domenica 28 gennaio 2018

A prima vista

Quanti, a prima vista, leggendo che aveva rinunciato al seggio sicuro di Sassuolo per «rispetto dei militanti che nessuno ha ascoltato», hanno pensato: «Bravo Cuperlo, persona intelligente e coerente, capace di ribellarsi perché ancora dotato di etica politica e democratica»? Credo siano stati in molti. E sicuramente io ero tra loro.
Ma soltanto a prima vista. Dopo, immediatamente dopo, nei suoi confronti è montata la rabbia perché, ha anche assicurato che comunque farà campagna elettorale per il PD, ma in realtà per Renzi che ha occupato oltre l’80 per cento dei posti disponibili con i suoi fedelissimi e che, quindi, continuerà a fare da satrapo nel suo partito.

Possibile che Cuperlo, intelligente, coerente, eticamente attrezzato, non si renda ancora conto di essere stato complice di chi ha distrutto scientemente quello che era il punto di maggior aggregazione del centrosinistra? Possibile che non venga neppure il dubbio che senza lui e gli altri che hanno voluto restare all’interno del PD per combattere Renzi, ma in realtà legittimandone l’operato, la parabola dell’ex sindaco di Firenze forse sarebbe già finita, o, almeno, avrebbe potuto combinare meno guai, tra i quali il più grave è, appunto, la mutazione genetica del PD che non ha distrutto soltanto la sua natura originaria, ma ha inferto colpi terribilmente gravi a tutto quello che era il centrosinistra italiano?

Ci sono dubbi che questa mutazione sia ormai stata completata? Non credo proprio: pensate soltanto al fatto che con il PD corrono Casini e la Lorenzin, mentre resta fuori, tanto per fare un solo esempio, Luigi Manconi. E, se è vero che in politica i volti diventano importanti soltanto in base a quello che è contenuto nei cervelli che dietro quei volti stanno, allora appare evidente che il PD di Renzi preferisce l’artista dell’equilibrismo che ha passato una vita a saltabeccare dal centrodestra (che ha sempre intimamente preferito) al centrosinistra, a seconda di chi gli garantiva maggiori vantaggi, o la ex passionaria berlusconiana alle campagne di civiltà portate avanti da un uomo che si è battuto per quegli obbiettivi anche quando apparivano irrealizzabili.

È possibile che Cuperlo e compagni, tra i quali Orlando ed Emiliano, non sappiano che la storia è piena di esempi di brave persone che hanno permesso disastri terribili nel nome di una supposta fedeltà a ideali che non esistevano più perché, pur lasciando loro il medesimo nome, ne avevano cancellato la sostanza?

E vale poco anche riesumare il vecchio ritornello che il PD con Bersani aveva perso e con Renzi ha vinto: la realtà è che con Bersani aveva vinto troppo poco, ma quanto è bastata a far governare il PD per l’intera legislatura, mentre con Renzi ha vinto soltanto alle Europee, quanto l’allora neo presidente del Consiglio molto aveva appena promesso e non aveva ancora tradito le sue promesse. Da quel momento in poi ha perduto sempre e comunque.

Si dirà che ai soprusi nelle guerre sulle liste non bisogna dare soverchia importanza perché tutti li praticano: basti pensare a Forza Italia, o alla Lega, o ai Cinque stelle. D’accordo, ma i primi due non hanno mai preteso di fare democrazia democraticamente e i grillini hanno già dimostrato ampiamente che il web è soltanto un bluff. E, poi, comunque non puntano a rivolgersi a un elettorato particolarmente sensibile alla democrazia.

Come spesso accade, insomma, la prima vista inganna e perseverare nell’errore più che diabolico e capace di far montare la rabbia, è davvero drammatico per tutta la sinistra italiana.

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sabato 27 gennaio 2018

Caccia alla volpe

Ma davvero pensate che per poter risollevare l’Italia siano importanti i nomi dei candidati presenti sulle liste elettorali e non le idee? Ma davvero credete che non sia proprio questa mancanza di progetti e di ideali a determinare quella fuga dalle urne che tutti dicono di temere, ma che nessuno si impegna a evitare?

