sabato 15 aprile 2017

Resistere, infinito presente

Ci avviciniamo al 25 aprile e sempre più fitti sono gli incontri che vogliono ricordare la Resistenza, ma anche rinnovare l'impegno di difesa della nostra democrazia e della Costituzione. Una delle più significative, organizzata dal comitato udinese di Libertà e Giustizia e dalla sezione udinese dell'ANPI, con il patrocinio del Comune, si è svolta giovedì pomeriggio in sala Ajace e aveva come titolo "Resistere, infinito presente" e ha visto la partecipazione, con me, di Monica Emanuelli, di Angelo Floramo e di Adriano Virgilio. Riporto qui la mia introduzione.

A me spetta il compito di introdurre questo incontro, “Resistere, infinito presente”, che poi vivrà sull’intreccio dei pensieri di Monica Emmanuelli, Adriano Virgilio e Angelo Floramo su aspetti storici della Resistenza, sull’ancora doverosamente attuale impegno per la difesa e l’attuazione della Costituzione e sulla necessità di impegnarsi a tener viva la memoria. Io, però, vorrei dapprima soffermarmi brevemente sul titolo il cui significato va ovviamente ben al di là del significato grammaticale che illustra modo e tempo della forma verbale “resistere”. È, invece, un’allegoria in cui è palese che “resistere” in questo caso assume il significato di un imperativo impersonale, e che l’“infinito presente” indica che la necessità di tenere vivo il concetto di resistenza non ha, né avrà fine, perché mai ci si potrà illudere che la stirpe dei prevaricatori possa sparire definitivamente dalla Terra.

Ma al di là di questa prima spiegazione, già ben specificata nel sottotitolo, questo titolo mi ha sollecitato qualche ulteriore riflessione. In altre occasioni ho sottolineato che la Resistenza non è stata una rivolta, perché la sua repentina fiammata iniziale non si è rapidamente esaurita, e nemmeno una rivoluzione perché è scaturita quasi spontaneamente, senza lunghe preparazioni filosofiche e politiche. È stata, però – raro esempio nel mondo e nella storia – la sommatoria di queste due cose perché ha chiamato subito in campo tantissima gente chiedendo anche sacrifici estremi, e poi ha saputo allungare i suoi benefici influssi per sempre – mi sarebbe piaciuto dire – ma in realtà per alcuni decenni, lasciando comunque in buona parte della popolazione la voglia di resistere ancora per difendere la propria dignità, libertà e indipendenza.

Ancora oggi sono convinto che sia necessario tracciare una netta linea di demarcazione tra rivolte e rivoluzioni. Perché sono diverse in termini di dimensioni, ma anche di respiro e progettualità: se la rivolta, infatti, è localizzata, quasi istintiva e limitata al raggiungimento di alcuni risultati pratici, la rivoluzione non ha necessariamente bisogno della violenza perché porta con sé grandi obbiettivi ideali e punta a cambiare profondamente la società in cui si sviluppa, soprattutto dal punto di vista sociale e, quindi, etico. E, proprio per questa sua capacità di puntare a grandi mutamenti, finisce per coinvolgere persone di svariati ceti sociali e sparse su larghe estensioni di territorio.

Esiste, quindi, una corrispondente differenza anche tra rivoltosi e rivoluzionari. Ma, pensando al titolo di questo incontro, mi è sembrato inevitabile fare un ulteriore passo in avanti perché i resistenti, in realtà hanno ancora qualcosa di più della somma delle caratteristiche di queste due categorie. E mi è apparso evidente che la definizione più giusta con cui identificarli esisteva già: l’avevamo davanti agli occhi da più di settant’anni. Infatti se l’erano data loro stessi, anche se noi, pur avendola sentita tante volte, non ci avevamo fatto soverchia attenzione. I resistenti sono “ribelli”, come loro stessi si definiscono in “Fischia il vento” – «Ogni contrada è patria del ribelle» – o, ancor più palesemente in “Siamo i ribelli della montagna”.

Il fatto è che, mentre la rivoluzione ha una connotazione necessariamente collettiva, quella del ribelle è sempre una condizione individuale, tanto che il ribelle tende a restare tale anche quando la spinta propulsiva della rivoluzione di cui è stato parte attiva si è esaurita. Perché è inevitabile che, visto che anche le rivoluzioni sono momenti dialettici della storia, nessuna rivoluzione potrà mai riuscire, da sola, a rispondere ai problemi di un tempo che non è più il suo; magari anche in uno spazio che non è più il suo.

