mercoledì 20 settembre 2017

Una questione di dignità

Ma qualcuno si ricorda ancora che quello di sinistra è stato un concetto molto serio e che per molti – o almeno per quelli che di sinistra ancora si sentono – continua a essere tale? La domanda sorge spontanea visto che sono tanti quelli che sembrano pensare che ormai sia soltanto un fastidioso ricordo del quale ancora due cose soltanto possono essere utili: non tanto i valori che spesso finiscono per diventare dei fastidiosi impicci, ma l’uso del nome, che talvolta può fungere da ottimo travestimento, e l’accaparramento di una parte degli elettori che hanno sempre votato a sinistra e che ancora non si sono stufati di andare alle urne senza mai trovare la possibilità di dare un voto a chi quel fastidiosi valori vuole tuttora portare avanti.

Adesso, per esempio, va di moda presentarsi come salvatori della sinistra che si oppone al renzismo, ritenendolo profondamente diverso rispetto alla sinistra, proponendo di coagularla per poi – e qui c’è il colpo di genio – farla alleare con il renzismo stesso. Lo sta proponendo Pisapia – un lungo pedigree di sinistra – a livello nazionale e adesso – come una copia carbone e con un pedigree molto più breve – lo propone anche Honsell a livello regionale. E il fatto merita alcune considerazioni.

Per prima cosa bisognerebbe spiegare che senso avrebbe avuto opporsi al PD di Renzi, o, per chi vi era iscritto, uscire dal partito, per poi adeguarsi al volere dell’attuale segretario che continua a sostenere che è il PD, come elemento catalizzatore di un cosiddetto centrosinistra, ad avere il diritto di indicare linea ed eventuale premier.

Poi, al di là di ovvie considerazioni sulle possibili e anche naturali mire personali di coloro che puntano a ergersi a protagonisti in un frangente tanto confuso e burrascoso, questa appare come un’ulteriore prova che tra la politica, o meglio i politici, e gli elettori non c’è più una reale comunicazione e comprensione. Ma davvero qualcuno può pensare che senza una vera discontinuità di valori e di nomi (perché i valori non possono non essere legati alle persone in cui vivono) gli elettori di sinistra possano dire di aver scherzato e pensare a un’alleanza subalterna con chi hanno avversato in questi ultimi anni?
 

Renzi e compagnia dicono che in realtà le cose che hanno fatto sono di sinistra e che sono gli altri a non averlo capito. Ma allora, solo per parlare del lavoro, dando per assodato che siamo ancora molto indietro rispetto all’inizio della crisi e che siamo i penultimi in Europa sia come incremento del Pil, sia come occupazione generale e giovanile, Renzi davvero è convinto che l’attuale numero di occupati, per la maggior parte a tempo determinato, o con contratti parziali frutto di trucchi e soprusi nei confronti dei lavoratori, possa essere sia socialmente equivalente al numero degli occupati di una volta, a tempo indeterminato e per buona parte difesi dall’articolo 18?

Ma davvero l’atteggiamento renziano nei confronti della sanità e dell’istruzione pubbliche, o dell’accoglienza, può essere confuso con il sentire di coloro che sono convinti che il pensiero di sinistra, fatto di solidarietà e inclusione, porti a tutt’altre conclusioni? Ed è credibile che gli elettori di sinistra possano accettare una nuova situazione nella quale i cittadini sono chiamati a dire la loro – e parzialmente e sommessamente – soltanto una volta ogni cinque anni, mentre tra un’elezione e l’altra, devono limitarsi a osservare quello che decide e comanda il “leader”, termine molto di moda oggi, ma soltanto sinonimo di altri vocaboli che nelle varie lingue sono stati usati in altri tempi e con risultati che ancora oggi fanno rabbrividire?

E, per venire più direttamente a Pisapia e a Honsell, vorrei richiamare alla vostra memoria una data di cui molti hanno preferito non parlare più sperando che finisse in quel dimenticatoio tanto usato dalla politica italiana. Sto parlando del 4 dicembre 2016 e di quel referendum costituzionale in cui la schiacciante maggioranza degli italiani ha sconfitto coloro che volevano deformare la nostra Costituzione e che, con il famoso “combinato disposto” con una legge elettorale poi proclamata incostituzionale, intendevano stravolgere tutte le basi della nostra democrazia, non soltanto privilegiando la cosiddetta stabilità rispetto alla rappresentanza, ma convogliando potere legislativo e potere esecutivo nelle mani dello stesso gruppo dirigente, o, per essere più precisi, dello stesso “leader”.

