domenica 30 aprile 2017

In ricordo di Leo Zanier

Si sapeva che era gravemente ammalato, ma la notizia della morte di Leonardo Zanier, pur se in definitiva attesa, non ha perduto minimamente la forza d’impatto causata non soltanto dalla perdita di un poeta di grande livello, ma anche e soprattutto di un uomo che non ha mai perduto di vista le necessità degli altri per privilegiare le proprie.

Non lo vedevo da un po' di anni, ma ci sentivamo al telefono abbastanza spesso per concordare incontri, interviste, presentazioni, ma anche, semplicemente, per salutarci, per sapere come andava, per conoscere i rispettivi progetti. Ed era sempre un piacere sentire il grattare della sua voce, così apparentemente indecifrabile e pur così inconfondibilmente comprensibile in un dialogare che non era mai soltanto professionale, ma, anzi, scivolava regolarmente nel rapporto personale, tanto che in ogni telefonata, in ogni mail concludeva invariabilmente con un «Salûts a tô maranzanota».

Ma, al di là del dispiacere personale, c’è un profondo rimpianto per la perdita di un grande poeta che, tramite la sua capacità espressiva, riusciva ad avvicinare tantissima gente ad argomenti scomodi, che di solito appaiono repulsivi soprattutto a coloro che preferiscono non sapere per non rattristarsi.

Fare letteratura è unire una parola all’altra fino a creare un’espressione compiuta che sappia esprimere e trasmettere un ragionamento, un concetto; che sia in grado di realizzare un brano di senso compiuto capace di rendere manifesto il proprio pensiero e il proprio sentire. La poesia è diversa, pur se strutturalmente simile alla prosa: unendo le parole punta soprattutto a produrre e a offrire sensazioni. In questo caso le parole, infatti, vengono accostate l’una all’altra in maniera talvolta strana, talvolta a prima vista incomprensibile, non necessariamente inserendole in schematismi bloccati dalle regole della grammatica e della sintassi. E questo aggregarsi di parole è capace di portare alla luce non i ragionamenti, bensì i sentimenti.

In quest’ottica Leonardo Zanier è esemplare: la sua poesia è capace di toccare il cuore altrui con il minimo impiego di parole. Riesce a costruire un edificio che commuove, indigna, innamora, fa pensare, usando un decimo dello sforzo che è costretto a fare un narratore, un centesimo di quello che tocca a un saggista.

Pensavo di rendergli omaggio ripubblicando la mia prefazione a “Libers... di scugnî lâ” uscito nella collana “Friuli d’autore. La biblioteca del Messaggero Veneto”, ma preferisco farlo, invece, pubblicando la mia presentazione del suo “Allora vi diciamo / Alla nazione” fatta al Balducci, assienme a don Pierluigi Di Piazza, un po’ di anni fa. Eccola.


È da tantissimi anni che Leonardo Zanier ci parla di migranti e di migrazioni ed è da altrettanto tempo che puntualmente riesce a sollecitare in noi nuovi ragionamenti e nuove sensazioni su uno dei temi più drammatici della vita dell’uomo. Ancora una volta ci è riuscito con Allora vi diciamo / Alla nazione, il cui doppio titolo inizialmente ti spiazza; non riesci a capirlo. Poi guardi il nome dell’autore e la fotografia di copertina, di Antonio Maugeri, che blocca, in un devastante bianco e nero, il mucchio quasi informe dei resti fracassati di barconi di immigranti – che non si sa se poi siano riusciti a diventare anche immigrati – a Lampedusa. E allora ti rendi conto di non aver mai visto una copertina così esplicita, così innamorata dell’uomo, così accusatrice nei confronti di chi continua a pensare che parte importante della propria vita sia anche il sopraffare gli altri.

Leonardo Zanier, scrittore e poeta di Maranzanis, in Svizzera da più di mezzo secolo, ancora una volta alza la sua voce per ricordare cos’è in realtà l’emigrazione; che è uguale in ogni tempo e in ogni parte del mondo come sempre uguali sono gli esuli alla ricerca di lavoro, di cibo, di pace, di salvezza. E capisci anche che quel “Allora vi diciamo” è la necessità, l’obbligo di raccontare questa uguaglianza tra diversi e che quel “Alla nazione” non è una pretenziosa e presupponente imposizione declamatoria, ma una disperata speranza che davvero tutti ascoltino, se non le parole di questo libro, almeno i sentimenti, i fatti, le emozioni, i ragionamenti che gli danno sostanza, e che si trovano dappertutto, dovunque un uomo fronteggi un fatto con la capacità di aprirsi non solo agli altri, ma soprattutto a se stesso; con il pressante invito a tutti a ricordare sempre che, come dice Leo, «diventare bianchi dopo essere stati i marocchini d’Europa, è l’ebbrezza che può allontanare la ragione dalla realtà».

Questa ebbrezza potrebbe far tornare alla memoria “L’orda”, il libro di Gian Antonio Stella, ma il lavoro di Zanier è completamente diverso nella scelta degli assunti di partenza, anche se porta ai medesimi punti di arrivo in quanto entrambi giungono alla conclusione che qualunque emigrante merita rispetto innanzi tutto perché è un uomo e poi per il carico di dolore, per le valigie di tristezza e sofferenza che porta con sé.

Però potremmo dire che Stella arriva a questa conclusione scegliendo di partire da un profilo basso e cioè dimostrando che per noi è un imperativo morale quello di rispettare e aiutare coloro che cercano rifugio e lavoro nel nostro Paese perché anche noi italiani, fino a qualche decennio fa, eravamo come loro, accusati di una supposta inciviltà. Zanier, invece, arriva alla medesima conclusione partendo da un assunto più alto: dalla condanna di ragionamenti e scelte che si basino su graduatorie di presunte civiltà, o inciviltà, mentre si deve pensare esclusivamente a quella che chiamia-mo umanità, con i suoi diritti e le sue sensibilità. Stella, insomma, ragiona tenendo conto della massa di persone costrette a lasciare la loro patria; Zanier appunta la propria attenzione su ogni individuo ribadendone la piena dignità a prescindere da dove viva, dal lavoro che faccia, dalla sua cultura, o dal denaro che abbia in tasca.

Zanier – e non servirebbe neppure ricordarlo – è l’autore di “Libers… di scugnî lâ” (Liberi… di dover partire), un ma¬nifesto più che un titolo; una frase che ha accompagnato la vita di centinaia di migliaia di persone che vi si identificano, che sentono assolutamente loro questa splendida sintesi di parole che racchiudono costrizione e necessità, rabbia e rassegnazione di chi va e di chi rimane, speranza e magone. In pratica è un mondo intero – quello dell’emigrazione – che nei primi anni Sessanta comincia a emergere da un mare di luoghi comuni con l’uso di quattro parole soltanto. Si passa da un’emigrazione rassegnata a un’emigrazione arrabbiata, che vuole eliminare se stessa cancellando le cause che la provocano e i dolori che da essa sono provocati.

