non sono i nemici e tanto meno gli estranei, ma i padri, le madri, i figli, i fratelli, gli amanti, le mogli, i mariti, gli amici. Solo loro possono tradire, perché è su di loro che un giorno abbiamo investito il nostro amore.

E non importa neppure quale sia l’oggetto d’amore: un uomo, una donna, un amico, la famiglia, la Chiesa, la legge, i rapporti con i nostri simili e persino il rapporto con Dio. A riguardare i nostri sacri testi, troviamo molti tradimenti: Adamo cacciato dal paradiso terrestre, Giobbe tradito da Dio, Mosè a cui è negato l’ingresso nella Terra promessa, Gesù tradito da Giuda e lasciato dal Padre a morire sulla croce («Elì, Elì, lammà shabctani» (Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?). Tutti rinviano a uno scenario simbolico in cui forse neppure Dio vuole che l’uomo cresca in una fiducia incondizionata, perché in questo tipo di fiducia totale non offre la coscienza del bene e del male.

Mentre, invece, il male bisogna incontrarlo, e talora lo si trova proprio dove neppure lontanamente ne sospetteremmo la presenza. Nella fiducia originaria, come in quella dei bambini, infatti, non c’è traccia del male, anzi neppure il sospetto, perché quando la realtà non appare nel suo doppio, non nasce il dubbio. E ancora una volta l’etimo si rivela un prezioso alleato perché va notato anche che «doppio» e «dubbio» hanno la stessa radice, cosa che appare ancora più evidente in tedesco con “zwei” (due) e “Zweifel” (dubbio). Il dubbio, insomma, quello che spezza la fiducia originaria, nasce come duplice aspetto, come doppia essenza di ogni realtà.

Cartesio può sconfiggere il «diavoletto maligno» che gli insinua dubbi nella mente e può superare il dubbio solo perché lo affronta basandosi su quel «cogito», quel “penso”, che giustifica e dà sostanza all’«ergo sum», all’esistenza di ognuno di noi. E anche in questo il concetto di doppio balza in evidenza in quanto la parola “diavolo” deriva da “dia-bállein”, che significa “divaricare”, riferito alla coscienza, dilaniata tra il bene e il male, tra il vero e il falso, ma soprattutto dall’allontanamento da quell’epoca giovanile e felice in cui tutto era buono, bello e giusto e la fiducia era una costante naturale.

Se esaminiamo le possibili reazioni al tradimento, all’opposto di quella, umanamente molto difficile, del perdono, per prima cosa troviamo la vendetta, che è una risposta emotiva che salda il conto e, se è immediata non ha altro significato se non quello di scaricare una tensione, mentre se è procrastinata imprigiona in fantasie di astio e crudeltà. La vendetta, insomma, rattrappisce l’anima. E lo si vede anche, se non soprattutto nelle vendette praticate tramite i social in cui immagini di momenti di amore vengono pubblicate trasformandole in pornografia e, quindi, in spietate accuse di immoralità che il vendicatore immagina si rivoltino soltanto contro l’ex amato e non anche contro se stesso che evidentemente si ritiene, in quanto presuntamente offeso, al di sopra di ogni giudizio morale altrui. E la violenza di questo gesto informatico non è inferiore a quella che avverrebbe con un vero contatto fisico, in quanto non di rado porta al suicidio di chi non resiste alla vergogna di sentirsi esposta alle critiche di presunti benpensanti molto più capaci di stigmatizzare peccati di tipo sessuale che peccati contro le persone.

C’è poi il meccanismo della negazione del valore dell’altro che prima era stato idealizzato. Si passa infantilmente dall’amore cieco al cieco odio. Più pericoloso è il cinismo, che non solo nega il valore dell’altro, ma addirittura quello dell’amore e si finisce per ridurre in cocci anche i rapporti che con quell’amore ferito, anzi, ormai morto, nulla avevano a che fare. La negazione di un tradimento altrui, insomma, può diventare il tradimento di se stessi e di quello che fino a quel momento si è stati.

E forse è proprio per uscire da un posticcio e inaccettabile disprezzo per se stessi che si arriva all’odio. Fin dall’antichità si è tentato di presentare l’amore e l’odio come due sentimenti che sempre si attorcigliano e si avvinghiano tra loro. Catullo, per esempio, in uno dei suoi Carmi, scrisse: «Odi et amo», che significa «Odio ed amo» e prosegue: «Perché lo faccia, mi chiedi forse. / Non lo so, ma sento che succede e mi struggo». È vero che i due sentimenti albergano nella stessa persona, ma credo mai contemporaneamente: è quando l’amore scompare e lascia spazio all’odio che si verifica la maggior parte dei crimini passionali.

Ma da dove viene l’odio? E perché raggiunge le sue espressioni più truculente proprio nelle relazioni cominciate con l’amore?

I pessimisti ritengono che gli esseri umani siano violenti per natura. Nel Seicento il filosofo Thomas Hobbes diceva che «Homo homini lupus» (L’uomo è lupo per gli uomini); più recentemente l’etologo Konrad Lorenz ha assimilato l’aggressività a una forza indomabile come la fame, che è utile per la sopravvivenza, per la difesa del territorio, per assicurare un vantaggio sessuale al più forte, per fornire una base alla nascita di una leadership. E, infatti, se non ci sono guerre da combattere abbiamo bisogno di sport competitivi per esprimere la nostra aggressività, se non abbiamo nemici evidenti dobbiamo crearcene di fantastici.

Gli ottimisti, dal canto loro, ritengono che gli esseri umani siano per natura, se non proprio amorevoli, senz’altro socievoli, per cui l’aggressività non scaturisce dal nostro interno, ma ci contamina dall’esterno. Così la pensava Jean-Jacques Rousseau, secondo il quale gli uomini sono buoni per natura e diventano cattivi vivendo in società, come risposta alla frustrazione delle loro intenzioni, per natura benigne.

