lunedì 28 agosto 2017

Il concetto di sconfitta

Qui non si tratta più di rassegnarsi a una sconfitta comunque quasi scontata. In questo caso la sconfitta – anche se è difficile dirlo – in realtà è auspicabile. Perché una cosiddetta vittoria conseguita grazie ad alchimie di alleanze sempre più spericolate e sempre meno politiche non farebbe altro che conficcare un’altra dozzina di chiodi sulla bara del centrosinistra, mentre una sconfitta finalmente potrebbe dare – e sottolineo che sto usando il condizionale – una scossa per far rinascere un centrosinistra di fatto e non di nome. E, dicendo questo, non penso soltanto al bene della sinistra, ma dell’intero Paese perché l’Italia, al di là dei risultati elettorali ha assoluto bisogno di una sinistra illuminata che sappia coniugare i principi di uguaglianza, giustizia sociale, solidarietà, accoglienza e dignità. Come del resto ha bisogno anche di una destra illuminata che sia in grado di mantenere alti i concetti del conservatorismo e delle differenze sociali senza scadere in concetti come quelli del razzismo, dell’egoismo, del nazionalismo, del diritto del più forte nei confronti del più debole.

Ma a me interessa della sinistra e, sapendo bene che in questo momento il centrosinistra non può vincere senza il PD, mi convinco sempre di più che con questo PD non si può stare e che, quindi sia più opportuno cercare di sfruttare al meglio, lavorando per un futuro il più possibile prossimo, un’inevitabile sconfitta.

Parole senza senso, le mie? Forse, ma al di là di tutto quello che è successo e del fatto che non si possono dimenticare né il 4 dicembre 2016, né leggi come il Jobs Act, o la Buona scuola, o quel moncherino criticato anche dall’Europa e chiamato Legge sulla tortura, tanto per citarne soltanto tre, vi invito a riflettere su un altro paio di cose.

Alla Festa dell’Unità (avvilente umorismo involontario) di Bologna, gli organizzatori hanno distribuito un questionario nel quale, dopo tante domande generiche, si chiede ai frequentatori dell’appuntamento se è meglio che il PD si allei con Beppe Grillo, con il centrodestra, o (terza e ultima opzione) con la sinistra.

I dirigenti del PD bolognese lo descrivono come «una bella scelta di democrazia» e non si rendono neppure più conto che una scelta politica dovrebbe corrispondere a un progetto che dovrebbe a sua volta discendere da una scelta ideale, anche se non più ideologica. Trattano l’avvenire dell’Italia come se fosse un problema di preferenza tra tortellini, pasticcio o spaghetti, in cui tutte e tre le cose sono capaci di nutrire il commensale in maniera sana e in cui i dubbi possono dipendere soltanto dai gusti personali ed eventualmente da un veloce calcolo delle calorie.

Chiedere agli elettori quale linea politica preferirebbero fosse scelta dal loro partito non è ricerca di democrazia, ma semplicemente caccia al voto andando a promettere quelle alleanze (sempre ammesso che le controparti siano poi disposte a sottoscriverle) che siano capaci di soddisfare il maggior numero di coloro che poi potrebbero votare PD.

Sottoporre agli elettori un questionario simile, infatti, significa rovesciare completamente la realtà. Secondo l’articolo 49 di quella nostra Costituzione che dal PD renziano non è amata svisceratamente, «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», ma tenendo ben presente che i partiti politici possono essere definiti come associazioni di persone che hanno le stesse idee e gli stessi interessi e che, quindi, prendono parte, sono partigiani e, attraverso un’organizzazione stabile, hanno l’obiettivo di influenzare l’indirizzo politico del Paese. Quindi le principali funzioni dei partiti politici in Italia, come in tutti gli altri Paesi democratici, sono quattro: hanno il compito di “formare” gli elettori dal punto di vista ideologico e politico; di selezionare i candidati da presentare nelle liste elettorali; di inquadrare gli eletti con la disciplina e la coerenza di partito; e di garantire la comunicazione tra elettori ed eletti tra un elezione e l’altra.