Ci sarebbe da ridere, se non fosse che ad andarci di mezzo è la residua salute del Paese, a vedere come si accapigliano per un posto “sicuro”. Lo fanno perché pensano di avere poteri taumaturgici, o, più semplicemente, per ambizioni personali? Baruffe sanguinose, accuse e abbandoni sono stati gli ingredienti che hanno riempito queste giornate cancellando dalla ribalta qualsiasi progetto politico. Colpi di scena con l’apparizione di volti inattesi e la sparizione di altri, dati praticamente per sicuri; rivolte di corrente e di territorio; cancellazioni di cose già decise e lunghe veglie in armi. La recita è la stessa praticamente in tutti i partiti con troppi candidati per troppo pochi posti. E con la loro speranza che poi quei posti non diminuiscano ulteriormente. L’unica cosa certa è che di democrazia non si parla proprio.

Agli elettori non resta che sorridere (poco) e sogghignare (molto) pensando a quanti erano convinti di essersi conquistati un posto con obbedienza e servilismo e che si sono visti retrocedere, o addirittura cancellare, perché qualcuno si è dimostrato più accomodante di loro, o perché qualcun altro da l’idea che potrebbe raccattare qualche voto personale in più. E i voti per individuare il percorso politico migliore? Non interessano quasi a nessuno.

Si dirà che tutto questo è sempre accaduto. È vero, ma non del tutto perché molti dei peggioramenti dipendono da una legge elettorale assurda prima che truffaldina e con un certo olezzo di incostituzionalità.
 

Sarebbe da far partire una caccia a quella volpe che ha costruito il Rosatellum, ma si sa già di chi si tratta e, nonostante le follie di questa politica, ci si riesce ancora a stupire che sia stato premiato con la sicurezza di tornare in Parlamento.

Talvolta viene il dubbio che a non pochi dei nostri politici non servirebbe chiedere «Ma davvero pensate che…?», perché sarebbe sufficiente dire «Ma davvero pensate?».

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mercoledì 17 gennaio 2018

False consolazioni e sondaggi

La frase dal sen fuggita ad Attilio Fontana, candidato governatore leghista – e di tutto il centrodestra – al governatorato della Lombardia («L’Italia non può accogliere tutti i migranti, dobbiamo decidere se la nostra razza bianca debba continuare a esistere») a prima vista può apparire di grande consolazione. Davanti a un’affermazione simile, infatti, ci si sente davvero sollevati: è talmente becera, stupida e razzista che automaticamente si è portati a ritenere noi stessi raffinati, intelligenti e di grande apertura mentale.

Superata questa prima reazione autoconsolatoria, non possiamo non chiederci quanta responsabilità, invece, ricada su di noi riguardo al fatto che qualcuno possa impunemente dire in pubblico cose talmente schifose, pensando di trarne vantaggio e, contemporaneamente, addirittura pretendendo di diventare la guida politica e amministrativa di una regione importante come la Lombardia. E, tutto sommato, con buone speranze di farcela; e non perché Liberi e Uguali non appoggia Giorgio Gori, ma in quanto il partito di Gori ha fatto tutto il possibile – e ancora di più – per far schifare gli elettori di sinistra, quelli che costituivano il suo bacino naturale di voti, tanto da non farli più avvicinare alle urne.

È vero: possiamo tranquillamente dire che di cose in comune con Fontana e Salvini non ne abbiamo neppure una, ma se scaviamo un po’ più a fondo inevitabilmente finiamo per renderci conto che abbiamo un bel po’ di responsabilità perché se avessimo reagito al momento giusto, se non avessimo lasciato sdoganare sorridendo con aria di superiorità parole come “razza”, “fascismo”, “extracomunitari”, e l’elenco potrebbe proseguire a lungo, se non fossimo stati quasi zitti davanti a chi voleva mettere sullo stesso piano quelli che hanno liberato l’Italia dai nazisti e dai fascisti e coloro che erano d’accordo con chi ha promulgato le leggi razziali, oggi non saremmo qua a vedere, quasi increduli, che stiamo rischiando di tornare ad abissi politici e sociali che in troppi hanno pensato che non potessero più tornare.

