giovedì 9 marzo 2017

I sogni sono più forti

Paolo Gentiloni è diverso da Matteo Renzi? Sicuramente sì. Il governo Gentiloni è diverso dal governo Renzi? Sicuramente no. E non soltanto perché lo schieramento dei ministri è praticamente identico, salvo pochi scambi e pochissime novità. È sul piano politico che il paragone diventa importante ed è proprio qui che le speranze che da questo governo possa uscire qualcosa di buono si infrangono. Poi ci possono essere piccole motivazioni personali, o di bottega, di assenza di leggi elettorali, o di convenienza internazionale che possono spingere a far concludere la legislatura alla sua scadenza naturale. Ma nella sostanza non si vede come si possa sostenere che questo governo potrà fare il bene degli italiani. E per capirlo bastano due sguardi.
Il primo, di tipo interno, si appunta sulla vicenda dei voucher nella quale l’unico interesse di questo governo – che ha tra i suoi scopi principali quello di non contraddire eccessivamente il governo precedente, cioè, in pratica, se stesso – è quello di non far celebrare un altro referendum che potrebbe sottolineare ancora una volta la profonda differenza filosofica, sociale e politica che esiste tra il Paese e i suoi rappresentanti. Quindi Gentiloni e i suoi vorrebbero procedere con qualche ritocco sperando di disinnescare la mina referendaria, ma con il decreto di cui si parla la sostanza cambierebbe davvero di poco, fermandosi a stabilire vincoli più stetti, ma senza andare a incidere sulla sostanza che è quella di lavoratori sfruttati in piena sintonia con le deregulation messe in campo con il Jobs Act. E su questo si comincerà subito a vedere cosa intendono fare i fuoriusciti dal PD che già nel loro nuovo nome cominciano richiamandosi all’articolo 1 della Costituzione, ossia al diritto al lavoro, inteso come mezzo di dignità e non di sfruttamento.

Apparentemente meno vicino alla vita di ogni giorno, ma ancor più determinate nella formulazione di un giudizio negativo, è lo sguardo di tipo esterno. Trovandosi con personaggi come Mariano Rajoy, elemento di punta del centrodestra europeo, Angela Merkel, altra fiera avversaria del centrosinistra e paladina della cosiddetta austerità, e Francois Hollande che il centrosinistra francese ha ripudiato con decisione e senza rimpianti, Paolo Gentiloni ha sottoscritto quella che pare una decisione che i quattro vogliono imporre a tutti gli altri 23 rimasti nell’Unione: una cosiddetta Europa a più velocità nella quale, tra l’altro, non si capisce perché il poker di partenza dovrebbe avere tutte posizioni di preminenza.

Ma il fatto è che, sottoscrivendo questo patto, hanno deturpato un sogno. Verrebbe da dire che lo hanno distrutto, ma il sogno – quello di un’Europa davvero unita – ha sicuramente più forza di loro quattro messi assieme e, alla fine, tornerà fuori e vincerà.

Lo hanno fatto dicendo che la realizzazione del sogno di creare un’unica nazione è troppo difficile, come se tutto questo si scoprisse soltanto oggi, a sessant’anni di distanza da quando una firma ha reso ipotizzabile una cosa ancora molto più difficile da immaginare a quei tempi: una pace perpetua tra sei aderenti di cui almeno tre (Germania, Francia e Italia) fino a poco più di dieci anni prima non avevano fatto altro che sacrificare, a brevi intervalli, tantissimi loro cittadini in guerre sanguinose dettate da sogni nazionalistici, o personalistici, di potere, o di arricchimento.

Lo hanno fatto senza neppure accorgersi che è la stessa pace che viene da loro messa in discussione, sia perché il solo elemento che si tenterà davvero di mettere in comune non sarà né la legislazione, né la fiscalità, ma soltanto l’esercito; sia in quanto lo stabilire diversità economiche, e quindi di possibilità di sviluppo tra i vari Stati aderenti finirà per allontanare sempre di più, con un’inarrestabile forza centrifuga, le nazioni l’una dall’altra.