In ambito sociale, vista con gli occhi di Hobbes, l’aggressività è l’espressione inevitabile del desiderio umano di potere e di dominio e l’amore è solo un breve interludio di pace nelle relazioni naturalmente bellicose. Vista con gli occhi di Rousseau è la risposta alla frustrazione che si estrinseca nella povertà, nell’indigenza e nell’impotenza, frustrazione che, però, può essere lenita proprio con la vicinanza, non soltanto fisica, di altri esseri umani.

Ma in amore la questione non è tanto quella di stabilire se l’aggressività è innata, o reattiva, se è una pulsione autonoma, o è una risposta alle minacce. Le cose sono più complicate, perché in amore la posta in gioco non sono il potere, il denaro, il successo. In amore la posta in gioco siamo noi, noi che amiamo. E l’aggressività è il riflesso dello stato di pericolo in cui versa chi ama. «Quando diventa oggetto del mio desiderio – scrive acutamente Galimberti – la persona amata acquista un potere enorme su di me, e la mia vulnerabilità è direttamente proporzionale alla profondità del mio amore. Anche se non sembra, questa è la storia di ogni serial-killer che uccide le donne perché queste hanno un potere su di lui. Esse, infatti, eccitano il suo desiderio e quindi, ai suoi occhi, detengono il potere sulla sua gratificazione, o sulla sua frustrazione. Vendicandosi, il serial-killer vuole capovolgere la situazione, vuole recuperare la sua dignità. Anche se non siamo dei serial-killer, quando in amore odiamo mettiamo in moto la stessa macchina».

Insomma, bisogna fermarsi prima che l’odio diventi patologia, prima che si trasformi in follia. E qui torniamo a Platone, ma con l’avvertenza che non bisogna leggere Platone in modo “platonico”, cioè ascetico, edificante, diciamo così, “cristiano”. Platone non assimila la mortificazione del corpo alla mortificazione dei piaceri, delle passioni, della sessualità. Platone guarda più in alto, alle regole della ragione e agli abissi della follia e si chiede – e ci chiede – cosa con esse l’anima riesca, o non riesca, a dire. Ed è dove il dire si interrompe che si apre il buio panorama della follia che spesso trae origine dalla coscienza che il possibile supera in maniera eccessiva il reale.

Ed è curiosa, non solo perché mitica, la storia che Platone ci racconta per spiegare l’esistenza dell’amore. «L’antica nostra natura non era la medesima di oggi», dice il filosofo. In principio gli uomini erano l’uno e l’altro, la loro forma era intera e rotonda, «non generavano per reciproca unione, ma per unione con la Terra». Un giorno Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due. Da allora «ciascuno di noi è il simbolo di un uomo» in cui una metà cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente. Per curare l’«antica ferita», Zeus, dopo averla inflitta, inviò Eros, Amore che, tra gli dei è l’amico degli uomini, il medico, colui che può ricondurci all’antica condizione. «Ed è cercando di far uno ciò che è due – dice Platone – che Amore cerca di medicare l’umana natura. Da allora gli uomini si congiungono tra loro e così generano, non più per unione con la Terra, ma per unione reciproca. Mediatore fra gli uomini e gli dei, Amore interviene al limite dell’umano, là dove la nostra storia è cominciata e ancora ci vive dentro come follia rimossa. Chi riesce a toccare questa follia ci affascina e induce in noi quel progressivo cedimento di noi stessi che rende possibile la liberazione dell’antica follia e la realizzazione dell’amore.

È così che Platone erge Amore a simbolo della condizione dell’uomo, «a cui, però – sottolinea – non è concesso distogliere l’occhio dal proprio taglio». Ed è questa è la ragione per cui Amore non è soltanto vicenda di corpi, ma è anche traccia di un’antica lacerazione, e quindi continua ricerca di quella pienezza, in cui ogni amplesso è memoria ma anche tentativo, sconfitta ma anche vittoria, gioia ma anche ferita.

Ed è proprio dentro ogni essere umano che si può trovare la forza per non usare più il pronome “io”, ma per utilizzare quel “noi” che è la chiave necessaria per entrare nel mondo di un amore che non sia possesso, ma che tenda al bene dell’altro. Del resto, Erich Fromm, ne “L’arte di amare”, scrive: «L’amore immaturo dice: “Ti amo perché ho bisogno di te”. L’amore maturo dice: “Ho bisogno di te perché ti amo.”».

Se ci pensate, quello che si imputa al traditore è di essere uscito dal noi, di essere diventato diverso e di muoversi non più in sintonia, ma da solo.

Ebbene, dopo tutte queste parole, queste elucubrazioni e queste escursioni nelle idee, nei ragionamenti e negli scritti di chi sull’amore ha pensato a lungo, possiamo dire di saperne di più? Pur con la grande differenza di anni e di esperienza, che dovrebbero aiutarci a sbagliare di meno, a rendere meno dolorose le nostre illusioni e, soprattutto, a renderci capaci di capire le necessità della persona amata e a soddisfarle, pur con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di un bambino? Assolutamente no: anche un bimbo nato da poco ne sa, istintivamente, esattamente quanto ne sappiamo noi perché l’amore è qualcosa di assolutamente terreno e, insieme, di terribilmente soprannaturale. E, infatti, lo sforzo di trovare un punto di unione, un massimo comun divisore, tra tutti i vari tipi di amore si è rivelata nei secoli un’impresa filosofica che, come difficoltà, potrebbe essere paragonata, in fisica, alla ricerca dell’unificazione delle forze.