Se oggi mi chiedessero di indicare il punto in cui la perdita di qualità politica generale di questo nostro Paese ha cessato di avere la pendenza di un tranquillo piano inclinato per assumere la ripidità di un rovinoso burrone, avrei pochi dubbi nell’individuare il punto di rottura della discesa nel momento in cui hanno fatto irruzione nella mente dei capi dei vari partiti i sondaggi, con l’arrivo dei quali chi fa politica ha smesso assolutamente di ragionare su quello che sarebbe giusto fare e ha cominciato considerare che bisogna soltanto promettere che si farà quello che teoricamente, secondo i sondaggi, la maggioranza della gente vorrebbe.

Da quel momento in poi buona parte degli eletti, pur di assicurarsi una futura rielezione, ha rinunciato completamente a pensare, a ragionare, a sognare, mentre la maggior parte degli elettori si è resa conto che, se riusciva a costituire una massa critica, poteva fare pressioni determinanti sui propri rappresentanti e ha cominciato a credere che davvero i propri interessi individuali fossero più importanti degli interessi collettivi.

Pensiamo soltanto a questo terribile rigurgito di razzismo che è evidentemente legato a doppio filo con il fenomeno della fuga di poveri disgraziati che scappano da guerre, dittature, fame, sete, malattie e che danno vita a quella migrazione contro cui Salvini e i suoi complici si scagliano in ogni occasione possibile. E chiediamoci cosa abbiamo fatto davvero per opporci alla loro propaganda xenofoba, aliofoba e razzista; cosa abbiamo fatto per controbattere le loro frasi grondanti odio e fatte passare per asettiche espressioni razionali; come ci siamo comportati quando ci sono stati angherie, cortei e manifestazioni contro quei poveri cristi che rischiano la vita propria e quella dei propri cari pur di sfuggire a un destino che è già troppo simile alla morte.

E chiediamoci anche cosa ha fatto il cosiddetto centrosinistra per opporsi a livello politico a questa deriva. È stato giusto lasciar confondere lo ius soli con l’immigrazione attuale e poi lasciar cadere una legge sacrosanta, perché semplicemente umana, in quanto si temeva di non avere i numeri in vista delle imminenti elezioni? È stato giusto che lo stesso PD mettesse da parte la sindaca di Lampedusa che aveva reso l’isola degna di diventare candidata al Nobel per la pace, per dare spazio a un altro proprio candidato che ha dichiarato di voler rendere molto più difficile l’approdo sull’isola?

E poi: è stato giusto cambiare politica sull’accoglienza e poi anche vantarsene perché gli arrivi sono diminuiti mentre aumentavano i morti in mare, anche d’inverno, e mentre si affollavano all’inverosimile quegli inferni in terra che vengono blandamente chiamati “carceri libiche”? Sentiamo quello che Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro e nemico giurato della ‘ndrangheta, ha detto riferendosi al ministro degli Interni, Marco Minniti, in un’intervista a “Faccia a Faccia”, la trasmissione de La7 condotta da Giovanni Minoli: «Lo stop agli sbarchi – afferma – non è degno di un Paese occidentale». E spiega: «Non mi è piaciuta la strategia di Minniti sull’immigrazione: non è da Stato occidentale costruire gabbie in Libia. Con un terzo della spesa si potrebbero mandare in Centro Africa i nostri servizi segreti per fermare i viaggi e costruire strade e aziende. Mentre parliamo ci sono donne violentate e bambini picchiati. Non sto tranquillo solo perché in Italia ci sono duemila arrivi in meno».