Ma, anche se la rivoluzione finisce, il ribelle resta tale e si distingue dal rivoluzionario. Quest’ultimo, infatti, può essere tanto indissolubilmente legato all’ideologia della sua rivoluzione da diventarne quasi prigioniero e da estremizzarla oltre ogni limite. A tale proposito, basterebbe ricordare il terrore giacobino che, in pratica, oltre a decine di migliaia di francesi, ha ucciso anche la stessa Rivoluzione francese. Il ribelle, invece, è colui che sceglie la strada della resistenza ogniqualvolta si trova di fronte a un potere che sente iniquo; anche se è lo stesso potere prodotto dalla rivoluzione per la quale ha lottato. Il vero resistente, infatti, ha un’inesauribile esigenza di sincerità e, quindi, di libertà.

D’altro canto, appare anche evidente che un uomo deve essere già libero per poter desiderare di diventarlo. Questa frase a prima vista può apparire paradossale, ma, in realtà, è soltanto la constatazione che, visto che di aneliti alla libertà non c’è traccia biochimica nel DNA di ognuno di noi, è evidente che per lottare per la libertà ci vogliono istruzione, memoria, conoscenza ed educazione, quasi sempre assimilate già in gioventù. In una parola, cultura; che è cosa ben diversa dall’erudizione.

Ma facciamo ancora un passo in avanti. Noi siamo abituati a pensare alla rivoluzione soltanto come a un avvenimento politico; ma, in realtà, la rivoluzione politica è arrivata ben più tardi della rivoluzione religiosa (un esempio su tutti, quella di Lutero), e ancor più tardi rispetto a quella scientifica che può vantare Keplero, Copernico e Galilei come antesignani e che proprio dal loro ambito astronomico trae il suo nome. Quando Copernico scrive il “De revolutionibus”, infatti, non soltanto vuole indicare con questo termine gli infiniti ritorni di ogni pianeta alla sua posizione iniziale rispetto alla stella attorno alla quale ruota, ma, pur sapendo che avrebbe provocato una frattura distruttiva nella costellazione delle credenze stabilite per cosiddetta “ispirazione divina”, vuole anche presentarsi come il restauratore della purezza dell’astronomia classica, portando con sé, quindi, una specie di ritorno alla posizione di partenza, all’antica libertà perduta, che si sostanzia anche con profondi cambiamenti di regole.

E anche Lutero, con le sue “95 tesi” esposte sul portale della cattedrale di Wittenberg, pur in un campo profondamente diverso, fa la stessa operazione in quanto si propone come colui che vuole ritornare al cristianesimo del messaggio evangelico, in contrapposizione alla degenerazione della Chiesa romana.

Ma in questo ritorno al passato, almeno sotto alcuni aspetti, esiste anche il rischio di una sorta di restaurazione? Certamente sì e la storia è prodiga di esempi calzanti. Ma il rischio cala fortemente, fino a tendere asintoticamente verso lo zero, se molti rivoluzionari sono anche ribelli. Perché – e anche qui l’etimologia ci soccorre premurosamente – ribellione deriva da “rebellare”, riprendere la guerra.

A questo punto, però, non possiamo sottrarci dall’obbligo di chiederci quando è lecito ribellarsi? Quando si può essere davvero certi che la propria percezione di iniquità nei confronti del potere che ci si trova di fronte sia tale da consentirci di resistere, da concretizzare il diritto di resistenza? Un diritto che è addirittura statuito in alcune Costituzioni come, per esempio, in quella tedesca che all’articolo 20 recita: «Tutti i tedeschi hanno diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio».

Comunque sulla liceità del resistere è obbligatorio riflettere. È facile dare una risposta se ci si trova di fronte a un’invasione di territori, o di diritti. Ancor più facile se queste due invasioni coincidono negli stessi prevaricatori: l’esempio negativo più chiaro è stato costituito dalla la Germania nazista. Più subdolo e difficile da dirimere è il caso in cui il pugno di ferro esercitato dal potere – che comunque tende sempre ad attribuire un significato criminale a ogni resistenza, pur legale, o addirittura all’opposizione, o a qualsivoglia non totale obbedienza alle sue pretese – se il potere, dicevo, esercita un’oppressione che vuole “spiegare” in nome della pace, della stabilità, addirittura di quella che talvolta impudentemente tentano ancora di spacciare per democrazia.

Ed è obbligatorio pensarci soprattutto se la resistenza – come quella dei nostri padri – impone di impugnare le armi. Perché invariabilmente ci troviamo di fronte a due punti di vista diametralmente opposti, in uno dei quali gli oppressori tentano di far confondere la resistenza con il banditismo. L’“Achtung Banditen” che decorava lugubremente tantissimi cartelli durante la dominazione nazista e repubblichina nell’Italia settentrionale e centrale lo dimostra in maniera palmare.