Qui, invece, non si formano gli elettori, ma neppure si viene formati da loro perché il concetto di forma è qualcosa di stabile e ben definito, mentre il partito, secondo questo nuovo concetto, è totalmente plastico e flessibile, ben disponibile a cambiare forma, e anche contenuto, a seconda delle convenienze. La realtà è che non si tratta più di partiti politici, ma di puri e semplici comitati elettorali. E, personalmente, se sono pronto a spendere tempo e impegno per difendere un ideale, non sono assolutamente disponibile a farlo per garantire l’elezione a un uomo, o a una donna, che hanno come primo obbiettivo la gestione del potere e non la ricerca del bene dei cittadini che a lui, o a lei, si sono affidati.

Dicono anche che, però, si dovrebbe dare spazio a iniziative come quelle di Pisapia che operano più sull’inclusione che sull’esclusione. Si tratta di una formula affascinante che, però, mostra subito la corda in quanto non proprio tutto può essere incluso, soprattutto se alcuni ideali da tentar di tenere insieme sono addirittura divergenti. In più anche la coerenza è un valore importante soprattutto se non si vuole prendere in giro gli elettori che si vorrebbe convincere a votare per sé. Per venire alla cronaca, Pisapia non può dire che «È evidente che Alfano è incompatibile con il centrosinistra» e poi, un paio di giorni dopo, fare un’alleanza per le elezioni siciliane alla quale partecipa proprio Alfano. O, meglio, lo si può dire, ma senza pretendere di parlare ancora di centrosinistra. E anche senza ipotizzare di diventare la guida che riporterà in primo piano i valori del centrosinistra.

Una cosa simile l’ha già fatta Renzi e i fatti sono lì a dimostrare che sono centinaia di migliaia di iscritti al PD, di simpatizzanti e di votanti che da quel partito si sono allontanati con la piena coscienza che era diventato un altro partito. Assolutamente legittimo, ma assolutamente non di centrosinistra.

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domenica 13 agosto 2017

Presente e futuro

E se, tanto per cambiare, cominciassimo a parlare del vero problema della sinistra che, guarda caso, è contemporaneamente il grande vantaggio sia della destra che prospera su egoismo ed eterofobia, sia del grillismo che lucra sulla diffusa e pur giustificata insoddisfazione generale facendo credere che si possa vivere senza un ideale sociale e politico? Perché quello che distrugge la sinistra e contemporaneamente esalta il conservatorismo e tutti i populismi è la scelta di guardare soltanto al presente con l’inevitabile conseguenza che si finisce per non pensare più a un futuro che sia lontano da noi di più di qualche mese.

Quella di una sensibile perdita del nostro rapporto con il tempo è una realtà incontestabile, tanto che la si nota anche nell’impoverimento della nostra lingua che, tanto per fare un esempio, sta perdendo la capacità di percepire le sfumature tra imperfetto, passato prossimo e passato remoto e sta vedendo usare sempre più diffusamente il cosiddetto presente storico. Ma ancor più grave, dall’altra parte della scala, è la quasi totale scomparsa del futuro anteriore che indica fatti che sono considerati come compiuti, ma che devono ancora verificarsi perché si trovano nell’ambito dell’avvenire. Il futuro anteriore, insomma, indica i propri progetti, le proprie determinazioni, tanto da diventare, prendendo in prestito il titolo di un libro di Michela Murgia, un vero “futuro interiore” in quanto è il momento in cui siamo noi a confrontarci con noi stessi, mettendo in evidenza sogni e desideri e confrontandoli con la volontà di realizzarli.

Viviamo, insomma, in una specie di presente ipertrofico che cannibalizza il passato – che può disturbare con i suoi ammonimenti – e che nasconde il futuro le cui problematiche potrebbero distrarci, o addirittura allontanarci drasticamente dall’impegno di trarre il massimo godimento possibile dal momento che stiamo attraversando.

E se questo fa il gioco della destra che vuole consolidare poteri e tradizioni cancellando molte questioni che la metterebbero in crisi, ma anche dei populismi che tentano di procedere a colpi di teatro che ben poco hanno a che fare con il progresso reale di una società, per la sinistra, che nasce proprio per trovare nuove strade che allarghino i campi della giustizia, della solidarietà, dell’uguaglianza, una scelta rivolta principalmente al presente corrisponde a un suicidio senza scampo in quanto comporta la negazione della propria stessa natura.