Ma se, come il bambino, non sappiamo cosa bisogna fare, noi adulti sappiamo benissimo, invece, cosa non si deve fare per evitare di ferire un amore, o, addirittura, di ucciderlo. E se, invece, lo facciamo, non abbiamo scuse.

Senza mai dimenticare, poi, che la violenza non è soltanto fisica, ma può essere anche verbale e psicologica. E che, a questo proposito, quando noi uomini condanniamo senza mezzi termini i maltrattamenti altrui, molto probabilmente la maggior parte delle nostre mogli può pensare, con ragione, che predichiamo bene, ma razzoliamo un po’ male. E per questo credo davvero che da parte nostra, da parte maschile, ci sia un dovere di scuse individuali, oltre che di quelle di genere.

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lunedì 19 febbraio 2018

Ricordando Thoreau

Mi sembra assolutamente azzeccata la decisione, da parte della Einaudi, di ridare alle stampe un classico della filosofia politica scritto da Henry David Thoreau: quel “Disobbedienza civile” che è stato scritto nel 1849 raccogliendo una serie di interventi pubblici fatti l’anno prima dal giovane filosofo che allora aveva 31 anni. Un testo che ha segnato profondamente il ventesimo secolo, più di quello in cui è stato scritto e nel quale il concetto di obbedienza era molto più vicino a un imperativo categorico totale che a un tratto di consigliabile buona educazione. Un testo che è stato letto e metabolizzato da giganti come Gandhi e Martin Luther King. Un testo che merita l’appellativo di “classico” perché ancora oggi, a 170 anni di distanza, mantiene intatto il suo messaggio e il suo valore.

L’assunto di base sul quale Thoreau poggia il proprio ragionamento è che qualsiasi governo, anche il migliore possibile, non può non limitare profondamente la libertà etica del cittadino, cancellando di fatto quella che Kant definiva «autonomia morale» della persona. Quindi, in una visione del mondo in cui l’etica deve essere anteposta al vantaggio economico e in cui – pur in profonda differenza con l’attuale pensiero politico dominante – i diritti del singolo devono venire prima della massimizzazione dei profitti, per Thoreau – ma fortunatamente non soltanto per lui – la disobbedienza è il primo, necessario passo per tentare di riallineare il mondo esterno con il proprio mondo morale.

Ed è da queste considerazioni – nettamente avversate da chi detiene il potere e contestate anche da spera di conquistarlo, ma apprezzate dagli altri – che discendono direttamente delle domande decisamente accusatorie. Perché continuiamo a non fare nulla se lo Stato è da sempre amministrato nell’interesse di pochi più che dei tanti? Perché dimentichiamo di essere uomini dotati di dignità se ci troviamo senza reagire davanti a leggi che schiavizzano, o almeno non difendono, noi, ma anche altri esseri umani? Perché troppo spesso, per piccini desideri di tranquillità, o per convenienze assortite, seppelliamo in una studiata indifferenza il nostro senso di giustizia?

Davanti a queste rivalutazioni della responsabilità etica individuale è arrivata, come una specie di pugno nello stomaco, una frase di Romano Prodi che, nel rinnovare il suo appoggio a Gentiloni e, quindi, al PD, non si è limitato a esprimere la sua scelta, ma ha affermato che «la democrazia moderna esige raggruppamenti».

Parlo di pugno nello stomaco per tre motivi.

Il primo è che il raggruppamento – che è qualcosa di molto meno sentito e vincolante di un’alleanza fondata su ideali comuni – è proprio la negazione grossolana di ogni analisi etica individuale e della successiva scelta di comportamento.

Il secondo riguarda il fatto che aggiungere l’aggettivo “moderna” al sostantivo “democrazia” non soltanto fa balenare l’idea che il concetto di democrazia non sia un valore assoluto, ma che possa essere anche “antica”, o “moderna”. E che, visto che il concetto di moderno, se non usato in maniera esplicitamente spregiativa, implica un miglioramento, attualmente staremmo vivendo in un periodo di democrazia avanzata. Mentre c’è un generale accordo sul fatto che, invece, la democrazia stia proprio vivendo un momento di profonda crisi.

Il terzo tocca colui che questa frase ha pronunciato: Romano Prodi per il quale avrò sempre grande gratitudine per le due volte in cui ha sconfitto elettoralmente Berlusconi, e grande vicinanza per le tre volte in cui è stato tradito da coloro che avrebbero dovuto essere di sinistra, o di centrosinistra, ma che ora sento decisamente estraneo perché ritiene più importante il valore del “raggruppamento” che i valori del centrosinistra, visto che se il “raggruppamento” non c’è più, questo dipende proprio dal fatto che Renzi, l’attuale padrone del PD, ha tradito quei valori.

E, contemporaneamente a quei valori, ha tradito anche svariate centinaia di migliaia di elettori che hanno dato ragione a Thoreau mettendo in pratica la disobbedienza civile in un modo pacifico, ma clamoroso, anche se i politici hanno fatto finta di non vederlo: rinunciando al diritto di voto piuttosto che votare qualcosa in cui non si crede.


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domenica 11 febbraio 2018

Numeri e non percentuali

Qualcuno mi ha chiesto come mai in piena campagna elettorale sia rimasto per una decina di giorni senza scrivere nulla di politico nel mio blog. Me lo ero già domandato anch’io e mi ero accorto che la risposta è semplice: perché è vero che manca meno di un mese alle elezioni, ma è altrettanto certo che la campagna elettorale non è mai cominciata; e forse non comincerà mai. Siamo, invece, in piena campagna pubblicitaria; ma questa è tutt’altra cosa.

E d’altro canto, se è vero, com’è vero, che i partiti politici sono scomparsi per lasciare spazio a comitati elettorali, non si capisce proprio perché si dovrebbe parlare di politica portando via prezioso tempo e spazio alle réclame che puntano comunque alla conquista di un seggio, magari non seguendo la strada difficile di convincere gli altri di essere il migliore per occuparlo, ma seguendo quella più facile che consiste nel denigrare gli avversari.

