sabato 31 dicembre 2016

Il concetto e l’abuso

La Corte Costituzionale non ha ancora deciso sull’ammissibilità, o meno, dei referendum sul Jobs Act, ma da parte degli affezionati sostenitori della legge renziana sul lavoro, è già cominciata la campagna referendaria soprattutto sul tema dei voucher che sono balzati in primo piano con il loro inarrestabile moltiplicarsi e che, in pratica, hanno legalizzato la precarietà, mentre non sono riusciti a sconfiggere, ma probabilmente neppure a ridurre, il lavoro nero.

Ora l’attività dei sostenitori del Jobs Act, Ichino in testa, è tutta concentrata a nel far appuntare l’attenzione generale soltanto sugli incontestabili abusi commessi dai cosiddetti datori di lavoro, sottintendendo, in pratica, che soltanto gli abusi vanno messi in discussione, mentre il voucher sarebbe un’ottima soluzione per regolamentare il lavoro. Ma non è questo il punto perché gli abusi devono essere perseguiti dalle forze dell’ordine e valutati dalla magistratura, mentre è proprio il concetto di voucher – così com’è concepito nella legislazione vigente – che deve essere sottoposto al giudizio degli elettori.

E allora ricordiamo cosa sono questi voucher che sono stati introdotti, come strumento di lavoro occasionale, nel 2003 dal secondo governo Berlusconi e poi sono stati inquadrati per la prima volta dalla Legge Biagi e successivamente limitati nell’utilizzo dal secondo governo Prodi nel 2008. Il quarto governo Berlusconi ne ha esteso l’utilizzo a tutti i soggetti nel 2010 e poco tempo dopo vi è stata una loro totale liberalizzazione di utilizzo con il governo Monti, liberalizzazione ulteriormente rafforzata dal Governo Renzi che ha innalzato i limiti da 5.000 a 7.000 euro annui e ha eliminato dalla legge la dicitura «di natura meramente occasionale» che era l’essenza del buono lavoro. Attualmente, il valore del voucher è di 10 euro di cui 7,50 vanno, netti, al prestatore d’opera, mentre il resto sono contributi Inps e Inail.

Ora, da settembre, per tentare di frenare evasione ed elusione, è obbligatorio l'invio di un SMS all'Inps da parte del committente almeno un'ora prima della prestazione per tentare di impedire usi fraudolenti, come pagare con voucher solo una piccola parte del compenso e il resto corrisponderlo in nero.

Entrando nel merito della loro legittimità, dunque, sono da mettere in rilievo almeno due cose.

La prima riguarda il fatto che un simile tipo di lavoro sta stravolgendo i diritti delle persone perché il lavoratore viene assimilato a una merce che si può acquistare velocemente dal tabacchino e che può essere abbandonata senza alcuna fatica appena non serve più. Una specie di affinamento e di ammodernamento della schiavitù: “schiavitù 2.0” direbbero quelli che amano farsi vedere moderni usando locuzioni diventate luoghi comuni. Ma in realtà questa, per certi versi, è addirittura peggio della vecchia schiavitù perché una volta il padrone assicurava comunque vitto, alloggio e una certa cura che mirava a mantenere la validità e, quindi, il valore di un proprio patrimonio. Oggi il datore di lavoro occasionale non deve avere responsabilità di sorta e cibo, tetto e cura sono a pieno carico di chi, con i voucher, deve tentare di sopravvivere: non per nulla sono 11 milioni – e sono in continua crescita – gli italiani che, nel campo della salute, hanno dovuto rinunciare alla prevenzione, o addirittura alla cura.

La seconda constatazione riguarda il fatto che i 7,50 euro di corresponsione oraria sono uguali per tutti: per i laureati assunti a termine per realizzare il business plan di una piccola azienda, come per la persona incaricata di raccattare le foglie secche in un parco. E questa aberrante idea di parificare tutto al livello più basso possibile è stata partorita proprio da coloro che per decenni si sono riempiti - e si riempiono - la bocca con la parola “meritocrazia”. E poi si lamentano, stupiti, se i giovani tendono sempre più a emigrare; oppure cercano di negare questa realtà parlando di «mitizzazione della fuga dei cervelli».
Insomma, non è che, eliminando l’abuso, il concetto di voucher possa diventare accettabile. Rimane sempre una negazione del significato di lavoro come fonte di dignità personale e una deincentivazione alla crescita culturale e professionale individuale.


Anche sotto questo punto di vista, tantissimi auguri a tutti. Ne avremo davvero bisogno.

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sabato 24 dicembre 2016

Due regali di Natale

A chi si chiede – di solito accompagnando le parole con una smorfia di spocchioso scherno – cosa faranno “da grandi” i comitati per il NO, quelli ribattezzati da Renzi “un’accozzaglia”, vogliamo dare, come regali di Natale, due risposte.

