lunedì 4 dicembre 2017

Buon 4 dicembre

Nella sua più recente risposta, nell’ambito della rubrica che tiene su “D la Repubblica”, Umberto Galimberti ha affrontato, con la sua disarmante e implacabile lucidità, il tema del declino della sinistra in tutto l’Occidente e – riassumo in maniera sicuramente parziale e inadeguata – ha affermato che «la globalizzazione ha subordinato la politica all’economia»; che ha indotto l’Occidente a esportare il mercato in tutto il mondo, e «anche la democrazia e i diritti umani, sacrificandoli subito entrambi» non appena questi rischiavano di essere di intralcio al mercato stesso; che si è accettato che il mercato creasse «una cultura più confacente alla destra che alla sinistra»; che «il mercato è nessuno» e, quindi, difficile da combattere, tanto che «il risultato è che ormai il mercato e la razionalità che lo governano sono vissuti dall’inconscio collettivo come leggi di natura»; che, «a differenza della destra il cui collante è costituito, soprattutto in Italia, dagli interessi e dai privilegi da difendere, la sinistra, nelle sue espressioni migliori, ha degli ideali. E sugli ideali ci si divide, ci si contrappone con una passione che spesso acceca, preferendo la testimonianza alla responsabilità, che chiede al politico di governare. E di sapere che il governo non è mai l’attuazione di un ideale puro, bensì la continua mediazione fra ideali che accettano di rinunciare in parte alla loro purezza per trovare il consenso necessario a costruire una maggioranza. La destra, divisa su tutte le proposte ideali, ci riesce. La sinistra no. Ma l’ideale che non diventa mai reale finisce con l’evaporare nell’inconsistenza di un sogno. Che al risveglio svanisce».
Assolutamente nulla da eccepire, tranne che per quello che riguarda la parte in cui Galimberti dice che la sinistra sugli ideali si lacera e, proprio per questo, non sa condurli a realizzazione. E su questo due sono le obiezioni che mi vengono in mente: una di sostanza e una di metodo.

Per quanto riguarda la sostanza, visto che in molti casi, a meno di ipocrite e momentanee rinunce al proprio pensiero, di ideali certamente diversi, come nel caso del Jobs act, si tratta, mi viene da chiedermi se entrambe le parti, attestate su fronti addirittura opposti, possano definirsi “sinistra” e, nel caso soltanto una possa farlo, quale delle due – l’attuale linea della segreteria del PD, o quella che ieri si è unita con Pietro Grasso per schierarsi in netta discontinuità con i principi di Renzi – possa autodefinirsi “sinistra” con maggiore diritto di farlo. E, pur sempre comunque ricordando che in democrazia la maggioranza vince sempre, ma non sempre è detto che abbia davvero ragione, mi domando anche se davvero, come dicono i suoi sostenitori, i numeri diano ragione a Renzi. È certamente vero all’interno del PD, ma se si allarga il discorso all’intera sinistra, o anche al centrosinistra, le cose non sembrano andare nello stesso verso. Infatti, oltre a ricordare le minoranze interne al partito, è difficile dimenticare la scissione di chi, dopo aver fondato il PD, non lo sentiva più casa propria, ma anche i disastrosi risultati delle elezioni di questi ultimi anni e, forse più importante di tutto, la disaffezione che ha fatto disertare le urne alcuni milioni di elettori dei quali, se gli studi sono corretti, la maggior parte apparteneva a una sinistra che loro non ritenevano più degna di essere votata.

Per quanto riguarda il metodo (che, poi, in realtà è la vera sostanza) e che riguarda un po’ tutti, anche coloro che ultimamente si sono – almeno dal punto di vista mio – ravveduti e hanno deciso di cambiare strada, il disastro fondamentale è stato costituito dall’acquiescenza davanti a una mortifera mutazione del linguaggio. Abbiamo accettato, per esempio che nella locuzione “raggiungere un obbiettivo” il verbo “raggiungere” sparisse per dare spazio soltanto a “conquistare”, o “comperare”, sottolineando così implicitamente che gli obbiettivi necessari non devono essere raggiunti con fatica e pazienza da chiunque ha ideali, dedizione e capacità di lavorare insieme ad altri, ma possono essere fatti propri soltanto da chi è più forte, o da chi è più ricco. Mai da chi ha dimostrato con il ragionamento, e anche con la necessaria mediazione, di poter offrire la soluzione migliore. E, per illustrare il degrado in cui stiamo vivendo, la recente infinita sequela di fiducie imposte dai governi al Parlamento sono ancor più desolantemente eloquenti delle compere di deputati e senatori per far cadere i governi avversi. Perché in tal modo è la stessa sostanza della democrazia a essere messa in discussione, e non alcuni disonesti, corruttori e corrotti, disposti a perdere la faccia, ma non il portafogli, né il potere.

Continuo a credere che sia proprio il linguaggio la chiave di volta per far sì che i sogni al risveglio non svaniscano. Veder rincorrere i sondaggi, o copiare le espressioni di uomini politici di parte avversa soltanto per lucrare qualche voto, o parlare per ore, pur pregevolmente, sul nulla, sono cose che non fanno né guadagnare voti, né crescere il Paese e i suoi cittadini.

Parlare agli elettori come si presume che loro desiderino e non come davvero si ritiene di dover fare è esattamente come credere di poter avvicinare i giovani usando soltanto il loro linguaggio e i loro social network. Chi lo fa crea contemporaneamente in me un sentimento di pena e uno di rabbia. Pena perché nessuno di noi anziani riuscirà mai a raggiungere il grado di raffinatezza, nel loro modo di esprimersi, dei cosiddetti “nativi digitali” e, quindi, continuerà ad apparire come un estraneo; talvolta anche un po’ buffo. Rabbia in quanto, così facendo, si negano ai giovani le ricchezze di altri linguaggi che, invece, probabilmente apprenderebbero molto volentieri anche perché sono stati proprio questi linguaggi, apparentemente desueti, ma in realtà ancora necessari, a creare non soltanto gli aspetti detestabili e deteriori del mondo in cui stiamo vivendo, ma anche quelli che innegabilmente hanno continuato a rendere mediamente migliore la vita degli uomini sulla faccia della Terra. E che si sono consumati nel tentativo inesausto di creare proprio quei sogni sui quali – è vero – ci si divide troppo spesso.

Parlare di questi linguaggi mi sembra particolarmente doveroso oggi, 4 dicembre, primo anniversario della schiacciante vittoria dei “No” al referendum che ha impedito lo stravolgimento della nostra Costituzione che, se cambiata nel senso voluto da Renzi, con il famigerato “combinato disposto” avrebbe creato un serio deficit, se non una vera e propria voragine, nella nostra democrazia.

Ovviamente non dimentico che la vittoria dei “No” è stata dovuta sicuramente non soltanto alla determinazione di coloro che credono ancora nella nostra Costituzione, ma anche dalla scelta di quelli che hanno votato per antipatia, o per convenienza politica, contro Renzi. Ma vorrei anche ricordare che quando si tratta di votare soltanto contro Renzi le percentuali di chi va alle urne restano sempre molto basse, mentre al referendum sono andati ai seggi oltre il 65 per cento degli italiani aventi diritto. E credo che nel farli andare alle urne molto abbia inciso il fatto di sentir parlare finalmente con sincera convinzione di ideali e non di convenienze, o di interessi.

Buon 4 dicembre, data importantissima per la nostra democrazia, a tutti.


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