Tutto questo per dire che, risalendo dalla base al vertice, Minniti, Gentiloni e Renzi, sono in realtà dei razzisti? Neppure per sogno. Ma sono estremamente attenti ai sondaggi e se questi sondaggi – sull’attendibilità dei quali, tra l’altro, viste le disparità tra i vari risultati proposti, si può ben dubitare – dicono che una parte degli italiani (neppure la maggioranza, ma soltanto una parte) perde i suoi punti etici di riferimento e si incammina sulla china dell’inciviltà, allora ritengono che un voto in più valga una perdita di decenza.

E poi si chiedono come mai non si possa camminare insieme; senza rendersi conto che ci sono ancora molti che non accettano di dirigersi verso un baratro in cui non mancano tanto i voti, quanto la dignità e la speranza.

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martedì 16 gennaio 2018

Cinquant’anni dopo

Il Sessantotto, in realtà, è cominciato qualche anno prima del ’68. Il 16 giugno 1962 il primo manifesto programmatico della contestazione studentesca, quello di Port Huron, negli Stati Uniti, diceva: «Siamo figli della nostra generazione, cresciuti nel benessere, parcheggiati nelle università, e guardiamo al mondo che ereditiamo con sconforto». Eppure in quel momento l’Occidente era la parte più ricca e libera del mondo, quasi tutti potevano mangiare tre volte al giorno e quasi ovunque c’erano diritto di voto e libertà di espressione. La possibilità di studiare era cresciuta, e anche per i figli degli operai si erano aperte, finalmente, le porte dell’università. Eppure i giovani percepivano una crescente puzza di marcio che proprio nel ’68 si sarebbe materializzata in guerre crudeli in Biafra oltre che nel Vietnam, in odi razziali e omicidi politici come quelli di Martin Luther King e di Robert Kennedy, in stragi di Stato sulla piazza delle Tre culture a Città del Messico pochi giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi in cui Tommie Smith e John Carlos, alla premiazione dei 200 piani olimpici, protestano con il pugno destro alzato, nel segno dei Black Panthers, contro la segregazione razziale, in rivoluzioni pacifiche e repressioni armate a Praga. In California e Francia esplosero contestazioni che si estesero a quasi tutto l’Occidente e fecero di quell’anno un vero e proprio discrimine tra il prima e il dopo.

Per l’Italia, poi, non si può dimenticare che il ’68 è arrivato dopo il Concilio Vaticano II che ha stravolto, molto più del pensabile, il mondo. Un Concilio che è stato accompagnato dalla Mater et magistra, dalla Pacem in terris e dalla Populorum progressio, tre encicliche gigantesche che sono andate a incidere profondamente nel vivere sociale ancor più che nel campo religioso e nelle quali il Sessantotto ha affondato fortemente le radici con quelli che erano chiamati “i cattolici del dissenso” che operarono assieme a coloro che di preti neppure volevano sentir parlare, dando vita con loro a una specie di compromesso storico ante litteram che appassì per la contrarietà di entrambe le istituzioni – Chiesa e Partito Comunista – tra le quali i giovani erano convinti che ci fossero profondi tratti sociali comuni.

Ma sarebbe sbagliato soffermarsi su un aspetto soltanto di quell’esperienza perché non c’è stato un unico Sessantotto come non c’è un’unica verità cui conformarsi. È stato un movimento tanto vasto e diversificato che sarebbe assurdo soltanto pensare di poterlo spiegare, soprattutto a coloro che per motivi anagrafici non hanno potuto viverlo, in un articolo. Credo, insomma che, più che del Sessantotto, sia più utile parlare del dopo ’68 e del perché alcuni dicano: «Avevamo ragione, ma abbiamo perso». È vero, ma solo in parte.