E ancora oggi, a distanza di decenni, Zanier si indigna davanti ai soprusi commessi da coloro che pretendono braccia e non vogliono uomini ed è ben conscio che le ingiustizie possono essere cancellate soltanto con la resistenza, non solo di coloro contro i quali i soprusi si compiono, ma anche e soprattutto di coloro che vedono quello che succede e che sono tenuti a far di tutto per impedirlo. Per solidarietà, ma anche perché la distruzione della dignità altrui finisce sempre per distruggere pure la dignità propria.

Quando un essere umano si sente obbligato a lasciare la propria casa e andare lontano, lo fa soltanto perché costretto dalla necessità, da fame, guerre, torture, persecuzioni, scarse possibilità di sopravvivenza. E, facendolo, porta con sé non soltanto il fardello del suo dolore, ma anche – e forse ancor più pesante – quello del dolore di coloro che restano a casa: mogli, figli, genitori, amici, altri parenti.

In questa visione la mitologia del lavoro perde significato e pregnanza, che vengono acquisiti invece dalle realtà della lontananza, della lacerante e macerante separazione. Perché fare il minatore di carbo¬ne a Marcinelle non era molto diverso dal fare l’estrattore di zolfo in Sicilia. Perché andare a cavare sale sulle coste della Camargue non era molto diverso dal fare il bracciante agricolo nei latifondi dell’Italia meridionale. Perché soffiare il vetro in Francia non era molto diverso da quello che ancora si fa non più nelle vetrerie, ma ancora nelle fonderie, reggendo lunghe canne che si bruciano e consumano mentre vengono eliminate le bolle d’aria dalla rovente pasta di ghisa fusa. Perché attraversare su un bastimento l’oceano Atlantico non era molto diverso dall’andare a pesca su malandati barconi nel tempestoso canale di Sicilia, o nel non meno inquieto canale d’Otranto.

Lo stucchevole martirologio dell’emigrante portato avanti da certa letteratura della prima parte del ventesimo secolo, insomma, non ha senso se riferito alla differenza del lavoro. Perché il lavoro è stato drammaticamente pesante dappertutto, specialmente negli anni della massima diaspora italiana: era uguale in Italia e in Francia, in Marocco e in Svizzera, negli Stati Uniti e in Argentina, in Germania e in Belgio, in Lussemburgo e in Australia. Quello che cambiava – e che cambia ancora oggi – è il peso che questa gente si porta nell’anima, perché oltre a portare su di sé il fardello delle lontananze, delle laceranti separazioni dagli affetti, della perdita delle abitudini più rassicuranti, deve sopportare anche la non accettazione, il pregiudizio, il sospetto.

Quello che è davvero diverso, insomma, non si colloca durante il lavoro, ma si sostanzia alla fine del lavoro: quando si esce dalla fabbrica, o dal campo, e non si ritorna a casa, ma si apre la porta di una baracca; non si rientra in famiglia, ma ci si mescola a un gruppo di colleghi altrettanto stanchi e intristiti; non si vedono le proprie pianure, le montagne, i campi, le foreste, o i deserti, ma si guardano paesaggi alieni che non si desidera continuare a vedere per tutta la vita.

E c’è un cambiamento importante anche dove si viveva prima dell’emigrazione: riguarda l’impoverimento della propria terra. Un impoverimento importante e che non è economico, perché le rimesse fruttano una sia pur piccola quantità di denaro che da la possibilità di lenire certe piaghe di un’indigenza assoluta, di una povertà che si può vedere, toccare, annusare. Parlo di un impoverimento umano, morale e sociale, perché quando molti uomini e donne se ne devono andare, viene a mancare la possibilità di avere da loro un apporto emozionale, etico, solidaristico e intellettuale. Perché intellettuale non indica solo qualcosa di molto raffinato, ma la capacità dell’intelletto di elaborare ragionamenti e sensazioni che possono andare ad arricchire il pensiero altrui, a fertilizzare zone di umanità che altrimenti rischierebbero di restare sterili.

"Allora vi diciamo / Alla nazione" è un libro di prose e di poesie, una collezione di brani e di liriche di diverse epoche che, insieme, restituiscono l’immagine di realtà non travisate dalle parole, dalle propagande, dalle insicurezze. Zanier dona a se stesso – e a tutti, di qualunque nazione, pelle e lingua siano – anche le immagini di desolante umiliazione iniziale perché ancora più forte sia la gioia di essere arrivati dove si riesce ad arrivare. E ti racconta del suo primo viaggio di emigrazione verso Zurigo, nel 1956, quasi una fuga dal Friuli ancora ferito dalla guerra, senza lavoro, senza speranza, quando alla frontiera di Chiasso la polizia svizzera lo fece scendere dal treno e mettere «in fila, in mutande, con il passaporto in mano».

Ma Leo riesce a donare dignità a tutti i poveri vaganti con la domanda: «Quanti Ulisse ci saranno e ci sono stati nel mondo?». Eppure Ulisse non era uno straccione, ma un re. Eppure non cercava lavoro, ma conoscenza. Allora cosa unisce l’Ulisse di Itaca ai diseredati che vediamo respinti, obbligati in lunghe file, imprigionati? Li unisce la speranza e la disperazione, il rifiuto e la testardaggine, lo sfruttamento e l’anelito al riscatto. A prima vista si tratta di un Ulisse più omerico che dantesco perché obbligato più che curioso. Ma a ben guardare ci si accorge che entrambi sono emblemi dell’orgoglio umano che rifiuta la sottomissione a qualsiasi cosa, anche al fato, anche agli dei, pur di salvare le due uniche ricchezze che davvero possediamo: la nostra dignità di esseri umani e l’amore per i nostri cari. E la coscienza che, com’è scritto nel libro, «Domani / non è una parola / domani è la speranza / non abbiamo che lei / usiamola / facciamola diventare / mani / occhi / rabbia / e vinceremo la paura».

E Zanier – grande coniatore di parole, ruvide come la sua voce, precise come il suo pensiero – attacca ancora certi concetti come quello di “identità” cui aveva già dedicato una caustica poesia. Sottolinea che nell’attraversare le frontiere non devono importare la lontananza, le lingue diverse, le culture che non si assomigliano; non devono importare perché non esistono società ideali ed esemplari da imitare senza porre domande e instillare dubbi; perché in realtà sono gli uomini a fare la storia e a comporre queste società in continuo divenire, mescolando identità in apparenza inconciliabili, amalgamandole perfettamente anche se sembrano soltanto emulsionabili, come succede per l’olio e l’acqua che, loro sì, resteranno sempre distinguibili tra loro.