La prima tende a dire cosa non saranno. Siamo ben coscienti, infatti, che le varie anime di coloro che hanno barrato la casella NO sulla scheda referendaria hanno avuto in comune soltanto la determinazione a opporsi a uno stravolgimento della Costituzione per non rischiare che l’Italia potesse finire in mani di persone che, liberate da obblighi e fastidi, fossero tentate di imprimere una svolta autoritaria, o quantomeno poco democratica, alla Repubblica. Quindi, i Comitati non hanno alcuna ambizione di formare nuovi partiti, e neppure di appoggiare aprioristicamente qualsiasi schieramento senza aver prima valutato la sua aderenza alla Carta fondamentale.

La seconda risposta, invece, desidera tratteggiare quello che, almeno per molti di noi, puntano a essere. Per spiegarlo bene mi sembra utile partire da una sentenza della Corte Costituzionale che si è pronunciata in merito a una controversia, tra Regione Abruzzo e Provincia di Pescara, sul servizio di trasporto scolastico dei disabili, riconoscendo come questo sia un diritto inviolabile e da garantire senza condizionamenti finanziari. Le parole esatte del dispositivo che spiega la decisione sono: «È la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione». Rileggete queste parole con attenzione perché sono fondamentali se si intende davvero imporre una svolta alla politica italiana richiamandola al fatto che il suo principale obbiettivo deve essere il bene dei cittadini e che, quindi, l’economia passa in secondo piano rispetto ai diritti: esattamente il contrario di quello che quasi sempre è accaduto in questi ultimi decenni.

Durante la campagna referendaria più volte avevo ricordato che a poco valeva l’assicurazione di Boschi, Renzi, Napolitano e dei loro fedeli, che i primi 12 articoli, quelli dei Principi fondamentali, sarebbero rimasti inalterati perché, se questo era vero nella forma, così non era nella sostanza, visto che quantomeno l’articolo 5, quello dedicato alle autonomie veniva quasi totalmente svuotato dalle modifiche proposte nei vari articoli del Titolo V.

Per far capire come fosse possibile lasciare inalterata la forma, ma mutare la sostanza, ricordavo cos’era successo nell’aprile 2012, quando era stata approvata a larghissima maggioranza la riforma dell’articolo 81che ha introdotto in Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio. E chiedevo se davvero, cambiando l’ordine di priorità e di importanza, la nuova stesura dell’81 non era andato a cambiare la sostanza dell’articolo 2, dove recita «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» e quella dell’articolo 3, almeno nei passi in cui dice che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.»? E dicevo anche: “Provate a chiedere se per loro non è cambiato niente a quegli undici milioni di italiani – dato Censis – che hanno rinunciato alla prevenzione sanitaria, o addirittura a curarsi, perché non hanno i soldi sufficienti per farlo visto che i risparmi sulla sanità per raggiungere il pareggio di bilancio sono diventati più importanti della loro salute”.

E la stessa cosa può avvenire anche senza neppure toccare la Costituzione, ma operando su leggi ordinarie. Qualcuno può forse negare che il Jobs Act, va a incidere pesantemente sulla sostanza degli articoli 1,2, 3 e 4 della Costituzione? E che i referendum voluti dalla Cgil tendano proprio a lenire queste ferite inferte alla Costituzione?


Ebbene, il compito dei Comitati, almeno secondo molti di noi, sarà proprio quello di sforzarsi per impedire che leggi come il Jobs Act, a prescindere da chi le proponga, possano andare a vanificare subdolamente la nostra Carta fondamentale nella disattenzione, se non nel disinteresse, di un Parlamento che troppo spesso valuta le leggi da approvare, o da rigettare, secondo motivazioni legate all’utilità propria, o del proprio partito, invece che in dipendenza di quelle legate al bene del popolo.

Si potrà dire che non si possono mettere in secondo piano le leggi dell’economia e che un simile obbiettivo rientra tra le utopie più che tra i progetti. Ebbene, per prima cosa, la Costituzione Italiana è fondata su un tipo di economia “funzionale”: cioè l’economia e le finanze pubbliche devono essere funzionali al raggiungimento degli obiettivi che la società stessa definisce prioritari. Tenendo ben presente che non è che sia il denaro a essere scomparso, ma il lavoro, perché il denaro si è spostato quasi tutto nelle mani di pochissimi che, per la maggior parte, preferiscono tenerlo fermo a far fruttare finanziariamente piuttosto che investirlo creando, appunto, lavoro e benessere per tutti.

Inoltre, la storia dimostra che il termine utopia più che indicare un luogo che non esiste, definisce soltanto un posto che non è stato raggiunto ancora.

Quindi questi sono i due regali di Natale che non credo saranno graditi a tutti: nessun nuovo partito, ma una serie di gruppi di rompiscatole che non vogliono aspettare più che le leggi anticostituzionali si dimostrino tali per intervenire, ma che intendono farsi sentire, pur nei limitati modi consentiti dal nostro ordinamento, a dibattito parlamentare in corso per far avvertire, come succedeva quando vigeva ancora il sistema elettorale proporzionale, il proprio peso sul gradimento politico che poi troverà consistenza reale nella prossima occasione di voto.