Avevamo tra le mani un tesoro e ce lo siamo lasciati scippare, o comunque abbiamo lasciato che lo rovinassero. Pensateci: alcuni hanno portato avanti con coerenza le loro idee contribuendo al progresso generale; ma altri si sono uniformati rapidamente al comportamento di quelli che vivevano nei posti dove si esercita il potere. Altri ancora hanno estremizzato pensieri e sentimenti, sbagliando nello scegliere il vicolo immorale e cieco della violenza; mentre non pochi, da implacabili contestatori, sono diventati abili approfittatori. E altri si sono disinteressati di tutto. Infine, ci sono i peggiori, tra i quali anch’io: gli schizzinosi, quelli che hanno continuato a nutrire sommessamente ideali e a essere consci che l’attività politica e sociale è fondamentale per cambiare il mondo, ma che, per timore di sporcarsi le mani con i politici, hanno preferito starsene fuori. Se gli altri sono stati colpevoli del peccato di opere, questi si sono macchiati di quello di omissione, il più grave di tutti.

Eppure è stato proprio sull’onda del Sessantotto che si sono fatti enormi passi in avanti scuotendo un’intera società che sembrava fossilizzata e immobile: per l’Italia è stato grazie ai mutamenti indotti dal Sessantotto che si è arrivati al divorzio, all’aborto, al nuovo stato di famiglia, a qualche progresso verso la parità dei sessi, a quello Statuto dei lavoratori che, a vederlo oggi, ci fa capire quanti passi indietro siano stati fatti da allora. Si potrebbe dire che il Sessantotto è stato una sorta di esplosivo che ha spazzato via tutta una serie di sovrastrutture dannose più che inutili, ma che non si era ancora maturi per maneggiare e che ci è parzialmente scoppiato tra le mani.

L’unica vera sconfitta prende corpo e diventa innegabile se guardiamo il panorama politico che ci circonda. Nel ’68 si facevano assemblee non per fare bella figura in pubblico, ma per scambiare idee, trovare punti di accordo e disaccordo, riuscire a convincere gli altri, per fare politica nel senso vero del termine. E oggi sentiamo giovani che si vantano di non avere mai avvicinato la politica.

Nel ’68 sapevamo che una democrazia non si fonda sulla forza della maggioranza, ma su quella del dissenso, perché la maggioranza non può decidere tutto per tutti; non può essere garante di se stessa. Il suo compito principale deve essere quello di non togliere alle minoranze la possibilità di parlare, discutere, influire. E oggi sentiamo parlare di governabilità.

Molte cose riesco a capire, ma non davvero come la nostra generazione possa scusarsi per non essere riuscita a trasmettere ai ragazzi il concetto che la politica non è cosa di cui vergognarsi; che l’onestà è il requisito minimo, ma che servono sempre anche cultura e competenze.

E lasciatemi dire che, anche a distanza di cinquant’anni, sentir parlare di “reduci del Sessantotto” è inaccettabile: i reduci sono coloro che hanno finito di combattere, mentre, invece, c’è ancora molto per cui darsi da fare , per portare avanti le proprie idee; anche se sempre più sembra di correre su uno strato di melassa vischiosa. Continuare a impegnarsi è l’unico modo per sperare che un giorno si potrà finalmente rispondere «No!» alla drammatica e bruciante domanda di padre Turoldo: «Sperare sarà sempre uno scandalo?».