Perché identità è una parola che può tranquillizzare, ma anche spaventare e che, nella sostanza, è totalmente vuota e ben disposta a farsi sostanziare da chi la brandisce a proprio comodo, quasi sempre quando serve a innalzare un falso muro utile per dividere uomini e donne con un razzismo che, pur se non esplicito, è spesso sotterraneo. E, per dimostrarlo, Zanier ricorda il nonno di un amico nato a Cjauret che è poi Caporetto, ma anche Kobarid, ma anche Karfreit: «un nome in quattro lingue». Nonno che nasce austriaco e si ritrova italiano pur avendo combattuto nell’esercito austro-ungarico, ma nel 1946 la sua carta d’identità è jugoslava anche se si è trovato in armi contro la Jugoslavia nell’esercito italiano. Muore prima di diventare sloveno senza essersi mai allontanato nella casa dove la storia lo aveva sempre raggiunto.

Personalmente credo molto all’intangibilità delle ricchezze cultuali e non credo affatto all’intangibilità delle identità culturali. Non ci credo dal punto di vista spaziale, perché normalmente l’identità viene identificata con una porzione geografica di spazio e questa divisione funziona poco perché accoglie altre cosiddette identità ed esporta proprie identità vivendo fortunatamente, quindi, in una feconda contaminazione perenne, indotta o subita che sia. Né mi convince dal punto di vista temporale: basta soffermarci per un momento sugli aspetti esteriori della religiosità e pensare come quella delle nostre vecchie di qualche decennio fa assomigli in maniera fortissima a quella dell’islam non integralista di oggi.

Credo profondamente, invece, a due identità, queste davvero contrapposte: quella dei cittadini e quella dei sudditi. Sono le uniche identità che sopravvivono in qualunque condizione e che mi sembrano immutabili con il passare degli anni e anche con il passare dei chilometri.

E un discorso simile riguarda anche quelle lingue che rivestono un ruolo di patria per profughi e emigranti e che quindi vanno sostenute e rispettate, ma non sacralizzate con l’intangibilità perché altrimenti le parole vengono congelate, mentre devono continuamente arricchirsi e modificarsi fino a dare vita a lingue nuove fatte di vocaboli rapiti a decine di lingue diverse e poi mescolate, smussate, unite e cambiate fino a creare una delle tante lingue creole esistenti al mondo. Perché, a ben guardare, tutte le lingue sono creole, sono nate così; un po’ per invenzione e un po’ per caso. E noi che viviamo in zone di confine dovremmo saperlo meglio di altri perché le tracce lasciate da questi meticciamenti sono tante e profonde nei vocabolari che usiamo, anche se quasi mai appaiono nelle regole sintattiche che queste parole uniscono per dare forma comprensibile ai nostri pensieri.

E allora appare evidente che, pur nella lontananza, non sono importanti le lingue diverse, le culture che poco si assomigliano; non importano perché – checché ne dica qualche tronfio politico e agitatore di popoli – non esistono società esemplari da imitare senza critiche e correzioni. Ma per fortuna esistono altri uomini che apparentemente hanno meno potere, ma sono quelli che fanno la storia, intesa come progresso dell’umanità.

Le parole di Zanier sottolineano che nella vita di chi emigra cambiano lingue, religioni, dialetti, cibo, convenzioni sociali. Ma i ricordi restano. Come resta, anche se spesso inespressa, la domanda «Parcè a mi Signor?», perché proprio a me, mio Signore, che lo scrittore pone sulla bocca una donna abbandonata dal marito emigrato, ma che può toccare ogni disperato.

E inopinatamente tornano anche altri ricordi dimenticati. A Leo questo succede perché le polizie in tutto il mondo diffidano di coloro che sanno dire «No. Non sono d’accordo». E che cercano di far crescere una simile coscienza anche negli altri, di far ritrovare la dignità ai rassegnati. E allora le polizie controllano e spiano nel nome della sicurezza nazionale. Non succede soltanto agli emigrati all’estero, ma anche in Italia. Sareste stupiti di vedere le dimensioni dei fascicoli intestati a coloro che nel ’68 e anni successivi hanno partecipato alle contestazioni studentesche.

In Svizzera nei primi anni Novanta il governo decide di eliminare tonnellate di rapporti segreti dei possibili sovversivi e di regalare agli spiati il lavoro delle spie. E così Zanier, inguaribilmente curioso, si fa spedire la cronaca di una porzione di vita di¬menticata. E torna a ricordare con chi aveva cenato la sera dell’8 gennaio 1963, la prima sera in cui la polizia l’aveva seguito. E tornano immagini, chiacchiere, amici perduti, amori passati, marce della pace, manifestazioni sindacali e sociali. È una quantità di materiale che non fa male all’emigrato, ma sbriciola definitivamente la pur fittizia credibilità della xenofobia.

Ma la xenofobia fa ancora rabbrividire pensando che non raramente riesce a rivivere proprio in coloro che l’hanno subita o nei loro figli che trattano con la durezza del giogo dell’egoismo della Lega coloro che oggi vengono a chiedere aiuto. Una xenofobia di interesse che pretende di far adottare le regole di quella stessa diffidenza che una volta li ha fatti sentire cittadini di qualità inferiore in paesi lontani. Una xenofobia che predica indifferenza, o addirittura soddisfazione nel vedere respingere coloro attraversano il Mediterraneo su carrette condotte da sfruttatori e assassini. Una xenofobia che pretende di veder rinchiudere i disperati in campi di identificazione che in realtà sono vergognosi campi di detenzione per chi non ha commesso alcun reato e da cui gli esuli vengono rispediti in molti casi forse incontro alla morte. Una xenofobia che rinnega le antiche e sacre leggi dell’ospitalità.

E non è un caso che questa presentazione si svolga al Centro Balducci, dove gli incontri non sono tra ospitanti e ospitati, ma tra uomini, costretti a soffrire, ma capaci anche di aiutare tenendo sempre questo modo di essere come una bussola interiore che indica costantemente una specie di stella polare etica in cui la cosa più importante da tener presente è l’uomo. Non soltanto nell’emigrazione, ma in qualunque circostanza, in tutto quello che in questo mondo succede e che può fare intristire, piangere, disperare.