Una campagna elettorale promette azioni tese alla realizzazione di obbiettivi ideali; una campagna pubblicitaria illude di regalare un mondo perfetto, ma senza minimamente essere capace di realizzarlo. E, infatti, anche se tutti parlano dei cosiddetti “programmi”, ci si rende conto che le enunciazioni in positivo non potrebbero essere più fumose e vaghe, oltre che pronunciate sottovoce, mentre quelle in negativo, che trasudano astio, se non odio, sono urlate e perentorie, anche se lontane da una realtà immaginabile al di fuori degli incubi che animano le menti di tanti impauriti.

Partiamo dalla destra i cui partiti, pur con diverse sfumature di truculenza, impostano tutta la loro propaganda sulla solleticazione della paura del diverso, come se per definizione il concetto di diverso fosse identico al concetto di cattivo; un diverso che non è individuato soltanto dal colore della pelle, ma anche dalla religione, dalla lingua, dagli orientamenti sessuali, da una certa propensione alla mitezza invece che all’arroganza che tra i giovani può diventare motivo di discriminazione violenta. L’ideale proposto è quello di un Paese in cui tutti siano perfettamente omologati e che la violenza sia assolutamente bandita per i diversi, ma assolutamente legittima, o quantomeno scusabile, per i detentori della purezza di quella parola che sembra essere tornata tristemente di moda: la “razza”. E coloro che sono disagiati, impoveriti, senza speranze? Che vedano, per favore, di non disturbare.

Diverso l’atteggiamento dei Cinque stelle che, con ogni evidenza, non impostano una campagna basata su obbiettivi ideali da raggiungere semplicemente perché non ne hanno. Datisi completamente al mondo informatico, ne sono diventati schiavi a tal punto che è su di loro che i sondaggi sortiscono il massimo effetto, visto che i loro orientamenti politici sono deliberatamente vaghi e vaganti proprio per poterli cambiare velocemente non appena il presunto orientamento rivelato dai sondaggisti indica una direzione nella quale sembra più facile raccattare voti. Su tutto, come sempre svetta il rispettabilissimo obbiettivo dell’onestà, ma al di là del fatto che l’accertamento dell’onestà altrui appare sostanzialmente diverso dall’accertamento dell’onestà propria, ci si dimentica che l’onestà dovrebbe essere il requisito minimo per tutti, pure per i non candidati, mentre da chi si appresta a governare un Paese ci si attenderebbe anche la competenza.

Il PD, a maggior ragione dopo la scelta delle liste elettorali, è ormai soltanto il partito di Renzi, tanto che mi riesce difficile chiamarlo ancora PD, per il timore di offendere l’idea con la quale quel partito era nato. E a Renzi interessa soltanto mantenere il proprio potere, piccolo o grande che sia, indifferentemente se all’interno di uno schieramento di maggioranza o di opposizione. Continua a cercare voti con regalie individuali di decine di euro che non si avvicinano neppure vagamente alla risoluzione di problemi strutturali, ma forse addirittura le allontanano. E tenta di non perderne addirittura tracheggiando sull'antifascismo. E la propaganda si basa sull’elencazione, spesso fantasiosa, se non perfino mitica, delle “magnifiche sorti e progressive” concretizzate negli anni del governo da lui direttamente guidato e di quello successivo, da lui eterodiretto. Di autocritica neppure l’ombra, come se le disuguaglianze non fossero aumentate a dismisura, come se curarsi non fosse diventato più costoso e, quindi, difficile, come se un posto di lavoro precario che impegna qualche ora a settimana fosse identico a un impiego a tempo pieno e indeterminato, come se fosse accettabile una scuola che ormai non dispensa più cultura a nessun livello, ma soltanto libretti di istruzione per vari lavori.

E veniamo alla sinistra che appare quella più silenziosa e rispettosa della necessità di silenzio altrui, mentre dovrebbe essere quella che parla di più, non di illusioni, ma di ideali. Parte dalla bella idea di unire le varie anime della sinistra, ma purtroppo i ritardi accumulati da coloro che ben prima avrebbero dovuto uscire dal partito di Renzi ha portato a lavorare per l’unità proprio mentre le elezioni inducono alla separatezza nella teorica difesa delle proprie peculiarità. Nasce con il commendevole ideale di riportare a votare tutti coloro che a sinistra si sono tanto stufati dei tradimenti perpetrati nei loro confronti da non andare più a votare, ma con questi astensionisti praticamente non parlano perché, dopo aver annunciato mille volte di voler dialogare con movimenti, associazioni e quella società civile, che prima o dopo di essere “civile” finirà per stufarsi, parlano con questa massa indistinta di astensionisti già assodati, o di futuri astensionisti soltanto in poche occasioni, e sicuramente mai quando davvero si tratta di decidere qualcosa perché come sui vecchi tram e come in tutti i partiti, il manovratore non va disturbato.


Manca meno di un mese al voto e difficilmente si potrebbe rimediare ai disastri finora compiuti, ma almeno tentar di far capire che ci si è sbagliati e che comunque si è capito che la strada giusta è un’altra, dovrebbe essere doveroso.

Cari partiti politici, anche se in parte preferite farvi chiamare in maniera diversa e anche se in realtà non siete più tali, se il 5 marzo, a scrutinio compiuto, guardaste ai numeri dei votanti e non alle percentuali, vi accorgereste che avrete perso tutti. E a moltissimi, anche e soprattutto a quelli che per arrabbiarsi ci mettono moltissimo, questa cosa potrebbe anche non importare se non fosse che con voi perde anche l’intera democrazia.