Purtroppo è questa l’atmosfera che stiamo respirando da troppe parti, in un silenzio assordante di chi finalmente ha deciso di ribellarsi e che ora non sembra capace di enunciare a voce stentorea perché lo ha fatto e perché è orgogliosa di averlo fatto, e in un chiacchiericcio necessariamente indistinto da parte di coloro che vorrebbero accreditarsi come punti di riferimento della sinistra, mentre altro non sono che altri protagonisti di una compagnia di giro che è la responsabile dello sfascio di una sinistra che, per paura di disturbare e di risultare fastidiosa, continua a non parlare di futuro, ma soltanto di presente.

E non solo è molto meno capace di farlo rispetto alla destra che pratica questa strategia da sempre, ma si rivolge inutilmente a cittadini che, invece, vorrebbero ancora parlare di progetti e di utopie e che, non sentendo nulla di tutto ciò, continuano ad allontanarsi da una politica che non c’è più e che è ancora e sempre l’unico metodo per dare vita a una vera democrazia.

Facciamo alcuni esempi; necessariamente pochi e incompleti e obbligatoriamente brevi.
Quale sinistra è quella che consente, soltanto con pochi mugugni, di colpevolizzare tutte le Ong che si prodigano nella salvezza dei migranti e non scevera il grano dal loglio andando a colpire direttamente soltanto quelle che sono false organizzazioni umanitarie? E quale sinistra può esultare se il numero degli sbarchi in Italia è diminuito perché ora i trafficanti di uomini ritengono più facile sbarcare in Spagna? Una volta non si sarebbe cercato di spostare geograficamente il problema, in attesa che tutto si ripresenti quando sarà la Spagna ad alzare muri, ma ci si sarebbe impegnati, in casa e fuori, per risolvere davvero il problema e non si sarebbe rimasti in stolido silenzio a lasciar passare il concetto che soltanto il rischio di morire a causa di una guerra può giustificare una fuga; non quello di crepare per torture, carestie, epidemie, sfruttamenti, schiavitù.

Quale sinistra accetterebbe di avere sotto il suo stesso tetto coloro che sostengono i condoni edilizi che stanno continuando a rovinare il nostro Paese soltanto per arricchire i soliti noti? Eppure la paura di cacciare chi ha nelle sue disponibilità un numero consistente di voti impedisce qualunque azione di reprimenda, o di espulsione di coloro che lasciano vivere l’abusivismo, perché i voti attuali appaiono ben più importanti dell’ambiente futuro.

Come fa a definirsi di sinistra chi, sempre per puri scopi elettoralistici, nega la progressività della tassazione imponendo sacrifici che proporzionalmente distruggono i più poveri e non fanno neppure il solletico ai più ricchi? E lo fa senza rendersi conto che in futuro le divaricazioni sociali tra primi e ultimi diverranno sempre più drammatiche e foriere di ulteriori disgrazie.

E stiamo parlando di sinistra se, in vista delle prossime elezioni nazionali, regionali, comunali, il requisito fondamentale per individuare i candidati non è il loro credo politico e sociale manifesto, bensì la fama del loro nome? Se la cosa più importante è tentare di vincere apparentemente e non ricostruire sulle macerie che ci circondano?

Quale sinistra è quella che non si pone come punto fondamentale quello di recuperare i propri valori sociali ed etici nel bisogno di riconquistare la voglia di prendere parte, cioè di essere partigiani, e di farlo pubblicamente, non vergognandosi delle proprie idee, ma, anzi, essendone orgogliosi? Né appare possibile cercare un candidato purchessia «perché altrimenti vincerà la destra». Il male maggiore non consiste nel fatto di perdere una tornata elettorale, bensì nel negare se stessi condannandosi a sparire definitivamente. E questo non perché scompaiono le persone, ma perché vengono cancellati idee e ideali, perché si rinuncia a costruire per quel futuro che soltanto la sinistra ha davvero interesse a ricominciare a ipotizzare con progetti che rendano le utopie luoghi che non è vero che non esistono, ma che, semplicemente, non si è ancora riusciti a raggiungere.

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lunedì 7 agosto 2017

In segno di gratitudine

La scomparsa di Franco Colle spalanca tanti grandi vuoti in una comunità che sempre meno tende a sentirsi tale se non in alcuni temporanei momenti, come questo, di dispiacere condiviso.