“Allora vi diciamo / Alla nazione” è un libro da leggere lasciandosi penetrare da parole che sono taglienti come rasoi, che sono meditate e incontrovertibili perché distillate attraverso l’esperienza personale di Leo Zanier che ha saputo diventare qualcuno in un ambiente ostile non per gloriarsi di risultati personali, ma per fare rispettare se stesso attraverso il riconoscimento che il rispetto è dovuto a qualsiasi essere umano. E così, facendo rispettare se stesso, è riuscito a far rispettare dalla maggioranza dei residenti storici qualunque immigrato, qualunque nuovo cittadino.

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venerdì 28 aprile 2017

Le idee e gli uomini

L’appuntamento con le primarie del PD di domenica travalicano ampiamente il ristretto ambito del partito che fu anche dei molti che lo hanno abbandonato; i più ancor prima della scissione ufficiale. Pur non desiderandolo, infatti, l’andare a votare è diventato sempre più necessario, quasi obbligatorio, anche per chi pensa che probabilmente non voterà più per il PD, perché il risultato influenzerà in maniera determinante il destino di tutto il centrosinistra e, quindi, il futuro dell’Italia.

A fare chiarezza – ove ci fossero stati ancora dei dubbi – è arrivato l’unico confronto a tre previsto e svolto su Sky. Ne sono usciti vari elementi di propaganda sui quali sarebbe anche il caso di soffermarsi, se non fosse per il fatto che tutto il resto è stato messo in ombra dalla conferma più importante, cioè che Renzi continua a pensare a premi alle liste e non alle coalizioni e che, dopo una tornata elettorale nella quale è ben difficile che qualcuno possa superare il 40 per cento, sarà più disponibile a un alleanza di larghe intese con Berlusconi, anche se il rapporto tra Renzi e l’ex cavaliere «è inesistente da mesi», che con Bersani, Speranza e gli altri del MDP, perché «Con quelli che sono andati via dal Pd – ha detto – è ovvio che non faremo alleanze. Non perché hanno insultato me, ma perché hanno tradito decine di migliaia di militanti».

Già qui sarebbe il caso di ricordare che centinaia di migliaia di militanti non hanno rinnovato la tessera proprio perché sono convinti che sia stato lui a tradire il PD. Ma ancora più importante è sottolineare la reazione del candidato alla segreteria dem e ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha detto senza mezzi termini: «O vince il Pd, o vince Renzi», mettendo addirittura in antitesi il partito e il suo ex segretario. E poi ha specificato: «Se si dovesse porre questo tema, io chiederò la convocazione di un referendum, previsto dallo Statuto, per decidere se andare con Berlusconi, o con Pisapia. Io tra i due scelgo Pisapia. Se, per questioni di rancore personale, per Renzi non è così, non credo sarà compreso dal nostro popolo».

Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano, ha proposto la creazione di quello che ha chiamato un “Campo progressista” e, rivolgendosi all’ex segretario ed ex presidente del Consiglio, ha detto: «La sinistra divisa può andare incontro soltanto alla sconfitta. A Renzi resta poco tempo per costruire una coalizione: se insisterà a pensare a un PD autosufficiente, la sconfitta sarà generazionale perché ci vorrà, appunto, una generazione prima che il centrosinistra possa ricostruire la fiducia e risollevarsi».

E Renzi ha risposto: «Stiamo per scegliere in modo democratico il segretario che sarà anche il candidato a Palazzo Chigi alle prossime elezioni». Negando, quindi, ogni possibilità di coalizione con una specie di “O vinco io, o perdono tutti”.

Il problema vive proprio in quell’io, pronome che meglio si attaglia alle idee e ai comportamenti di destra, mentre è il noi che rivela quella solidarietà che è il marchio della sinistra. E uso questi due termini – destra e sinistra – perché non sono diventati assolutamente obsoleti, o privi di senso. Anzi, perdono sempre più astrattezza del simbolo e acquistano concretezza man mano le differenze tra poveri e ricchi, tra potenti e ultimi diventano più marcate e profonde; più pericolose per tutti.

Mi rendo conto che per tantissimi andare a votare per qualcosa di interno al PD può essere fastidioso, come anche donare complessivamente qualche milione di euro a quel partito versandone due ciascuno per poter votare alle primarie, ma credo sia un dovere farlo. Intanto perché l’aderenza agli ideali del PD mi sembra appartenere più a coloro che se ne sono allontanati che a Renzi e ai suoi e poi, soprattutto in quanto gli uomini passano, mentre gli ideali restano e per salvare questi ultimi è necessario sconfiggere quegli uomini che si illudono di essere più grandi delle idee e che, per essere più sicuri della loro importanza, queste idee le vogliono demolire, se non cancellare.

Quindi ritengo molto più importante ridurre drasticamente la percentuale di coloro che preferiranno Renzi che far capire – lo si è già capito abbondantemente – che questo PD racoglie sempre meno suffragi e simpatie.

Ripeto quanto ho già scritto: «Spero che tanti, pur se dovranno regalare un paio di euro al Pd, vadano comunque a votare alle primarie, o per Orlando, o per Emiliano. E questa mia sollecitazione, anche se la mia simpatia e consonanza politica con Renzi sono uguali a zero, non va contro Renzi, ma a favore del PD e, soprattutto, della sinistra. Con un PD che ritrovi almeno in parte le sue origini tutta la sinistra potrà riprendere a sperare fin da subito».

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giovedì 20 aprile 2017

Per la contradizion che nol consente

Nel XXVII canto dell’Inferno Dante si fa narrare da Guido da Montefeltro come alla sua morte fossero apparsi San Francesco, che voleva portare la sua anima in cielo, e il diavolo che si era opposto con un ragionamento descritto in una terzina magistrale: «ch’assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente». E che il diavolo, dopo aver detto al neo–dannato con irridente scherno «Forse / tu non pensavi ch’io löico fossi!», lo portò davanti a Minosse.
Ecco, il problema è che oggi, al di là del diavolo, che speriamo non sia presente, di “löici” sembrano essercene in giro davvero pochi, visto che “la contradizion” consente, eccome. Anzi, che la maggior parte della gente di queste incoerenze ormai non si accorge neppure più.

Pensiamo ad alcune cose che accadranno il 25 aprile che anche quest’anno si presenta con assenze e polemiche. A Roma, per esempio, al corteo principale non parteciperà la Comunità ebraica che ricorderà la Liberazione con una propria manifestazione separata, di fronte all’allora sede della Brigata Ebraica. Il motivo? Semplice: si rifiutano di partecipare a un corteo nel quale sfilano anche i rappresentanti della Comunità palestinese che, secondo la Comunità ebraica, è erede «del Gran Mufti di Gerusalemme che si alleò con Hitler». Sembra difficile che qualcuno possa annotare che del Gran Mufti di Gerusalemme molto probabilmente i palestinesi che sfileranno martedì non sanno quasi nulla. E sembra anche abbastanza contraddittoria la dichiarazione di Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma: «L’Anpi che ci paragona a una comunità straniera è fuori dalla storia e non rappresenta più i veri partigiani. Oggi c’è bisogno di celebrare il 25 aprile senza faziosità e senza ambiguità, una festa di chi crede nella Costituzione e nei valori dell’antifascismo».

