mercoledì 11 gennaio 2017

I referendum e la politica

Una certa delusione è innegabile, ma le regole sono regole e se si vuole scavallarle puntando a ottenere in un colpo solo più di quello che era lecito chiedere, allora è inevitabile che si finisca per restare con un po' di amaro in bocca.

La Corte Costituzionale, infatti, ha considerato legittimi i referendum abrogativi in materia di lavoro richiesti, con tre milioni e 300 mila firme, dalla Cgil, riguardo alle parti del cosiddetto Jobs Act sui voucher e il lavoro accessorio, nonché sulle limitazioni introdotte sulla responsabilità solidale in materia di appalti, mentre ha deciso di rigettare quello che riguardava le modifiche all'articolo 18 sui licenziamenti illegittimi.

Quest’ultimo era sicuramente il fulcro politico dell’iniziativa, ma il quesito proposto non si limitava a puntare a tornare alla situazione quo ante rispetto alla riforma voluta da Renzi, ma voleva ampliare la «tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo», estendendola a tutte le aziende con oltre cinque dipendenti, contro il tetto dei 15 dipendenti del vecchio articolo 18. Si trattava, insomma, quasi di un referendum propositivo per creare una nuova legge di iniziativa popolare. Praticamente scontato e non politico, quindi, il giudizio della Corte.

E questa è una considerazione davvero importante, anche ragionando su quanto è avvenuto il 4 dicembre, giorno in cui la volontà dei cittadini si è imposta in maniera netta su quella della politica, non perché il concetto di democrazia rappresentativa abbia perso di validità, ma in quanto ormai, grazie anche a leggi elettorali incostituzionali, il mondo del Parlamento ha contatti davvero troppo tenui con i cittadini italiani.
 

Il punto principale, insomma, se non si vorrà continuare a essere chiamati alle urne sempre più spesso per contrastare e abolire leggi malfatte, consiste nel fatto che il rapporto tra elettori ed eletti deve tornare a essere quello a cui pensavano i nostri padri costituenti: diretto, trasparente e rispettoso. Tre qualità di cui oggi si ha quasi soltanto il ricordo.

E, allora, se è obbligatorio che chi viene eletto ricordi sempre che deve rendere conto del proprio operato a chi lo ha eletto, è altrettanto necessario che chi va alle urne si renda conto che il momento del voto non è un “sine cura”, ma, anzi, è importantissimo e fondamentale per fissare il grado di democraticità e di efficienza del nostro sistema istituzionale.

Per chiarire ancora meglio questo concetto, merita ricordare alcune delle parole pronunciate da Barack Obama ieri sera, a Chicago, nel suo ultimo discorso pubblico da Presidente degli Stati Uniti: «La nostra democrazia è minacciata quando la consideriamo garantita. Quando stiamo seduti a criticare chi è stato eletto, e non ci chiediamo che ruolo abbiamo avuto nel lasciarlo eleggere. Il più importante incarico in una democrazia è il vostro; è il mestiere del cittadino. Non solo quando ci sono le elezioni, non solo quando i vostri interessi sono in gioco». «E se siete stanchi di discutere con degli estranei su Internet – ha poi aggiunto – provate a incontrarne qualcuno in carne e ossa. Candidatevi per un incarico pubblico. Mettetevi in gioco, scendete in campo».

In quest'ottica, tornando alla parte del Jobs Act che ha abolito l’articolo 18, anche dopo la pronuncia della Corte Costituzionale continua a essere inaccettabile e continua a massacrare alcuni di quelli che sono considerati diritti fondamentali. Ma è ora di rendersi conto che piuttosto che continuare a rivolgersi all’istituto del referendum per emendare una politica inadeguata, molto meglio sarebbe operare perché la politica diventi adeguata. Se questo avverrà, le garanzie che erano contenute nell’articolo 18 torneranno sicuramente a esistere.

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