Noi siamo convintamente portati ad aborrire la violenza, ma nel passato un uomo non certamente belluino come John Milton, scrittore, poeta, filosofo, saggista e teologo inglese, quello del “Paradiso perduto”, nel 1649 (lo stesso anno della decapitazione di re Carlo I d'Inghilterra su ordine di Oliver Cromwell) ha scritto storia e difesa del tirannicidio in un libro che la Raffaello Cortina ha riportato nelle librerie italiane qualche anno fa con l’esplicito titolo “Uccidere il tiranno” scelto da Giulio Giorello per tradurre modernamente il più mimetico “I giusti poteri dei re e dei magistrati”. E, senza parlare di uccisioni, anche l’illuminista Benjamin Franklin propose di includere la frase «La ribellione ai tiranni è obbedienza a Dio» nel Gran Sigillo degli Stati Uniti. Poi, del resto, chi si sentirebbe oggi di condannare moralmente l’uomo che avesse ucciso Hitler prima che il dittatore nazista riuscisse a iniziare la guerra e a mettere in esecuzione la sua “soluzione finale”?

Fortunatamente oggi a noi non è necessario porci il problema se è lecito resistere con le armi in mano, ma questo non ci esime – anzi – dall’impegnarci nella resistenza civile con una non violenza attiva, con la capacità della disobbedienza, del rifiuto e del dissenso, sempre da esprimere in maniera palese perché diventi consapevole testimonianza erga omnes. Perché il “no”, quel monosillabo che da quasi tutti quelli che hanno in mano il potere è indicato come antipatico e vuoto simbolo della negazione, è, invece, una parola bellissima perché caposaldo della libertà, base fondante di ogni vera democrazia; perché permette il rifiuto di ragione e di coscienza, perché rende ridicoli quegli alibi che troppe volte nella storia del ventesimo secolo abbiamo sentito dal banco degli accusati dove c’era qualcuno che si difendeva rispondendo vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini».

Ricordate, vi prego, come Renzi e i suoi hanno dipinto il “No” durante la campagna referendaria che ha portato al 4 di dicembre dello scorso anno, una data che, per me, anche se non sarà mai inserita nel calendario ufficiale, resterà sempre l’anniversario della democrazia italiana. L’anniversario di una Resistenza alla quale ho avuto la fortuna di partecipare di persona anch’io e che, come la Resistenza di più di settant’anni fa, quando è scoppiata non aveva la minima possibilità di vincere. Eppure ha vinto. E ha dimostrato ancora una volta che, se vogliamo sperare, dobbiamo lottare; che se vogliamo esistere dobbiamo resistere. Lotta e speranza sono concetti che necessitano l’uno dell’altro per rafforzarsi e arricchirsi vicendevolmente. Non può esserci, infatti, lotta senza speranza; né speranza senza lotta.

Un ultimo paio di cose, ma molto importanti: il diritto di resistenza deve essere possibile per ogni cittadino perché, come per qualsiasi diritto, anche quello di resistenza deve toccare tutti, senza eccezioni. Altrimenti diventa privilegio per chi ce l’ha. E dobbiamo ricordare sempre che il frutto della Resistenza si estrinseca nella nostra Costituzione, voluta da chi ha saputo trasformare quel drammatico modo quotidiano di vivere e combattere di settant’anni fa in pacifica pratica giornaliera difendendo libertà, democrazia, lavoro, uguaglianza, dignità, giustizia, solidarietà, equità sociale e pari opportunità, nel rispetto delle diversità e del pluralismo; battendosi per i diritti umani di tutti e non soltanto di determinati, pur vasti, gruppi razziali, religiosi, culturali o economici; ripudiando la guerra.

Ecco, non possiamo non sottolineare che la Resistenza che festeggiamo il 25 aprile non è di tutti. Non è e non sarà mai di chi a questi valori – anche a uno soltanto di questi valori – si oppone. I partigiani nella loro lotta hanno compreso l’enorme valore del “diritto di resistenza” e ne hanno fatto tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della loro vita. Perché per un uomo ogni diritto, se è davvero tale, una volta conquistato non può non diventare un dovere nei confronti propri e di tutti gli altri.

Ancora un appunto. L’azione del resistere ha in sé una connotazione quasi passiva, di attesa. Il ribellarsi, invece, fa trasparire ben chiara la decisione di fare qualcosa, di impegnarsi in prima persona. Per venire a noi, resistere è stato quello che siamo riusciti a fare per raggiungere il risultato referendario del 4 dicembre; ribellarsi sarebbe quello che dovremmo fare per pretendere che la nostra Costituzione venga sempre più applicata, anziché stravolta.

Non solo resistere, quindi, ma anche ribellarsi deve diventare davvero un infinito presente.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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