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sabato 3 febbraio 2018

Riscoprendo Bobi Bazlen

Talvolta, per comprendere appieno la portata di un libro che ci si accinge a leggere in vista di una presentazione, conviene cominciare dalla fine; e per “Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste”, scritto da Cristina Battocletti, il primo esame in tal senso non è soltanto promettente, ma anche un po’ preoccupante in quanto fa capire che l’impegno profuso dall’autrice reclama una grande attenzione anche da parte del lettore.
Lunghissimo l’indice dei nomi citati e davvero ponderosa la bibliografia che, oltre a libri, carteggi, saggi, articoli, film e documentari, comprende anche il riferimento a una trentina di interviste effettuate appositamente. Ma se tutto questo riguarda la preparazione del libro e la sua normale realizzazione, a colpire e a sorprendere è quella parte che Cristina Battocletti ha voluto chiamare “Legenda”, nel senso più propriamente etimologico del termine: cose da leggere. Cose che teoricamente rientrano nel novero degli apparati, visto che arrivano anche dopo i ringraziamenti, ma che, invece, non devono essere trascurate in quanto vi sono «confermate o sconfessate le leggende che si sono formate attorno a Bobi Balzen e di cui è facile innamorarsi», come sottolinea l’autrice che chiaramente ha costruito i vari capitoletti proprio durante il corso della scrittura primaria, incuriosendosi di certi aspetti più o meno bizzarri, o misteriosi, e cercando di sceverare il reale dal fantasioso, e di dare ragione di alcuni particolari che, a prima vista, tante ragioni non sembrerebbero avere.

Però, come non sempre accade, in questo caso alla complessità della ricerca propedeutica, che ha impegnato un paio di anni, corrisponde una lettura piacevole, basata su una prosa scorrevole e talvolta sorprendente sulla quale, però, tornerò più avanti, mentre adesso vorrei cominciare la presentazione vera e propria dei quattro protagonisti che danno vita a questo volume edito dalla Nave di Teseo che merita la nostra gratitudine non soltanto per l’attenzione con la quale sceglie le opere da pubblicare, ma anche per il merito avuto nell’intraprendere la propria avventura editoriale ribellandosi a quell’unificazione di una grossa fetta dell’editoria che sicuramente arricchisce chi la realizza, ma altrettanto sicuramente finisce per impoverire il panorama letterario e, quindi, il mondo culturale di un intero Paese.

Il primo protagonista, di cui c’è evidenza nel titolo di copertina, è Bobi Bazlen, il personaggio della cui biografia il libro si occupa e il cui nome per molti anni è stato conosciuto quasi soltanto dagli addetti ai lavori. E anche per la maggior parte di loro è rimasto un involucro importante, ma sostanzialmente vuoto. Di lui generalmente si sapeva che, con Luciano Foà, aveva fondato l’Adelphi, che aveva collaborato con altri editori, tra cui Bompiani ed Einaudi e che, soprattutto aveva contribuito a far conoscere in Italia le opere di Italo Svevo, ma anche di Franz Kafka, Robert Musil, Carl Jung, cominciando a riempire con impegno quel vuoto intellettuale che si era creato con l’autarchia fascista, e facendo così emergere un intero mondo di autori e libri favolosi.

Di padre tedesco, cristiano ma non cattolico, che praticamente non conobbe visto che morì l’anno dopo sua nascita, e di madre ebrea, Bobi Bazlen fu vittima delle persecuzioni razziali, anche se era stato battezzato e aveva in mano un decreto che lo dichiarava «non appartenente alla razza ebraica». Ma anche nelle sue vicende legate alla criminale follia del razzismo nazista, come nel resto della vita, Bazlen è rimasto in secondo piano: ha operato, ma senza apparire in maniera evidente. È riuscito a sfuggire ai rastrellamenti grazie alle anziane proprietarie di una sala da tè romana dove passava intere giornate con libri e amici. Poi non è entrato ufficialmente nella Resistenza, ma ha creato la Banca del Fior di Loto, una specie di fondo in cui si potevano mettere i propri averi e poi prelevare quello che serviva quando se ne presentava il bisogno; come per corrompere un secondino. E poi è stato lui a sollecitare Ferruccio Fölkel a scrivere per primo della Risiera di San Sabba, sollevando per tutti quel pesante velo di silenzio che avvolgeva l’unico campo di sterminio esistito in Italia. E forse proprio nel vergognoso comportamento di tanti triestini nei confronti degli ebrei si trova il motivo principale del dolore che Trieste gli ha impreso nell’anima e che lo ha fatto allontanare e restare lontano dalla sua città.

Dopo, cessate le necessità indotte dalla guerra, il restare sottotraccia per il grande pubblico, ma mai per gli amici, è stata ancora la cifra principale della sua vita: del resto, come lui stesso disse, «Io sono una persona per bene che passa quasi tutto il suo tempo a letto, fumando e leggendo». A lui la fama, in definitiva, non interessava, sia perché aveva la piena coscienza di poter svolgere appieno la propria preziosa funzione anche senza scrivere libri, o senza apparire sui titoli dei giornali, sia in quanto, probabilmente, oltre una certa misura, non avrebbe saputo affrontarla, o, almeno, gli avrebbe causato più noie che gioie. E quindi, ben lungi dal cercarla, sembra quasi aver preferito difendersene.

Infatti, la sua figura pur ricchissima di aneddotica, resta tra le meno conosciute del Novecento italiano. Cercar di capirlo, pur con la spinta e con i vari appigli fornitici da Cristina Battocletti, è un po’ come tentare di arrampicarsi su uno scoglio che sorge dal mare, ripido e coperto di alghe scivolose: riesci a salire per qualche decimetro, ma poi quasi sempre poi torni a scivolare in giù. E devi ricominciare da un altro punto di attacco.