Una richiesta di non faziosità che si nutre proprio di faziosità, intesa come convinzione di essere - loro e il governo di Benjamin Netanyahu - depositari della verità a prescindere, tanto da avere la convinzione di poter essere in grado di sceverare i “veri partigiani” da quelli posticci. Proprio come aveva fatto Maria Elena Boschi quando aveva lanciato la propria scomunica contro l’Anpi rea di voler difendere la Costituzione contro le mire di Renzi che chiedeva più governabilità in cambio di meno democrazia.

E, a dire il vero, sembra proprio che il PD non abbia cambiato strada visto che quello capitolino non sarà alla manifestazione dell’associazione dei partigiani. «Purtroppo ancora una volta a Roma il corteo dell’Anpi è diventato elemento di divisione quando dovrebbe essere invece l’occasione di unire la città intorno ai valori della resistenza e dell’antifascismo. Per questo, come già l’anno passato, non parteciperemo", spiega Matteo Orfini, giovane turco che tanto giovane più non è, ma turco sempre di più, vista la piega imposta da Erdogan.

E, senza andare tanto lontano, pensiamo a cosa accadrà in piazza Libertà a Udine dove a fare l’orazione ufficiale sarà sempre quello stesso sindaco Honsell che tante volte ci aveva commossi per le parole e i toni usati nel difendere la Costituzione come splendido e irrinunciabile frutto della lotta di Resistenza e che, pochi giorni dopo aver raccomandato pubblicamente, in sala Ajace, di leggere libri che chiaramente indirizzavano verso il No, ha dichiarato coram populo di abbracciare le tesi del Sì e si è anche impegnato a tentare di far vincere le idee di Renzi, Boschi e Serracchiani.

Sono divisivo nel ricordare questi fatti alla vigilia della celebrazione della Liberazione? Credo di no perché la successione dei fatti nella condotta di Honsell non è in discussione e perché mi sembra bizzarro, se non del tutto lontano dal concetto di “löico” affidare l’orazione ufficiale per la Resistenza a chi voleva cancellarne quel frutto che egli stesso, fino all’anno scorso, definiva il più prezioso.

E, poi, divisivo cosa vuol dire? Vorrei ricordare che essere partigiano voleva e vuol dire prendere parte. E che è negli anfratti dell’equidistanza che si annidano i germi che, spesso soltanto per piccini desideri di tranquillità, finiscono per far ammalare le società di disinteresse e, con questo, per spalancare le porte alle scorribande di coloro che si fanno passare per uomini forti, in grado di risolvere i problemi di tutti, mentre spesso lo fanno soltanto per risolvere i propri.

Ancora una volta va ricordato che la Resistenza non è di tutti. Non era di Berlusconi che cacciava dalla Rai il partigiano Enzo Biagi; non è di coloro che adesso vorrebbero che dimenticassimo che il 4 dicembre la Costituzione è rimasta a difenderci nonostante i loro attacchi.

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sabato 15 aprile 2017

Resistere, infinito presente

Ci avviciniamo al 25 aprile e sempre più fitti sono gli incontri che vogliono ricordare la Resistenza, ma anche rinnovare l'impegno di difesa della nostra democrazia e della Costituzione. Una delle più significative, organizzata dal comitato udinese di Libertà e Giustizia e dalla sezione udinese dell'ANPI, con il patrocinio del Comune, si è svolta giovedì pomeriggio in sala Ajace e aveva come titolo "Resistere, infinito presente" e ha visto la partecipazione, con me, di Monica Emanuelli, di Angelo Floramo e di Adriano Virgilio. Riporto qui la mia introduzione.

A me spetta il compito di introdurre questo incontro, “Resistere, infinito presente”, che poi vivrà sull’intreccio dei pensieri di Monica Emmanuelli, Adriano Virgilio e Angelo Floramo su aspetti storici della Resistenza, sull’ancora doverosamente attuale impegno per la difesa e l’attuazione della Costituzione e sulla necessità di impegnarsi a tener viva la memoria. Io, però, vorrei dapprima soffermarmi brevemente sul titolo il cui significato va ovviamente ben al di là del significato grammaticale che illustra modo e tempo della forma verbale “resistere”. È, invece, un’allegoria in cui è palese che “resistere” in questo caso assume il significato di un imperativo impersonale, e che l’“infinito presente” indica che la necessità di tenere vivo il concetto di resistenza non ha, né avrà fine, perché mai ci si potrà illudere che la stirpe dei prevaricatori possa sparire definitivamente dalla Terra.

Ma al di là di questa prima spiegazione, già ben specificata nel sottotitolo, questo titolo mi ha sollecitato qualche ulteriore riflessione. In altre occasioni ho sottolineato che la Resistenza non è stata una rivolta, perché la sua repentina fiammata iniziale non si è rapidamente esaurita, e nemmeno una rivoluzione perché è scaturita quasi spontaneamente, senza lunghe preparazioni filosofiche e politiche. È stata, però – raro esempio nel mondo e nella storia – la sommatoria di queste due cose perché ha chiamato subito in campo tantissima gente chiedendo anche sacrifici estremi, e poi ha saputo allungare i suoi benefici influssi per sempre – mi sarebbe piaciuto dire – ma in realtà per alcuni decenni, lasciando comunque in buona parte della popolazione la voglia di resistere ancora per difendere la propria dignità, libertà e indipendenza.

Ancora oggi sono convinto che sia necessario tracciare una netta linea di demarcazione tra rivolte e rivoluzioni. Perché sono diverse in termini di dimensioni, ma anche di respiro e progettualità: se la rivolta, infatti, è localizzata, quasi istintiva e limitata al raggiungimento di alcuni risultati pratici, la rivoluzione non ha necessariamente bisogno della violenza perché porta con sé grandi obbiettivi ideali e punta a cambiare profondamente la società in cui si sviluppa, soprattutto dal punto di vista sociale e, quindi, etico. E, proprio per questa sua capacità di puntare a grandi mutamenti, finisce per coinvolgere persone di svariati ceti sociali e sparse su larghe estensioni di territorio.