Lo hanno fatto senza rendersi conto – o, ancor peggio, rendendosene conto benissimo – che cancellare i sogni vuol dire togliere quelle speranze che dei sogni – se non sono incubi – sono l’unica vera essenza. E che, se si cancella la speranza, si toglie ogni spinta al miglioramento. Si stabilisce che è sufficiente galleggiare, ma senza prendere in considerazione che, nelle cose umane, se non si progredisce, si finisce inevitabilmente per retrocedere; per affondare.

Questi quattro signori rappresentano mirabilmente quell’Europa che in tanti dicono che deve essere cambiata se si vuol far sopravvivere il sogno. È quella stessa Europa che tuona contro chi non ha i conti perfettamente a posto e che coltiva le disparità lesinando sugli aiuti a chi ne ha bisogno, ma che, contemporaneamente, non ritiene di spendere una parola contro i gemelli Kaczyinski quando, ancora in vita entrambi, volevano reintrodurre in Polonia la pena di morte; oppure contro Orban che in Ungheria, oltre ad alzare muri contro gli immigrati, ha tentato a più riprese di sottrarre quote di democrazia al proprio popolo. Ma di questo anche in Italia non dovremmo stupirci più di tanto.

Gentiloni si è soltanto accodato tatticamente ai voleri degli altri? Non basterebbe ad assolverlo, ma non è assolutamente così. È del suo governo, infatti, il progetto di una cosiddetta “flat tax” – benedetto l’inglese che non fa capire ai più – che sarebbe un’imposta sostitutiva forfettaria di 100 mila euro l’anno sui redditi prodotti all’estero e per gli stranieri più ricchi che intendono trasferire la loro residenza fiscale in Italia. E, come contorno, lo sconto del 90% sulle tasse per i “cervelli” – chissà cosa ha percepito Poletti? – che rientrano, il dimezzamento dell’imponibile per i manager che tornano in patria e un visto speciale per gli imprenditori che investono almeno un milione di euro in imprese del nostro Paese.

Cioè, dopo aver tanto tuonato contro i paradisi fiscali comunitari, come Lussemburgo, Olanda e, a suo tempo, Regno Unito, l’Italia non si adopera per arrivare a un’unica fiscalità, ma decide di partecipare alla gare tra chi si mette in testa di voler essere più furbo degli altri, continuando ad aumentare reciproche ostilità e incomprensioni.

E non soltanto simbolicamente meno importante è anche la decisione di concedere un visto a coloro che possono pagarselo a forza di milioni di euro, proprio mentre sta diventando quasi concorde il giudizio che dice che gli immigrati, quelli senza un euro, se scappano da una guerra potrebbero anche entrare, ma coloro che, invece, a casa loro rischiano di morire di fame, di epidemie endemiche, di torture e dittature, possono tornarsene a crepare in patria. Senza disturbare tropo, per favore; e senza farsi nemmeno tanto vedere per non disturbare le coscienze dei sensibili.

E tutto questo facendo anche finta di non ricordare che tra i primi 12 articoli della Costituzione, quelli dei “Principi fondamentali”, quelli che tutti dichiarano intoccabili, il numero 10 recita, tra l’altro: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».

Utopie? Forse. Ma le utopie non sono luoghi che non esistono: sono soltanto luoghi che non si sono ancora raggiunti. E la storia racconta che nella maggioranza dei casi, nonostante i tempi lunghissimi, nonostante tante battute d’arresto, nonostante i tanti personaggi che hanno tentato di cancellarle, alla fine in quei luoghi l’umanità finisce per arrivarci. I nostri sogni forse serviranno a persone che devono ancora nascere, ma sono più forti di qualunque impedimento posto da altri esseri umani.

Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/

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