È giudizio comune che Bobi Bazlen sia stato uno di coloro che maggiormente hanno influenzato la cultura italiana nel Dopoguerra, ma, come dicevo, è rimasto sempre nell’ombra. Nel cercare nuovi capolavori ha approfittato del fatto di padroneggiare il tedesco, l’italiano, l’inglese e il francese, eppure ha saputo guardare anche a pochi passi da dove si trovava. Era un solitario, ma legato alle amicizie. E nelle amicizie era inquieto e appassionato, generoso e costante, ma talvolta diventava impietoso e persino cattivo, tanto da distruggere il rapporto. Era affascinato da astrologia e oroscopi, ma aveva una cultura vastissima anche in campi di grande concretezza. Viveva in un mondo intriso di ebraismo e di cristianesimo, ma ha abbracciato taoismo e filosofie orientali. Non appena scopriva un talento, o dispensava uno stimolo letterario, insisteva con passione per rendere subito concreta questa sua illuminazione, ma spesso la realizzazione è arrivata soltanto postuma. È stato fortemente amato da maestri come Eugenio Montale, Adriano Olivetti, Umberto Saba, Giacomo Debenedetti, Italo Calvino, ma altrettanto fortemente detestato da altri personaggi di primo piano, come Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia. Ed egli, immerso in un mondo apparentemente ricco soltanto di libri, ha ricambiato amore e fastidio con la stessa partecipazione e passione perché le persone lo hanno interessano non meno delle pagine che divorava in continuazione alla ricerca di qualcosa di bello e di nuovo.

Il fatto è che Bobi Bazlen ha voluto essere sempre libero, senza alcun punto di riferimento costante: «Non un matrimonio, non un figlio, non un contratto di lavoro stabile, non una casa di proprietà», ricorda l’autrice. Ed è anche questa mancanza di punti fermi a rendere più facilmente libera e ondivaga la sua vita; talmente ondivaga da renderla per molti incomprensibile.

Cristina giustamente dedica una parte consistente del suo scritto alle vicende amorose di Bazlen, complicate e contraddittorie proprio come la sua vita. Sta di fatto, comunque, che di donne da amare, magari in imprevedibili poligoni amorosi, dotati di un numero variabile di lati, Bazlen non ha potuto stare senza, proprio come non è riuscito a vivere – e non è un paragone esaltante per le donne che gli sono state vicine – senza libri, sigarette e lettere da scrivere e da spedire compulsivamente. Si fidanza con Duska Slavik, la lascia e poi la spinge verso il marito di Gerti, la donna musa di Montale nelle sue poesie. Fugge a Milano con Linuccia Saba, figlia del poeta triestino, e per lei in un anno consuma parte delle cospicue eredità ricevute dal padre e dallo zio. Linuccia si legherà poi a Carlo Levi, e per questo si rompono i rapporti con Umberto Saba. Poi c’è Gerti, figlia di un banchiere austriaco, viaggiatrice seriale, fotografa dilettante, altra musa di Montale con il quale Bobi rompe (e ricomporrà solo dopo alcuni anni) sempre a causa di donne. In questo caso si tratta di Drusilla Tanzi, sorella della madre di Natalia Ginzburg, sposata con un critico d’arte e diventata la compagna di Montale che ha contemporaneamente un rapporto con la critica letteraria Irma Brandeis, mentre Drusilla tenta due volte il suicidio. Si inaridisce anche il rapporto epistolare con Gerti proprio quando l’ex fidanzata di Bobi, Duska, si mette con Carlo Tolazzi, marito di Gerti, da cui avrà due figli. Un caos, insomma, terribilmente difficile da seguire per chi non ha dimestichezza con il gossip e fa fatica a fissare nella memoria tanti nomi. Anche perché il suo mondo femminile non si ferma qui: a Roma ha relazioni importanti con Silvana Rodogna, moglie di Vittorio Loriga, psicoanalista, e con Bianca Garufi, amata da Pavese. E infine c’è il rapporto con Ljuba Blumenthal, ebrea romena, conosciuta nel 1929, e sposata con Julius Flesch che poi impazzirà e morirà deportato ad Auschwitz. Nel 1951 Ljuba sposa un chimico inglese; Bobi pensa di andare a Londra per starle accanto, anche se non ha i soldi necessari. Ma, prima di poterlo fare, muore a Milano nel 1965 in una camera d’albergo poco distante dalla sua Adelphi.

Nella sua vita una parte importante è rivestita anche dalla psicanalisi, sicuramente molto letta e pensata; non altrettanto certamente praticata come paziente. E in più Bazlen ha lasciato di sé pochissime tracce, e postume: “Note senza testo”, “Lettere editoriali” e un libro, “Il capitano di lungo corso”, che ha risentito moltissimo dell’influenza di Carlo Michelstädter.

Al nome di Bazlen, insomma, possono essere legati tantissimi aggettivi, spesso in contrasto tra loro, senza mai giungere a un ritratto fermo e certo: ci si deve limitare a osservare una specie di fotografia un po’ fuori fuoco che, però, non disturba, ma, anzi, attira, in quanto è una spinta continua alla scoperta di nuovi particolari su un uomo al quale comunque dobbiamo grande gratitudine perché per lui era agevole – come dice l’autrice – capire immediatamente quali fossero «i grandi libri senza i quali l’umanità sarebbe stata un po’ più sola», come scrive la Battocletti, o stabilire la “primavoltità” di un’opera.

La seconda protagonista di questo libro, sempre citata in copertina, è indubbiamente Trieste, città dove Bazlen è nato e si è formato. E ha fatto benissimo Cristina a insistere nel cercare proprio a Trieste le chiavi di lettura per comprende meglio il fenomeno Bazlen. Forse alcuni non sono stati d’accordo su questa scelta, ma evidentemente non si sono accorti che, non essendosi sforzati di entrare nell’anima di questa strana città, non hanno avuto la possibilità di utilizzare certi filtri fondamentali per traguardare il protagonista.