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domenica 14 gennaio 2018

Tra slogan e provocazioni

Quello che è successo in Lombardia e nel Lazio nei rapporti tra Liberi e Uguali e il PD non è facile da incasellare con esattezza nelle categorie canoniche della politica italiana, ma può aiutare a tentar di comprendere un po’ meglio – sempre lasciando a ognuno, naturalmente, di trarne la morale che ritiene – cosa stia accadendo tra le anime di due partiti, uno dei quali pretende di essere collocato tra il centro e la sinistra mentre l’altro non lo considera tale e, anzi, lo vede collocato al centro, se non in parte nel centrodestra, e comunque pronto a continuare a governare, se del caso, con fette significative di personaggi politici che con la sinistra non hanno alcun punto di contatto, se non un’antipatia spiccata e liberamente ostentata. E tutto questo, al di là di quanto accadrà il 4 marzo, sarà molto importante anche in prospettiva locale, pensando alle regionali e alle comunali udinesi nelle quali le peculiarità territoriali avranno sicuramente il loro peso, ma non potranno certamente cancellare le realtà squisitamente politiche a livello nazionale.
Per prima cosa va detto che, viste da lontano, le decisioni divergenti da parte di LeU (in Lombardia un no secco a Gori, nel Lazio un sì, pur condizionato, a Zingaretti) sono state prese sia perché le due assemblee di Liberi e Uguali possono essere composte in maniera sensibilmente diversa, sia in quanto le prospettive di dialogo con Gori e Zingaretti possono essere state valutate in maniera diversa. Ma anche gli stessi candidati già presentati dal PD possono essere stati sentiti in modo disuguale. Mi spiego: quando qualcuno ha già deciso il candidato presidente, altre candidature di spicco e parte fondamentale del programma è ben difficile accettare – credendoci – un invito a discutere insieme «su un piano di parità» per arrivare a un’alleanza. È ragionevole pensare, per bene che vada, a qualche assessorato elargito per ingolosire alcuni maggiorenti, ma molto meno ragionevole è credere che questa offerta possa essere accettata da un elettorato deluso da anni di politica a lui aliena da parte del PD e che difficilmente riuscirebbe a capire perché allearsi con coloro dai quali soltanto pochi mesi fa ci si è traumaticamente separati.

La frase ricorrente è: «La spaccatura nel centrosinistra finirà per favorire la destra». Ma il fatto è che, se sulla seconda parte della frase nessuno ha dei dubbi perché la destra, o i grillini saranno sicuramente favoriti, è sulla prima parte che l’assunto dimostra la propria debolezza visto che chi dal PD se ne è andato lo ha fatto, e con evidente sofferenza, proprio in quanto non ritiene più che il PD sia un partito di centrosinistra. E che, quindi, non si tratti di spaccatura tra parenti, ma di normale separatezza tra lontani.

E a chiarificare la situazione aiutano anche le frasi improvvide pronunciate a botta calda dai protagonisti lombardi e che sono soltanto vuoti slogan, o inutili provocazioni.

Altro non è che uno slogan vuoto di contenuti, infatti, la frase con cui Giorgio Gori ha detto che «i dirigenti di LeU sono evidentemente offuscati dall’odio per il PD». Ricordo ancora, da persona mai iscritta a nessun partito (ve la do come constatazione, non come presunto merito), che tutti coloro che sono usciti dal PD di Renzi lo hanno fatto con dolore e rimpianto per il partito nel quale avevano militato per tanti anni e che avrebbe dovuto essere l’erede di altri partiti ormai ingoiati dalla storia, ma dei quali in tanti avevano avuto la tessera. Costoro hanno lo stesso spirito ferito di un innamorato tradito. Quindi non di odio per il PD si tratta, ma di condanna senza appello per Renzi che quel partito ha conquistato e poi ha stravolto, cambiandone profondamente essenza e obbiettivi; e anche per coloro che ossequiosamente hanno appoggiato tutte le sue scelte, in un diffuso silenzio che è stato tanto profondo che se oggi qualche esponente dem cerca di recuperare un po’ di credibilità nei confronti di chi sta più a sinistra, sventola come una medaglia il fatto di aver detto una volta che non era stato d’accordo con le decisioni del segretario, salvo poi votare comunque a favore «per disciplina di partito». Ed è ben difficile essere d’accordo con chi dice: «Voteresti per il PD e non per Renzi». Non è così, perché il PD oggi è ancora soltanto Renzi e appoggiare lui è come appoggiare le sue politiche che hanno realizzato molte cose che Berlusconi avrebbe voluto fare, ma senza riuscirci e che a tutte le persone orientate a sinistra sono apparse decisamente indigeribili.