Appare come una combinazione davvero curiosa il fatto che entrambi coloro che oggi si propongono come guida della sinistra, in quel referendum abbiano votato “Sì”, come Renzi chiedeva, e non “No”, come la sinistra indicava. Ed è interessante anche ricordare che Honsell, dopo aver fatto capire pubblicamente in sala Ajace, in maniera esplicita, che sarebbe stato giusto e doveroso votare “No”, un paio di giorni dopo ha fatto una clamorosa giravolta di 180 gradi e, a sorpresa, è diventato paladino del “Sì”.

Moltissimi dicono che in primavera la sinistra sarà destinata a perdere. E questo può anche essere. Ma pretendere che perda anche la dignità ci sembra davvero troppo.

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martedì 19 settembre 2017

Al Balducci per capire

I sondaggi continuano a dire che sta aumentando la percentuale di italiani che ha paura, o almeno forte diffidenza, nei confronti dei migranti e degli immigrati e davanti a questa situazione la politica reagisce, o alimentando questa aliofobia, o restandosene in silenzio perché incapace, per ignoranza, di controbattere filosoficamente e razionalmente questa tendenza che non soltanto è aberrante, ma che spesso nella storia è dilagata fino a portare a immense tragedie, o addirittura, proprio pensando ai voti delle prossime elezioni, strizzano l’occhio a chi cancella dal proprio animo ogni momento di solidarietà nei confronti di chi è diverso per lingua, religione, o colore della pelle sperando di lucrare qualche voto in più. Per questi ultimi il dubbio è se hanno soffocato i loro valori etici, o se non li hanno mai avuti; ma la questione, ai fini di un giudizio morale, è del tutto ininfluente.

Se, però, la politica è incapace di affrontare razionalmente questioni spinose come questa, per fortuna ci sono movimenti, organizzazioni, centri culturali che sanno farlo e che, soprattutto, anche lo fanno. In quest’ottica acquisisce ancora maggiore importanza del solito il venticinquesimo Convegno del Centro Balducci che si svolgerà da domani, mercoledì 20 settembre, a domenica 24 nella sede del Centro, a Zugliano con un nutrito programma del convegno di cui potete prendere visione cliccando il link in calce.

Ma al di là dei contenuti, quest’anno il convegno settembrino del Centro Balducci riveste un’importanza particolare in quanto il numero 25 non si riferisce soltanto all’edizione del Convegno, ma anche agli anni di vita del Centro stesso e al fatto che è passato un quarto di secolo dalla morte di padre Ernesto Balducci (nella foto), che al Centro dà il nome e il 25 aprile del 1992 ha perduto la vita in un incidente stradale.

Sono molti i nomi di richiamo che affiancheranno don Pierluigi Di Piazza in questi cinque giorni. Ve ne elenchiamo soltanto qualcuno: Vito Mancuso, Gonzalo Ituarte, Alex Zanotelli, Flavio Lotti, Loris De Filippi, Mario Vatta e Luigi Ciotti. Ma tutti i relatori sono da ascoltare con attenzione per riuscire a capire non dove va il mondo, ma dove dovrebbe andare.

Il programma del Convegno
 

Appuntamento al Balducci

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lunedì 18 settembre 2017

La domanda e l’offerta

Polibio, nelle sue “Storie”, ha scritto: «Coloro che sanno vincere sono molto più numerosi di quelli che sanno fare buon uso della loro vittoria». Davanti a questa antica massima ci si rende conto che da quei lontani tempi ben poco è cambiato, se non, forse, per la percentuale di coloro che pensano di usare un’eventuale vittoria per il bene comune e non per quello proprio. E – lo stiamo vedendo costantemente – anche in campo politico davanti allo scopo primario della vittoria, tutto il resto, ideali e valori compresi, passa in secondo piano, se non viene visto addirittura come un fastidioso intralcio.
Io non so se le mie idee siano vincenti, ma sono sinceramente convinto che siano giuste e sono sicuramente pronto a impegnarmi per tentare di far prevalere le mie idee e i miei valori, mentre non sono assolutamente disponibile a darmi da fare per aiutare a vincere qualcuno che poi non si sa cosa farà dell’eventuale vittoria, anche e soprattutto perché non ha sposato con decisione, né idee, né valori, ma si è barcamenato alla ricerca di intercettare, tramite l’analisi dei sondaggi, l’umore e i voti degli elettori.

Un esempio eclatante – e paradossalmente benefico per capire in che clima stiamo vivendo – ci è giunto in questo senso da Lampedusa, l’isola simbolo dell’accoglienza ai migranti, protagonista del docufilm “Fuocammare”, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino, e che era stata proposta con i suoi abitanti a premio Nobel per la pace.