Cristina, invece, l’ha fatto e non ha pensato di cavarsela dicendo che Trieste è una città unica perché è città di frontiera, sospesa tra due mondi, dall’incerta e insieme solidissima identità; perché la sua anima è multiforme e multiculturale, oltre che mitteleuropea. Sono tutti stereotipi validi, ma del tutto insufficienti a illustrare quella coltura di cultura che si è sviluppata in una città in cui gli estremismi sono ben più estremi che altrove: e mi riferisco a comunisti e fascisti senza il minimo ripensamento; a italiani che non sanno una sola parola di sloveno e a sloveni si fanno capire in italiano per necessità, ma con esplicito fastidio; a cattolici, ebrei, protestanti, musulmani, atei che non vogliono nemmeno sentir parlare di altre chiese e di altre religioni. Eppure tutti riescono a convivere e a dare vita a una “cultura” – forse termine inadeguato e contemporaneamente eccessivo – in cui ognuno può sentirsi parte di un medesimo tutto. Che comunque resta inseparabile, come un’ombra, appunto.

Pare impossibile, ma il trucco è semplice: basta essere orgogliosi di se stessi, ma capire che anche gli altri possono provare il medesimo orgoglio. Forse è più facile spiegarsi con un esempio tessile nel quale trama e ordito sono composti da fili di diversi colori che nessuno si sogna di cambiare tentando mescolanze nel corpo dello stesso filo perché sanno che sarà poi il tessuto che uscirà dal telaio ad avere un nuovo colore, diverso da quelli originari, eppure capace di contenerli tutti valorizzando qualche caratteristica di ognuno.

Insomma, la forza della cultura che ha incubazione a Trieste, e di cui Bobi Bazlen è stato emblematico messaggero, consiste in una mescolanza che incredibilmente rispetta le pur intransigenti caratteristiche individuali; in una specie di inattualità che non si cura delle mode, pur restando sempre contemporanea; nella coscienza che, in definitiva, è proprio la non triestinità il vero connotato della triestinità perché praticamente non ci sono triestini che, visto il continuo andirivieni di gente, abbiano genitori e nonni nati nella stessa Trieste e non ci sono triestini che, assieme al latte, non abbiano poppato culture e tradizioni diverse. E hanno succhiato anche storia perché anche i triestini, come tutti gli altri esseri umani, sono fatti di tempo, ma forse se ne accorgono più di altri perché il tempo a Trieste ha lasciato profonde ferite e una grande quantità di rimpianti inestricabilmente mischiati a tantissimi rimorsi. E proprio nel sentirsi frutto della storia, Bazlen ha avuto la capacità di trovare il vero valore del tempo umano in cui il presente non è quel cannibale che conosciamo oggi, ma soltanto ciò che dovrebbe essere sempre: un impalpabile punto di passaggio tra ciò che è stato e ciò che sarà. Un attimo che diventa importante soltanto se sappiamo coglierlo, assaporarlo e valorizzarlo, tanto da farlo spiccare in mezzo a miriadi di cose, trasformandolo in un ricordo indelebile

Ancora una cosa su Trieste. Cristina, in una “Legenda” dice che «Bobi a volte incespicava in errori in italiano: «Mi ho fatto dare” – spiega – è una tipica traduzione dal tedesco». Vero, ma molto più importante è che è anche una traduzione dal dialetto triestino prima che il fascismo tentasse di italianizzarlo: “Me go fato dar”. Perché è ben vero che Bazler ha studiato al Realgymnasium, scuola di lingua tedesca dell’Impero austroungarico, ma è altrettanto vero che, come per tutti i triestini, la sua lingua principale è diventata quel dialetto che è nato come lingua franca per far comprendere tra loro le svariate nazionalità che vivevano nel porto più importante dell’Impero asburgico e che ancora adesso è usata così: la si parla dappertutto, anche negli uffici pubblici non per affermazione della propria identità, ma per gentilezza verso gli altri, per farsi capire da tutti. E la cosa diventa talmente naturale che per me, triestino, a ben più di quarant’anni di distanza dal mio trasferimento a Udine, se sento un accento triestino nelle vicinanze, è ancora difficile non cominciare a parlare subito in dialetto. Ed è esilarante, oltre che chiaramente esemplificativo in questo senso, sentire spesso parlare un triestino grammaticalmente e sintatticamente perfetto – ammesso e non concesso che esistano grammatica e sintassi triestine – e con un pesantissimo accento pugliese, napoletano, o siciliano.

Ed è sempre da quella Trieste, che abbandona quasi definitivamente poco più che trentenne, che deriva il gusto di una letteratura che non vive del combattimento tra contenuto e forma, che non cerca virtuosismi stilistici, ma palpita dal bisogno dello scrittore di comunicare – nel senso etimologico di mettere in comune – i propri sentimenti, le proprie emozioni, i propri ideali.

Della terza protagonista non c’è traccia nella copertina, ma innerva tutto il libro, ogni sua pagina: è la cultura che è base fondamentale per qualsiasi forma del fare che non si rassegni a essere sterile, velleitaria e molto probabilmente destinata al fallimento. È quella cultura che diventa sinonimo di libertà, e, quindi, anche di possibilità di avvicinarsi ai lontani; e ai diversi. Che offre la capacità di individuare a prima vista l’originale, il colpo di genio, quello che Bazlen chiama “primavoltità” che, a prima vista sembra un neologismo casuale e che, invece, credo sia stato costruito scientemente perché il suo suffisso indica un caratteristica reale, mentre “primavolezza” indicherebbe meglio una forma di apparenza, o “primavoltitudine” non garantirebbe la certezza, ma soltanto la probabilità.