Esiste, quindi, una corrispondente differenza anche tra rivoltosi e rivoluzionari. Ma, pensando al titolo di questo incontro, mi è sembrato inevitabile fare un ulteriore passo in avanti perché i resistenti, in realtà hanno ancora qualcosa di più della somma delle caratteristiche di queste due categorie. E mi è apparso evidente che la definizione più giusta con cui identificarli esisteva già: l’avevamo davanti agli occhi da più di settant’anni. Infatti se l’erano data loro stessi, anche se noi, pur avendola sentita tante volte, non ci avevamo fatto soverchia attenzione. I resistenti sono “ribelli”, come loro stessi si definiscono in “Fischia il vento” – «Ogni contrada è patria del ribelle» – o, ancor più palesemente in “Siamo i ribelli della montagna”.

Il fatto è che, mentre la rivoluzione ha una connotazione necessariamente collettiva, quella del ribelle è sempre una condizione individuale, tanto che il ribelle tende a restare tale anche quando la spinta propulsiva della rivoluzione di cui è stato parte attiva si è esaurita. Perché è inevitabile che, visto che anche le rivoluzioni sono momenti dialettici della storia, nessuna rivoluzione potrà mai riuscire, da sola, a rispondere ai problemi di un tempo che non è più il suo; magari anche in uno spazio che non è più il suo.

Ma, anche se la rivoluzione finisce, il ribelle resta tale e si distingue dal rivoluzionario. Quest’ultimo, infatti, può essere tanto indissolubilmente legato all’ideologia della sua rivoluzione da diventarne quasi prigioniero e da estremizzarla oltre ogni limite. A tale proposito, basterebbe ricordare il terrore giacobino che, in pratica, oltre a decine di migliaia di francesi, ha ucciso anche la stessa Rivoluzione francese. Il ribelle, invece, è colui che sceglie la strada della resistenza ogniqualvolta si trova di fronte a un potere che sente iniquo; anche se è lo stesso potere prodotto dalla rivoluzione per la quale ha lottato. Il vero resistente, infatti, ha un’inesauribile esigenza di sincerità e, quindi, di libertà.

D’altro canto, appare anche evidente che un uomo deve essere già libero per poter desiderare di diventarlo. Questa frase a prima vista può apparire paradossale, ma, in realtà, è soltanto la constatazione che, visto che di aneliti alla libertà non c’è traccia biochimica nel DNA di ognuno di noi, è evidente che per lottare per la libertà ci vogliono istruzione, memoria, conoscenza ed educazione, quasi sempre assimilate già in gioventù. In una parola, cultura; che è cosa ben diversa dall’erudizione.

Ma facciamo ancora un passo in avanti. Noi siamo abituati a pensare alla rivoluzione soltanto come a un avvenimento politico; ma, in realtà, la rivoluzione politica è arrivata ben più tardi della rivoluzione religiosa (un esempio su tutti, quella di Lutero), e ancor più tardi rispetto a quella scientifica che può vantare Keplero, Copernico e Galilei come antesignani e che proprio dal loro ambito astronomico trae il suo nome. Quando Copernico scrive il “De revolutionibus”, infatti, non soltanto vuole indicare con questo termine gli infiniti ritorni di ogni pianeta alla sua posizione iniziale rispetto alla stella attorno alla quale ruota, ma, pur sapendo che avrebbe provocato una frattura distruttiva nella costellazione delle credenze stabilite per cosiddetta “ispirazione divina”, vuole anche presentarsi come il restauratore della purezza dell’astronomia classica, portando con sé, quindi, una specie di ritorno alla posizione di partenza, all’antica libertà perduta, che si sostanzia anche con profondi cambiamenti di regole.

E anche Lutero, con le sue “95 tesi” esposte sul portale della cattedrale di Wittenberg, pur in un campo profondamente diverso, fa la stessa operazione in quanto si propone come colui che vuole ritornare al cristianesimo del messaggio evangelico, in contrapposizione alla degenerazione della Chiesa romana.

Ma in questo ritorno al passato, almeno sotto alcuni aspetti, esiste anche il rischio di una sorta di restaurazione? Certamente sì e la storia è prodiga di esempi calzanti. Ma il rischio cala fortemente, fino a tendere asintoticamente verso lo zero, se molti rivoluzionari sono anche ribelli. Perché – e anche qui l’etimologia ci soccorre premurosamente – ribellione deriva da “rebellare”, riprendere la guerra.

A questo punto, però, non possiamo sottrarci dall’obbligo di chiederci quando è lecito ribellarsi? Quando si può essere davvero certi che la propria percezione di iniquità nei confronti del potere che ci si trova di fronte sia tale da consentirci di resistere, da concretizzare il diritto di resistenza? Un diritto che è addirittura statuito in alcune Costituzioni come, per esempio, in quella tedesca che all’articolo 20 recita: «Tutti i tedeschi hanno diritto di resistenza contro chiunque si appresti a sopprimere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio».

Comunque sulla liceità del resistere è obbligatorio riflettere. È facile dare una risposta se ci si trova di fronte a un’invasione di territori, o di diritti. Ancor più facile se queste due invasioni coincidono negli stessi prevaricatori: l’esempio negativo più chiaro è stato costituito dalla la Germania nazista. Più subdolo e difficile da dirimere è il caso in cui il pugno di ferro esercitato dal potere – che comunque tende sempre ad attribuire un significato criminale a ogni resistenza, pur legale, o addirittura all’opposizione, o a qualsivoglia non totale obbedienza alle sue pretese – se il potere, dicevo, esercita un’oppressione che vuole “spiegare” in nome della pace, della stabilità, addirittura di quella che talvolta impudentemente tentano ancora di spacciare per democrazia.

Ed è obbligatorio pensarci soprattutto se la resistenza – come quella dei nostri padri – impone di impugnare le armi. Perché invariabilmente ci troviamo di fronte a due punti di vista diametralmente opposti, in uno dei quali gli oppressori tentano di far confondere la resistenza con il banditismo. L’“Achtung Banditen” che decorava lugubremente tantissimi cartelli durante la dominazione nazista e repubblichina nell’Italia settentrionale e centrale lo dimostra in maniera palmare.

Noi siamo convintamente portati ad aborrire la violenza, ma nel passato un uomo non certamente belluino come John Milton, scrittore, poeta, filosofo, saggista e teologo inglese, quello del “Paradiso perduto”, nel 1649 (lo stesso anno della decapitazione di re Carlo I d'Inghilterra su ordine di Oliver Cromwell) ha scritto storia e difesa del tirannicidio in un libro che la Raffaello Cortina ha riportato nelle librerie italiane qualche anno fa con l’esplicito titolo “Uccidere il tiranno” scelto da Giulio Giorello per tradurre modernamente il più mimetico “I giusti poteri dei re e dei magistrati”. E, senza parlare di uccisioni, anche l’illuminista Benjamin Franklin propose di includere la frase «La ribellione ai tiranni è obbedienza a Dio» nel Gran Sigillo degli Stati Uniti. Poi, del resto, chi si sentirebbe oggi di condannare moralmente l’uomo che avesse ucciso Hitler prima che il dittatore nazista riuscisse a iniziare la guerra e a mettere in esecuzione la sua “soluzione finale”?