La sua morte ha creato voragini di dolore all’interno della sua famiglia che per lui è stata sempre un punto di ancoraggio irrinunciabile, oltre che preziosissimo. E ha profondamente rigato di tristezza un mondo dello sport – e non solo dell’atletica – in cui la sua figura si è stagliata per decenni come una specie di sicuro punto di riferimento, di faro capace di illuminare la rotta di atleti che gli dovranno per sempre tantissimo tra cui alcuni – Venanzio Ortis in primis, hanno mantenuto per lui un affetto profondo. Un faro non soltanto dal punto di vista tecnico, ma anche e soprattutto dal punto di vista umano e su quel piano etico in cui non ha mai ceduto neppure di un millimetro, neppure in un’epoca in cui l’apparire è diventato apparentemente molto più importante dell’essere; in cui sembra che soltanto vincere, in qualsiasi modo, soltanto l’arrivare primi, possa placare per un po’ quella continua sete di successo nei confronti degli altri, mentre si è completamente perduto il concetto del diritto alla sconfitta, a quella sconfitta nella quale spessissimo si cela, invece, il successo nei confronti di noi stessi.

Ovviamente non intendo ricordare Franco, né dal punto di vista della famiglia, né da quello del mondo dello sport che da qualche anno aveva dovuto abbandonare sul campo, ma mai nel pensiero. Il mio ricordo vuole essere un po’ personale, un po’ a nome di tanti altri amici che di sportivo hanno ben poco ma che di lui sentono profondamente l’assenza.

Per prima cosa la mia gratitudine trova forza nel ricordare quanti preziosi suggerimenti musicali e letterari mi ha dato nel corso di tanti anni. Era un costante ascoltatore di musica classica e non appena trovava un’interpretazione davvero degna di nota, la raccomandava con calore. Come con altrettanta passione segnalava i titoli dei libri sui quali, tra i tanti che leggeva, poi desiderava discutere.

Ma l’aspetto che più mi preme ricordare di lui è quello della rigorosità di quell’impegno etico e sociale che ha portato anche fuori dai teoricamente ovattati ambienti delle gare, per applicarlo nel ben più caotico mondo di ogni giorno in cui le regole non solo spesso non sono rispettate, ma, non tanto raramente, non sono neppure scritte, né tantomeno condivise. E lo ha sempre fatto con uno sguardo e un sorriso accogliente, con una delicatezza di approccio che restava tale anche se e quando le divergenze con il suo interlocutore erano profonde.

Di politica e società si discuteva spesso durante pranzi e cene in compagnia, mentre si avvertivano sempre più distintamente gli scricchiolii che preannunciavano il crollo di molte certezze democratiche del nostro Paese. Nel 2002, uscendo da una libreria, mi chiese se ritenevo possibile che ci si limitasse soltanto a parlare e a criticare quello che stava accadendo nel nostro Paese con il dilagare del berlusconismo; se non fossimo colpevoli di una rinuncia a impegnarci , per quel che potevamo fare, a tentare di impedire l’aggravarsi del disastro. Mancava poco più di un anno alle elezioni regionali del 2003 e, su spinta di Franco, dopo un paio di affollatissime riunioni in un’osteria che ci lasciava una stanza libera per discutere, nacque il Movimento Propositivo che da quel momento continuò a organizzare discussioni e incontri non per propagandare il nome di un candidato, ma per testimoniare, parlando e ragionando, la validità di un programma di centrosinistra.

Ovviamente nessuno tenta di attribuirsi meriti che non ha, ma sta di fatto che il Movimento Propositivo, con le sue donne e i suoi uomini, è stato una costante di quella campagna elettorale e che Franco Colle ne è sempre stata l’anima fino alle elezioni che hanno visto il successo di Riccardo Illy contro Alessandra Guerra.

Poi l’esaurirsi di gran parte della spinta dei vari movimenti e il successivo ritiro, anche per motivi di salute, di Franco dall’attività diretta, ma mai da quella del ragionare e dello spronare a far sì che la volontà popolare sia capace di pungolare la politica.

Perché Franco, oltre al rigore etico, non dimenticava mai che il suo contagioso desiderio era quello di veder nascere e irrobustirsi una comunità che non si sentisse tale solo in momenti tristi come questo, ma che pensasse davvero che soltanto insieme, soltanto chiamando a lavorare unitamente tutti, anche e soprattutto gli esclusi, ci si sarebbe potuti nuovamente chiamare, a pieno titolo, “umanità”.

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