E chiudiamo con la quarta protagonista, di cui c’è di nuovo traccia in copertina perché è l’autrice che vi compare con il suo nome. Non è piaggeria, ma credo veramente che Cristina abbia affrontato una sfida estremamente difficile e ne sia uscita vincitrice scrivendo qualcosa che non è un saggio, ma ne ha la medesima autorevolezza, non è una narrazione di cui possiede, però, la scorrevolezza. Non si limita a parlare di Bazlen, ma tenta di immedesimarsi in lui per interpretare quello che ha fatto e che, senza questo sforzo, rischierebbe di restare una collezione di stranezze.

E un plauso va anche alla sua capacità camaleontica di adeguare il suo stile alle necessità di ciò che sta scrivendo. In “Figlio di nessuno” ha saputo contenere e smussare quelle ruvidità che soltanto un ultracentenario spigoloso e ancora lucidissimo, come Boris Pahor, può permettersi. Ne “La mantella del diavolo” ha usato una lingua che poteva sembrare strana per la sua ricchezza, e che invece era fondamentale per una descrizione che non si fermasse alla superficie di persone, fatti e luoghi, ma affondasse ben al di sotto della scorza dell’apparenza per riuscire a dare al lettore anche un’immagine della loro sostanza. In “Bobi Bazlen” gioca tutte le carte del suo giornalismo capace di far convivere fatti e stile, impegno di comprensione e piacere della lettura, capace di rendere comprensibile e attraente qualsiasi tipo di saggistica.

Insomma, credo proprio che a Bobi Bazlen questo libro sarebbe piaciuto. E sono sicuro che piacerà anche a voi.

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giovedì 1 febbraio 2018

La sorpresa che sorprende

Romano Prodi ha ragione quando, dopo aver annunciato che voterà per il PD di Renzi, chiede: «Scusi, ma dov'è la sorpresa?». E, infatti, a mente fredda, la cosa che più stupisce è lo stupore destato dal fatto che il professore torni ad appoggiare Renzi a poco più di un anno di distanza dal referendum costituzionale che - merita ricordarlo - nettamente non ha dato ragione né a chi voleva stravolgere la nostra Costituzione, né al suo illustre sostenitore.
 
È sicuramente giusto chiedersi con che stomaco Prodi, nel suo collegio bolognese, preferirà votare Casini invece di Errani, ma non c'è da ragionarci molto sopra. Mi sembra più interessante, invece, esaminare con un po più di attenzione la frase con cui Prodi ha giustificato la sua scelta: «Liberi e Uguali - ha detto -non è per l'unità del centrosinistra, mentre Renzi e il PD e chi ha fatto gli accordi con il PD lo sono». E in questa frase ci sono almeno due parole sulle quali merita soffermarsi per tentare di dare contorni certi al loro significato: "centrosinistra" e "unità".

Sul significato di "centrosinistra" basterebbe chiedersi, anche al di là di alcune leggi volute da Renzi e dai suoi, come mai possa mantenere questa definizione un'alleanza che presenta, tra gli altri, Casini (sempre quello che per una vita è stato emblema del centrodestra e per il quale Prodi ha dichiarato di voler votare), la ministra Lorenzin, l'ex braccio destro di Formigoni e tutta una serie di altri personaggi che mai si sarebbero avvicinati a qualcosa che odorasse veramente, anche se pur soltanto vagamente, di sinistra. Per non parlare poi - perché è tutt'altro discorso - di altri candidati nel meridione che sono molto vicini a Cuffaro o a Lombardo.

Meno semplice, invece, è definire il concetto di unità e poi capire fino a che punto l'unità può essere un pregio e quando, invece, diventa persino un difetto.

Per quanto riguarda il concetto, l'unità potrebbe essere definita come la condizione di qualcosa che è costituito da più parti che sono insieme per coincidenza, o almeno per convergenza, di ideali e di intenti. E già qui appare difficile ipotizzare che ci possano essere unità di ideali e intenti tra Renzi e coloro che lo hanno ritenuto talmente dispotico e talmente poco di sinistra da decidere di abbandonare il partito del quale pure erano stati i fondatori.

Ma ancora più evidente appare il fatto che un'alleanza tra Renzi (parlare di PD attualmente, e a maggior ragione dopo le decisioni sulle liste, appare superfluo, se non addirittura ipocrita) e Liberi e Uguali non avrebbe altro significato di quello che ha l'alleanza tra Berlusconi e Salvini: un semplice modo per sfruttare al meglio le follie dell'assurda legge elettorale che ha preso il nome dal suo teorico ideatore Rosato, per poi dividersi subito dopo, in quanto su molti punti gli obbiettivi non sono soltanto diversi, ma addirittura divergenti.

Su queste basi incontrovertibili appare davvero difficile concordare con la presa di posizione da parte di Prodi, non soltanto sotto l'aspetto politico, ma anche dal punto di vista utilitaristico. Se è vero, infatti, che uno degli scopi dei fuoriusciti dal PD era quello di rispettare il sentire dei tanti elettori che non andavano più a votare perché non trovavano più sulla scheda elettorale alcun simbolo che rispettasse i loro ideali sociali e politici di sinistra, o almeno vicini alla sinistra, un'unità tra LeU e PD forse consentirebbe al partito di Renzi di superare tranquillamente la soglia-spauracchio del 25 per cento, ma certamente perderebbe non soltanto tutti quelli che già non andavano alle urne, ma anche un buon numero di elettori che sul simbolo di quel partito di Renzi che ha voluto il Jobs Act, la Buona scuola, la fallita riforma costituzionale, la nuova legge elettorale - e tutto a colpi di fiducia - non riuscirebbero proprio più a tracciare una croce.

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