Fortunatamente oggi a noi non è necessario porci il problema se è lecito resistere con le armi in mano, ma questo non ci esime – anzi – dall’impegnarci nella resistenza civile con una non violenza attiva, con la capacità della disobbedienza, del rifiuto e del dissenso, sempre da esprimere in maniera palese perché diventi consapevole testimonianza erga omnes. Perché il “no”, quel monosillabo che da quasi tutti quelli che hanno in mano il potere è indicato come antipatico e vuoto simbolo della negazione, è, invece, una parola bellissima perché caposaldo della libertà, base fondante di ogni vera democrazia; perché permette il rifiuto di ragione e di coscienza, perché rende ridicoli quegli alibi che troppe volte nella storia del ventesimo secolo abbiamo sentito dal banco degli accusati dove c’era qualcuno che si difendeva rispondendo vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini».

Ricordate, vi prego, come Renzi e i suoi hanno dipinto il “No” durante la campagna referendaria che ha portato al 4 di dicembre dello scorso anno, una data che, per me, anche se non sarà mai inserita nel calendario ufficiale, resterà sempre l’anniversario della democrazia italiana. L’anniversario di una Resistenza alla quale ho avuto la fortuna di partecipare di persona anch’io e che, come la Resistenza di più di settant’anni fa, quando è scoppiata non aveva la minima possibilità di vincere. Eppure ha vinto. E ha dimostrato ancora una volta che, se vogliamo sperare, dobbiamo lottare; che se vogliamo esistere dobbiamo resistere. Lotta e speranza sono concetti che necessitano l’uno dell’altro per rafforzarsi e arricchirsi vicendevolmente. Non può esserci, infatti, lotta senza speranza; né speranza senza lotta.

Un ultimo paio di cose, ma molto importanti: il diritto di resistenza deve essere possibile per ogni cittadino perché, come per qualsiasi diritto, anche quello di resistenza deve toccare tutti, senza eccezioni. Altrimenti diventa privilegio per chi ce l’ha. E dobbiamo ricordare sempre che il frutto della Resistenza si estrinseca nella nostra Costituzione, voluta da chi ha saputo trasformare quel drammatico modo quotidiano di vivere e combattere di settant’anni fa in pacifica pratica giornaliera difendendo libertà, democrazia, lavoro, uguaglianza, dignità, giustizia, solidarietà, equità sociale e pari opportunità, nel rispetto delle diversità e del pluralismo; battendosi per i diritti umani di tutti e non soltanto di determinati, pur vasti, gruppi razziali, religiosi, culturali o economici; ripudiando la guerra.

Ecco, non possiamo non sottolineare che la Resistenza che festeggiamo il 25 aprile non è di tutti. Non è e non sarà mai di chi a questi valori – anche a uno soltanto di questi valori – si oppone. I partigiani nella loro lotta hanno compreso l’enorme valore del “diritto di resistenza” e ne hanno fatto tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della loro vita. Perché per un uomo ogni diritto, se è davvero tale, una volta conquistato non può non diventare un dovere nei confronti propri e di tutti gli altri.

Ancora un appunto. L’azione del resistere ha in sé una connotazione quasi passiva, di attesa. Il ribellarsi, invece, fa trasparire ben chiara la decisione di fare qualcosa, di impegnarsi in prima persona. Per venire a noi, resistere è stato quello che siamo riusciti a fare per raggiungere il risultato referendario del 4 dicembre; ribellarsi sarebbe quello che dovremmo fare per pretendere che la nostra Costituzione venga sempre più applicata, anziché stravolta.

Non solo resistere, quindi, ma anche ribellarsi deve diventare davvero un infinito presente.

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mercoledì 5 aprile 2017

La scala dei valori

Dico la verità: a ripensare che ieri ho scritto un commento sulle sorti di Renzi, del Pd e della sinistra italiana mentre sul villaggio di Khan Shaykhun, nella provincia siriana di Idlib, qualcuno – e in definitiva è secondario sapere chi, visto che quasi tutti ne sarebbero capaci – ha effettuato un attacco con gas tossici che ha causato oltre settanta vittime, tra cui almeno venti bambini, mi viene il fortissimo dubbio di aver perso il contatto con la realtà, di non aver più presente quella scala dei valori che mi ha sempre fatto da traccia nella vita.

Che senso ha parlare di strategie politiche, obbiettivi sociali, ambizioni personali, ideologie, mentre sta affondando in uno sterminato immondezzaio di sete di potere e di sangue quella che dovrebbe essere l’essenza stessa dell’essere umani? E mi riferisco alla capacità di pensare a se stessi come parte di un tutto e di elaborare pensieri complessi che sono gli unici capaci di superare l’egoismo e tutti i frutti avvelenati che questo schifoso albero produce.

Obbiettivamente mi sento colpevole, ma non perché ho scritto delle questioni politiche italiane, ma perché non ho scritto anche ieri delle schifezze che ci circondano in maniera sempre più asfissiante: dai terrorismi non sempre marcati dall’integralismo religioso, ai muri che vediamo sorgere un po’ dappertutto e che non sollevano neppure un piccolo cenno di dissenso da quell’Europa così attenta, rigorosa e minacciosa quando si tratta di difendere le supposte ragioni dell’economia, ma, in realtà, di mantenere lo status quo, o di permettere che cambi soltanto se va a vantaggio di chi già sta meglio. Dall’indifferenza con cui vengono neppure guardate le centinaia di migliaia di morti per fame e malattie che sarebbero facilmente evitabili, alla stolida crudeltà (non può essere soltanto abissale imbecillità, perché già il concetto che una vita umana possa valere meno della propria tranquillità è un pensiero delinquenziale) con cui taluni dicono, anche mentre guardano le immagini dei Paesi più travagliati: «Aiutiamoli a casa loro». Dall’incapacità di reagire concordemente al sempre crescente strapotere della finanza al non riuscire a opporsi degnamente a quei rigurgiti di razzismo e suprematismo che hanno raggiunto anche i vertici di quegli Stati Uniti che fino a non molti mesi fa tanti consideravamo il faro del mondo libero.

Si potrebbe dire che sono cose troppo grandi perché noi possiamo affrontarle con speranze di successo. Ed è vero. Ma è vero soltanto se pensiamo di opporci a queste cose da soli. Se pensiamo a noi non come individui separati, ma come unione di persone davvero umane, allora la prospettiva cambia totalmente. E la storia ha già dimostrato che questo è possibile.