Ebbene, nel passaggio di consegne tra la prima cittadina Giusi Nicolini e il suo successore Totò Martello, la tendenza si è totalmente invertita, tanto che l’attuale sindaco chiede la chiusura del centro di accoglienza e punta il dito contro i migranti che accusa di «minacce, molestie, furti». A lui risponde la Nicolini accusandolo di terrorismo psicologico e rilevando che «basterebbe controllare il numero delle denunce presentate ai carabinieri: a me risulta solo un furto da un negozio di frutta e verdura; inoltre l’isola è piena di turisti e non mi pare che ci siano state molestie da parte di tunisini».

Un botta e risposta non particolarmente commendevole, ma la cosa potrebbe anche rientrare nell’inevitabile animosità tra due personaggi che sono stati avversari nell’ultima campagna elettorale (Giusi Nicolini aveva preso il posto di Totò Martello dopo due suoi mandati e quest’anno aveva rifiutato di farsi da parte per lasciargli di nuovo il comune). Quello che più impressiona, invece, è l’assordante silenzio del PD; perché entrambi appartengono al partito di cui Matteo Renzi è segretario: Martello, candidato ufficiale del partito alle comunali, e Nicolini, che oggi fa parte della segreteria nazionale del Pd.

Un silenzio assordante, ma non sorprendente, visto che, tra i tanti esempi, già nello stesso partito convivono nel silenzio, dopo uno scoppiettio iniziale, le posizioni del ministro Graziano Delrio che ha definito «un atto di paura» il forse temporaneo ritiro del suo partito davanti alle difficoltà per far passare al Senato la legge sullo “ius soli” e quelle di Matteo Orfini che accusa Delrio di strumentalizzare (per cosa, poi?) l’alt imposto da Alfano e dai suoi alle legge. Come dal professionale silenzio del partito sono state assorbite le vibrate critiche sempre di Delrio contro il decreto Minniti sul codice per le Ong.

Difficile pensare a casi di naturale amnesia. Molto più comprensibile collocare queste ormai silenziate contraddizioni in un solco di comportamento che punta a raccattare voti sia a destra, sia a sinistra presentandosi, a seconda delle occasioni, come paladini di una delle due parti e, a seconda dei casi, presentando a riprova una delle due posizioni in contrapposizione. Del resto Matteo Renzi da sempre ha proclamato di fare cose di sinistra, anche se poi si è alleato con schegge della destra riuscendo anche a far passare provvedimenti che la destra, da sola, non era mai riuscita a far approvare.

Forse, per non restare vittime di queste volute ambiguità, che non esistono soltanto nel PD renziano, ma dominano anche nel movimento di Grillo, oltre che nel centrodestra berlusconiano, sarebbe il caso di invertire quello che è diventato un automatico iter democratico in cui l’importante è l’offerta dei partiti alla quale aderire, o meno. Oggi sarebbe più giusto dare importanza alla domanda esplicita di gruppi di elettori; non chiedendo poi ai partiti di aderirvi indiscriminatamente come già stanno facendo di fronte ai sondaggi, a prescindere da cosa questi indichino, ma pretendendo che, di fronte a prese di posizione non solo contraddittorie, ma spesso diametralmente opposte, ne sia scelta una sola e in maniera chiara. Altrimenti non di democrazia si tratta, ma di puro e semplice mercato al ribasso.

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venerdì 1 settembre 2017

La spinta al voto utile

Con il ritorno alla ribalta del “voto utile” («Votate per noi, altrimenti vincerà Grillo, o la destra»), si è sentito spesso usare il termine “tragedia” nel caso dovessero, appunto, andare al potere – a Roma, a Palermo, a Trieste, o in qualunque altro posto – Grillo, o Salvini e compagnia. Detto che, a mio modo di vedere, un voto sarebbe utile se a vincere fosse un centrosinistra di fatto e non soltanto uno che si autodefinisce tale, è il termine “tragedia” che sollecita un ragionamento politico su come perdiamo contatto con i reali significati delle parole e, quindi, con la realtà dei fatti.

