giovedì 18 maggio 2017

Il problema non è Trump

Le borse di mezzo mondo vanno in crisi; in America si risente parlare con forza di impeachment per il presidente Donald Trump e gli stessi repubblicani pensano a tutti i sistemi legali possibili per farlo uscire a forza dalla Casa Bianca e fare spazio a un presidente meno imbarazzante. E “imbarazzante” è addirittura un termine inadeguato per descrivere ciò che ha fatto soltanto in questi ultimi dieci giorni.

Riassumendo brevemente: sull’onda del Russiagate che lo insidia fin da prima dell’insediamento, il 9 maggio Trump decide di licenziare in tronco il direttore dell’FBI James Comey, sgradito perché non segue il suo consiglio di lasciar cadere le indagini sui rapporti con la Russia, in genere, e soprattutto quelle su Michael Flynn, consigliere del presidente. Il giorno dopo vuole farsi bello con un ministro di Putin in visita alla Casa Bianca e, per dimostrare il suo potere, gli rivela alcune cose che possono mettere in crisi servizi segreti alleati e alcuni agenti infiltrati che rischiano la vita. I suoi collaboratori si affrettano a smentire la notizia diffusa dal Washington Post, ma lui smentisce le smentite e rivendica non solo di averlo fatto, ma di avere il diritto di fare quello che vuole. Le conseguenze sono pesantissime a livello internazionale perché non si sa quali servizi segreti avranno ancora voglia di collaborare con quelli statunitensi, se i loro segreti vengono messi in piazza, ma anche a livello interno in quanto sempre più spesso viene ventilata la possibilità di sottoporre a impeachment il presidente per “ostruzione della giustizia”, la medesima accusa che portò Nixon alle dimissioni prima che l'impeachment fosse deciso.

Tutti stanno analizzando e stigmatizzando il comportamento di Trump ritenendolo indegno di lavorare nello studio ovale, ma il vero problema non è Trump: il vero problema è il fatto che quest’uomo è stato eletto democraticamente da un popolo che è tra quelli che maggiormente possono accedere alle informazioni necessarie per decidere. Ed è in questo senso che quello che sta accadendo a Washington deve interessare tutto il mondo perché rischia di mettere terribilmente in crisi il concetto stesso di democrazia rappresentativa per far tornare in primo piano assurdi sogni di una democrazia diretta che spera di risolvere con domande e risposte semplici e spesso irriflesse problemi di complessità estrema; oppure per far vagheggiare incubi di aristocrazie, oligarchie, dittature.

A noi italiani già la cosa dovrebbe interessare più che ad altri perché qui siamo riusciti a far diventare presidente del Consiglio un signore come Berlusconi che, quanto a pasticci, gaffe, incriminazioni e decisioni personalissime e cervellotiche, può essere considerato l’apripista di questi nuovi pseudo–protagonisti della politica internazionale. Ma ancor più deve interessarci perché proprio in questo periodo stiamo correndo un grosso rischio di affossare la nostra democrazia.

Sarebbe assurdo pensare di averla salvata con il pur importantissimo voto del 4 dicembre: è stata conservata la lettera della Costituzione, ma servirebbe ancor di più recuperarne lo spirito. E poi colui che ha tentato di distruggere la nostra Carta fondamentale è ancora in circolazione e sta tentando di riprendersi tutto il potere che in realtà non si è mai sognato di abbandonare.
 

In questo quadro, francamente sconfortante, sono almeno due le cose che è urgente fare.
La prima, la più immediata, è quella di impegnarsi a vigilare e a lavorare perché sia realizzata una legge elettorale degna di questo nome, che magari non sia chiamata con un termine in latino maccheronico che dimostra, tra l’altro, la mancanza di fantasia dei nostri parlamentari e la rassegnazione a seguire quelle che si ritengono essere le mode, ma che, soprattutto, oltre a non essere soggetta a venir ancora una volta cancellata dalla Corte Costituzionale, rispetti il principio di rappresentatività e permetta ai cittadini di scegliere davvero i propri delegati al Parlamento. E, invece, appare chiaro che Renzi e i capi di tutti gli altri schieramenti hanno in testa soltanto tre obbiettivi: fare la legge che sul momento sembri maggiormente favorire il proprio partito, curare molto di più la cosiddetta governabilità che la rappresentanza, e, comunque, assicurare l’elezione ai più fedeli, togliendo gran parte delle possibilità di scelta ai cittadini.

In più sembra evidente che si stanno sforzando di far rientrare dalla finestra ciò che è stato calciato a calci dalla porta, cioè l’abolizione del Senato. In questo caso non sparirebbe, ma, grazie al fatto che stanno tentando di fare leggi uguali, e non soltanto armoniche, per i due rami del Parlamento, diventerebbe praticamente inutile in quanto ricalcherebbe perfettamente la stessa composizione della Camera e i due rami del Parlamento non avrebbero più quelle funzioni di reciproco controllo che sono state fin qui molto utili in tantissime circostanze. Dicono che in altri Paesi tutto questo non esiste. Ma pensare alla Camera dei Lord che blocca almeno temporaneamente la Camera dei Comuni sulla Brexit; pensate agli Stati Uniti dove spessissimo uno dei due rami del Parlamento ha bloccato le iniziative dell’altro se non, addirittura, quelle del presidente, anche se era incommensurabilmente più serio di Trump.

La seconda questione, più lunga e più difficile, consiste nella ricostruzione dei partiti politici che si sono trasformati – praticamente tutti – in semplici comitati elettorali al servizio di un leader che non guida, ma comanda; comitati nei quali è richiesta obbedienza cieca, faccia di bronzo nelle dichiarazioni pubbliche per non spiegare cosa in realtà stia succedendo, e totale rinuncia a qualsiasi velleità di discussione reale perché tutto deve essere veloce ed efficiente, mentre la coscienza – lo sappiamo tutti – è qualcosa che richiede dubbi, tempo, macerazioni e scontri. Ma è anche quel patrimonio che permette di capire quanto di quello che è proposto da qualcun altro è accettabile, se non addirittura buono, e, quindi, è l’unico sistema per arrivare a quelle mediazioni che non devono essere vituperabili inciuci, bensì traguardi nei quali ognuno accetta le buone idee dell’altro con il comune obbiettivo del bene generale.

Utopie? Non credo. Ma, se non si comincia a lavorare, quegli obbiettivi si allontaneranno sempre di più. E non dobbiamo mai dimenticare che spessissimo la storia umana ha dimostrato che l’utopia non è un luogo che non esiste, ma soltanto un luogo che non è stato ancora raggiunto.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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