Personalmente credo in tutta sincerità che dal mio cuore e dalla mia mente non vi sia cosa più lontana del concetto del superuomo che guarda con fittizia e autoreferenziale superiorità l’uomo normale. Eppure se, nonostante questo, il guardare i telegiornali, la lettura di certi libri e la visione di certi film e documentari sono cose che mi lasciano ancora con il groppo in gola, questo accade perché mi fanno sentire comunque quasi colpevole; colpevole di appartenere a quello stesso genere umano da cui sono usciti coloro che sono stati capaci di inventare i lager di Auschwitz, Dachau, Buchenwald, ma anche le foibe, i cappucci del Ku Klux Klan e l’apartheid sudafricana, i pogrom e i linciaggi, le vecchie e sanguinose pulizie etniche staliniste e quelle più moderne e non meno tremende della ex Jugoslavia, l’odio etnico strettamente intrecciato all’insofferenza religiosa che insanguina il Medio Oriente, l’insaziabile ingordigia di ricchezza che non fa sfamare e curare i derelitti di tanti Paesi del mondo, ma anche quelli di casa nostra. Mi sento colpevole di appartenere a quello stesso genere umano che non è stato capace di estirpare da sé i semi dell’odio razziale e religioso, della venerazione della ricchezza e degli status symbol e che continua a tramandarli, per incuria, oltre che per criminale calcolo, ai più giovani. Colpevole, in prima persona, di aver fatto comunque troppo poco per oppormi, appunto, alla negazione dell’uomo da parte di chi si sente superuomo.

Ed è proprio in questo che credo che non soltanto ci siano giustificazioni nel rivolgere grande attenzione alla politica nostrana, ma che ci siano addirittura degli obblighi. Perché se a livello internazionale possiamo fare ben poco, nei campi nei quali possiamo incidere con i nostri voti, ma soprattutto con le nostre idee e le nostre parole, dobbiamo fare tutto quello che ci è possibile fare. E poi sarà chi ci governa a dover premere su alleati e avversari perché questo mondo cessi sempre più di assomigliare a un inferno.

Quindi sono importanti coloro che ci governano (e uso la prima persona plurale, e non quella singolare, non a caso) e che devono fare tutto quello che serve obbligatoriamente ricercando sempre la solidarietà, l’equità, la giustizia, la rappresentanza. Ma, per prima cosa, la cultura perché senza quella non solo non si va da nessuna parte, ma non si ha nemmeno la capacità di pensare lucidamente e quindi, se del caso, di opporsi fermamente, di usare quel “No” che è parola bellissima perché caposaldo della libertà, base fondante non soltanto di ogni vera democrazia, ma anche dello stesso bene; perché permette il rifiuto di ragione e di coscienza.

Ecco: sono convinto che la scala dei valori abbia gradini sufficientemente larghi per poter ospitare più di un dovere alla volta.

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martedì 4 aprile 2017

Davvero impressionante

Per una volta userei anch’io la stessa parola pronunciata da Renzi per commentare il dato del voto di avvicinamento alle primarie nei circoli del Pd: «Impressionante». Ma, mentre Renzi afferma: «La scorsa volta ho preso il 44 per cento, ora il 68 per cento. Impressionante», io userei questo aggettivo in tutt’altro senso. Infatti mi fa grande impressione pensare a quanti non renziani siano già usciti dal Pd per provocare un simile innalzamento della percentuale dei voti per Renzi. E impressionante mi appare, ancora una volta, l’assoluta mancanza di analisi nei confronti di quello che accade in quello che era il popolo del Pd.

Che poi questa mancanza di analisi sia dovuta a incapacità di ammettere i propri errori, o a un voluto travisamento dei fatti a scopi propagandistici è un aspetto assolutamente secondario, come secondarie sono le baruffe intestine che sono infuriate sulle frazioni di percentuali che spettano ai tre competitori in attesa della proclamazione dei risultati sperabilmente definitivi.

Però, a voler cercar di capire le esternazioni di Renzi, pedissequamente ripetute dai suoi fedelissimi, visto che l’ex presidente del Consiglio non è certamente uno sprovveduto, si è inevitabilmente portati a puntare sulla propaganda. Non è infatti possibile che il per ora anche ex segretario del partito non si renda conto che alle primarie vere e proprie andranno a votare moltissimi ex iscritti ed ex simpatizzanti del Pd che, scegliendo uno dei suoi avversari, tenteranno di salvare il partito da chi lo sta portando allo sfascio definitivo. Può anche essere che sia convinto di vincere le primarie – ed è probabile che le vinca – ma non può non capire che, con lui ancora alla guida del partito, il 1° maggio ci sarebbe un consistente esodo di gente che lascerà il Pd anche dopo molti anni di militanza e che alle prossime elezioni politiche il centrosinistra sarà destinato alla sconfitta. Sembra quasi si assistere a una riedizione di «Muoia Sansone con tutti i filistei» in cui, però, i gradi di simpatia dei protagonisti odierni sono ben diversi rispetto a quelli biblici.

Ripeto che non credo ci possano essere dubbi sul fatto che sia necessario un forte centro di attrazione gravitazionale a sinistra; e infatti il centrosinistra ha vinto, sia a livello politico, sia a livello amministrativo, soltanto quanto questo centro di attrazione c’era ed è stato in grado di convincere le forze cugine ad aggregarsi. Ora, o gli ideali del PD tornano a coincidere con quelli del centrosinistra, oppure sarà necessario costruire un nuovo polo di attrazione e ci vorranno sicuramente degli anni durante i quali saremmo in balia, o della destra, o dei grillini. Quindi spero che tanti, pur se dovranno regalare un paio di euro al Pd, vadano comunque a votare alle primarie, o per Orlando, o per Emiliano. Ma, in definitiva, a favore del Pd e, soprattutto, della sinistra.

Altrimenti sarà davvero un risultato «impressionante». Come «impressionante», e molto efficace per far allontanare altri elettori dal Pd, è il commento di Luca Lotti sui numeri dati dall’Istat sulla disoccupazione. Il ministro dello sport esulta perché la disoccupazione è calata e ne attribuisce il merito al Jobs Act, ma si dimentica di prendere in considerazione il fatto che l’occupazione non è assolutamente aumentata: sono aumentati soltanto quelli che ormai non cercano nemmeno più il lavoro perché hanno perduto ogni speranza di trovarlo. Il 30 aprile bisogna andare a votare anche per far finire queste assurde manfrine messe in scena sperando che la gente ascolti soltanto loro e non vada a controllare la realtà delle cose.

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