A dire il vero, la parola tragedia ha già indicato svariate situazioni diverse: dai canti che, come l’etimologia più accreditata indica, gli antichissimi greci eseguivano durante i riti dionisiaci, si è passati al nobile genere teatrale intriso di lutto e sventura reso immortale da Eschilo, da Sofocle e da Euripide. Riportato in auge e modernizzato, con cupezza e violenza, da Shakespeare, è stato esplorato da tantissimi tragediografi in varie lingue, fino a riperdere il tono di sacralità e tornare quasi alle origini, visto che il lessico comune indica come “tragedia” qualsiasi intoppo, o evento sfortunato, dal ritardo causato dalla foratura di una gomma, alla retrocessione della squadra per cui si fa il tifo.

n questo caso, però, interessa mettere in rilievo la profonda differenza che passa tra la tragedia greca e quella shakespeariana. Gli eroi di Sofocle, come Edipo, Antigone, Aiace, in genere non sono personaggi malvagi come spesso sono, invece, quelli del bardo, come Macbeth, Riccardo III e altri ancora. Ma i greci mai avrebbero potuto capire cosa ci potesse essere di tragico nella morte di un malvagio, perché il castigo per una condotta immorale era giusta. Il dramma, semmai, sarebbe insorto se la colpa fosse rimasta impunita.

Al contrario della maggior parte di quelle moderne, la tragedia greca trova vita, invece, nella contrapposizione tra due forme diverse di bene, o, almeno, di legittimità. Antigone, per esempio, non ha nulla di malvagio e la tragedia prende vita nel momento in cui l’eroina di Sofocle, andando contro le leggi di Tebe e richiamandosi a quelle degli dei, esige che sia data sepoltura al fratello Polinice, pur ritenuto colpevole di tradimento. Neanche il novello re Creonte, però, può essere accusato di malvagità in quanto, signore della polis, incarna una legge che non può ammettere eccezioni, pena lo sgretolamento dell’ordine costituito. Oggi si potrebbe obiettare che il signore di Tebe, agendo per far rispettare l’ordinamento pubblico, operava anche per far rispettare se stesso, visto che in quei tempi leggi e re inevitabilmente coincidevano. Anzi, la figura del re non si allontanava troppo neppure da quelle degli dei. Però, sta di fatto che Creonte mette in pratica la stessa condotta tenuta da Socrate che, davanti alla condanna a morte, rifiuta una possibile evasione per non incrinare l’autorità dello Stato.

Da tutto ciò non possono non derivare alcune considerazioni di grande importanza.

La prima è che, sia rispetto ai tempi di Sofocle, sia a quelli di Shakespeare, la grande differenza in quelle che oggi definiamo tragedie è che manca la passione. Esiste ed è ben vivo il concetto di utilità personale, o di gruppo, ma soltanto raramente appare l’idea che sia doveroso battersi per valori in cui si crede, per il bene generale e non soltanto di pochi.

La seconda è che sembra che abbiamo perduto completamente di vista un insegnamento tramandatoci dai greci e segnatamente da Sofocle che è stato il primo a sottolineare che il tragico, in una democrazia, consiste nell’incapacità di ascoltarsi a vicenda e che, cioè, tra persone che hanno le loro ragioni, la tragedia comincia quando tutte le parti in causa, sorde a ogni ragionamento, reclamano l’assoluto rispetto della totalità dei propri convincimenti, anche se molte voci diverse – quasi una specie di coro greco – le mettono in guardia dal perseguire, fino all’inevitabilmente tragica conclusione, il proprio obiettivo; quasi fosse l’incarnazione di una verità assoluta che tutti sanno appartenere soltanto agli dei e che forse può essere appena sfiorata dagli uomini.

A una lettura distratta potrebbe sembrare che Sofocle affermi che il dialogo debba essere praticato sempre e comunque, ma, valutando il tutto con più attenzione, appare chiaro che il tragediografo greco sottolinea come debbano esserci dei limiti oltre i quali il dialogo non può allungarsi; e non per scelta di superbo orgoglio, ma proprio perché le posizioni sono totalmente divergenti e chiaramente inconciliabili. Qualche esempio attuale, oltre quello antico tra Antigone e Creonte? Non ci può essere dialogo tra accoglienza e razzismo, né tra uguaglianza e censo; oppure tra predominanza del lavoro, o della finanza; tra tassazione progressiva, o teoricamente uguale per tutti; tra sanità e scuole che non discriminano tra ricchi e poveri e altre che privilegiano soltanto chi se lo può permettere; tra la ricerca di alleanze soltanto per vincere, o per far perdere gli altri, e l’ideale di operare insieme a coloro che hanno valori simili ai propri. Come una volta non poteva esserci mediazione tra laicità e confessionalismo. Sono tutte scelte tra tesi che, a seconda dei propri valori, uno può considerare legittime, ma che non possono non portare a scontri che prevedono un vincitore e uno sconfitto; che non deve essere sempre e comunque il popolo.

A questo punto, se si richiede un voto utile per alleanze di grande spericolatezza, lo si può sicuramente fare, ma si tratta di vedere e capire per chi quel voto sarà utile. Se soltanto per qualche gruppo, o per l’intero Paese.

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