Altro non è che una provocazione, invece, la frase di Onorio Rosati, il candidato di LeU in Lombardia: «Se vogliono il voto utile vengano loro da noi». A prima vista può anche apparire brillante e divertente, ma, in realtà, è inutile perché non fa fare un solo passo in avanti sulla strada che, a mio modo di vedere, se davvero ci si tiene agli ideali di sinistra, dovrebbe essere l’unica da seguire nella speranza di un futuro migliore: quella di usare vecchi, ma non consunti, ideali per costruire nuove basi dalle quali partire per ricostruire un nuovo centrosinistra capace di impegnarsi per realizzare istanze sociali e non soltanto per occupare seggi e posti di potere.


Ma tutto questo - lo ripeto - si può realizzare soltanto con un confronto vero perché nessuno può credere alla sincerità di un confronto per cercare una mediazione quando praticamente tutto è già deciso, o perché si è partiti per primi, o sulla base di risultati elettorali precedenti, o sulla scorta di sondaggi che poi troppo spesso sono anche clamorosamente sbagliati. Probabilmente, per un confronto serio, sarà necessario attendere che il dialogo non sia inquinato dalle sirene di posti da conquistare e che finiscono per distrarre da un discorso concreto sugli ideali e sugli obbiettivi. Che sono le uniche cose che nella politica propriamente detta dovrebbero importare.


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domenica 7 gennaio 2018

Politica, una parola, due concetti

L’avvicinarsi di ogni appuntamento elettorale ci fa immancabilmente notare che l’impoverimento del nostro vocabolario ci ha portato a definire con una sola parola – “politica” – due cose, almeno in gran parte, molto diverse: sia il darsi da fare per il bene della “polis”, sia l’impegnarsi a raccogliere voti per sé, o per i propri vicini. Se è vero, infatti, che serve vincere per poter poi mettere in pratica il proprio programma, è anche incontestabile che troppo spesso si è visto che la vittoria è diventata fine a se stessa.

Non per nulla gli antichi, che ancora non avevano in spregio le finezze del linguaggio che ci sono state strappate via dalla fretta che infetta ogni nostra azione, usavano termini ben diversi. I greci, per esempio tra politica e votazione non trovavano alcun elemento semantico comune: la prima era, ovviamente “politiké”, o “politéia”, lavoro di amministrazione della "pólis", o partecipazione a quel lavoro, mentre la seconda era “psefoforía”, cioè l’atto di portare il sassolino colorato (uno "pséfos"), o la conchiglia, con cui si esprimeva il proprio voto, quasi sempre molto semplice: a favore, oppure contro. I latini, invece, consideravano le due cose apparentemente abbastanza vicine, ma, nella sostanza, ben diverse: l’operare per il bene della comunità era detto “rei publicae administrandae ars”, l’arte di amministrare la cosa pubblica, mentre l’azione che precedeva il voto, quella che potrebbe essere considerata una specie di campagna elettorale dell’epoca, era definita “rei publicae administrandae calliditas”: non più “ars”, ma “calliditas”; non più arte, nel senso di capacità, ma furbizia.

E, infatti, la storia di questi ultimi decenni dimostra abbondantemente che definire entrambe le cose con il medesimo termine porta a confusioni e a disastri considerevoli. Nel suo ponderoso e labirintico “Politics” il filosofo brasiliano Roberto Magabeira Ungher definisce la politica come «una teoria sociale radicalmente antinaturalistica», perché – semplifico in soldoni – mentre la natura spinge ogni individuo a operare per il maggior bene di se stesso, la politica si pone come obbiettivo il bene comune anteposto al proprio.

Ed è nell’imminenza delle elezioni, durante le campagne elettorali, che le contraddizioni di queste due realtà, diversissime ma riunite sotto il medesimo appellativo, diventano clamorosamente stridenti e, come sempre succede, in caso di corto circuito tra due realtà, è quella peggiore a impressionare più della migliore.

Del resto la caccia al voto, per sé o per il proprio partito, porta troppo spesso a dimenticare l’altro significato della parola “politica” e a tutta un serie di fatti e relative conseguenze. Assistiamo a promesse palesemente irrealizzabili e poi puntualmente non mantenute; a personalismi falsamente taumaturgici e utili soltanto a nascondere un vuoto di pensiero; ad aggravamenti deliberati dei difetti degli avversari e a sottovalutazioni dei propri; a quelle che oggi, in omaggio all’inglesismo imperante e nella ricerca di possibili attenuanti future, vengono chiamate “fake news”, ma che sarebbe giusto definire con il loro vero nome, e, cioè, truffe e calunnie; a conflitti di interesse che soltanto coloro che ne sono protagonisti fanno finta di non vedere; a interessi privati che sono ben più diffusi degli atti pubblici; a rifiuti di compromessi che non sono tradimenti dei propri ideali, ma di temporanei punti di equilibrio possibili in attesa di nuovi avanzamenti verso l’obbiettivo prefisso. E già questo combattere su tutto meno che sui programmi per il bene comune sarebbe disdicevole nella battaglia tra un partito e l’altro, ma diventa addirittura incomprensibile e intollerabile se lo scontro divampa all’interno del medesimo schieramento.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la maggior parte degli eletti dimostra di non aver capito, o almeno assimilato, il significato primario della parola “politica”; e così, anche quando ha cessato di lottare, pur con successo, per il significato secondario, continua a preoccuparsi più del bene proprio, o degli amici, che di quello della comunità. E intanto la maggior parte degli elettori sente distintamente di non essere più in cima ai pensieri e ai progetti di chi li chiama a votare, ma percepisce di poter diventare importante e utile soltanto nel momento in cui si depone la scheda nell’urna. E, allora, preferisce starsene a casa.

Tutto questo è decisamente grave in tutto l’arco degli schieramenti politici italiani, ma rischia di assumere toni di drammaticità totale se investe e stravolge anche quello che è da poco nato con il dichiarato intento di voler restituire il suo significato profondo alla parola “politica” e dichiara che, così facendo, punta a recuperare quei milioni di elettori che ormai non si considerano più tali e che rischiano di veder ingrossare ulteriormente le proprie fila.

Credo fortemente in questo progetto politico che si propone di ricostruire una sinistra e un centrosinistra degni di tali nomi e altrettanto fortemente mi fa inorridire la possibilità che anche questo sogno vada a finire nell’immondezzaio delle delusioni per colpa propria. Perché – l’ho già detto in altro occasioni, ma vorrei ripeterlo ancora una volta – credo che ben più importante di una sorprendente vittoria attuale in clamorosa rimonta, apparentemente appagante ma sostanzialmente fragile, sia la costruzione di fondamenta solide sulle quali cominciare a ricostruire quella sinistra che forse – proprio grazie all’insipienza di Rosato, o di chi gli ha dato ordine di dare quell’insensata forma alla creatura che da lui prende il nome, il Rosatellum – non dovrà aspettare neppure cinque anni per rimettersi in gioco.

Franca Valeri, con quella sua voce tremolante, ma con quel suo pensiero lucidissimo e ben fermo, non molto tempo fa ha detto: «Ogni tanto mi chiedo: risorgeremo da tutto questo?». Ebbene, se potessi, vorrei tranquillizzarla – o forse farla preoccupare ancora di più – perché la sperata resurrezione dipende soltanto da noi, dalle nostre scelte e dalle nostre azioni. A partire proprio da come ci comporteremo nella preparazione delle liste e soprattutto dei programmi e nella conduzione di una campagna elettorale che dovrà parlare di ideali, valori, utopie e progetti e ben poco di nomi.

Altrimenti ogni sassolino, ogni “pséfos” potrebbe diventare un macigno che andrebbe ad aumentare quella massa che già sembra sul punto di seppellire noi e i nostri sogni di democrazia e di miglioramento sociale.

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