Comunque, al di là del gradimento o meno di questi due regali, buon Natale a tutti quelli che sono di buona volontà.


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giovedì 22 dicembre 2016

Le varie inadeguatezze

Sono totalmente condivisibili le insistenti richieste di dimissioni indirizzate a Poletti, sedicente ministro del Lavoro, non soltanto da le opposizioni, ma anche da due parti interne al PD: dai giovani di molte regioni e dalla sinistra del partito che, almeno per una volta, sembra essere concorde. Quello che meno convince, invece, sono le motivazioni con le quali queste dimissioni sono chieste. 5stelle, Lega e Sinistra assortita le chiedono per “inadeguatezza” del ministro; i giovani PD perché si sono sentiti feriti dalle sue parole; la sinistra interna al PD, più pragmatica degli altri, non specifica motivazioni che ai più, visto quello che Poletti ha detto e fatto, appaiono del tutto superflue, ma chiedono un pur impossibile scambio: lasciamo il ministro al suo posto se, in cambio, il governo cancella i voucher.

Obbiettivamente il termine “inadeguatezza” sembra quello che meglio si attaglia alla situazione, ma bisognerebbe specificare che in questo caso si va ben oltre l’inadeguatezza politica per entrare nel campo dell’inadeguatezza personale. E, infatti nessuno si sogna di accettare le parole di molti notabili renziani tra i quali, quantomeno per ragioni geografiche, oltre che per l’importanza degli incarichi da loro rivestiti, merita ricordare le quasi concordanti prese di posizione, per quanto evidentemente dovute e sofferte, di Serracchiani e Rosato: «Il ministro Poletti si è scusato per una frase infelice. Il caso si esaurisce qui».

In realtà, però, sanno benissimo anche loro che ben difficilmente il caso potrà esaurirsi qui e non soltanto per il finanziamento pubblico di mezzo milione di euro che, in un periodo di vacche magrissime per l’editoria, il governo ha concesso al periodico diretto dal figlio del ministro: di quello, eventualmente, si occuperà la magistratura.

Il viluppo politico dal quale ben difficilmente Poletti potrà districarsi consiste nel fatto che il sedicente ministro del Lavoro ha espresso, con parole sue, concetti che già erano stati espressi da altri esponenti del governo appena passato e di quello attuale, ammesso che siano davvero due cose diverse. E, quindi, per evitare di affondare, con ogni probabilità questo governo sarà costretto a gettare a mare il proprio improvvido ministro ormai rivelatosi anche ai più ciechi come una pericolosa zavorra.

Pochi giorni fa aveva espresso pubblicamente il concetto che le elezioni anticipate dovevano essere fissate al più presto perché soltanto così si sarebbe potuto disinnescare il referendum richiesto dalla Cgil su tre aspetti del Jobs Act che con ogni probabilità si trasformerebbe in un’ennesima figuraccia (ricordiamoci anche la legge Madia) per la politica renziana e che svuoterebbe di senso quella legge che si era vantata di essere sul lavoro, ma che in realtà mira a regolamentare soltanto la precarietà. Ebbene: il concetto del tentar di neutralizzare il referendum con il ricorso alle urne, poi messo in chiaro da Poletti, era già abbondantemente circolato a palazzo Chigi in precedenza, tanto da trovare posto in numerosi articoli politici su varie testate italiane e internazionali, come pura ipotesi politica. Poletti, insomma, come di solito fa, si è limitato a ufficializzare cose istituzionalmente sconvenienti che, invece dovevano restare segrete e che lui ha sentito soltanto perché non poteva non essere dove quelle cose venivano dette.

Stessa cornice anche per la famigerata frase pronunciata a proposito della cosiddetta “fuga dei cervelli”: «Conosco gente – ha detto Poletti – che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi». Altra frase totalmente priva di diplomazia, però anche difficilmente incasellabile a sinistra in quanto dimentica che la fuga all’estero non riguarda soltanto “i cervelli”, ma anche tantissimi cittadini - magari non baciati dal genio, ma comunque dotati di cervello - che hanno dovuto emigrare con il solo obbiettivo di sopravvivere economicamente. Una frase, comunque, che contiene un concetto altrui che Poletti si è limitato a infiocchettare da par suo. Un paio di mesi fa, infatti, era stato l’allora primo ministro, Matteo Renzi, a puntare il dito contro la «retorica della fuga dei cervelli», durante un intervento in Toscana, poco prima di partire per la cena negli Stati Uniti con il presidente Barack Obama, specificando anche che «Bisogna aprirsi alla competizione internazionale; trovare il modo di essere attrattivi». Sollecitazione alla quale aveva risposto subito il sottosegretario Scalfarotto con un’altra alzata d’ingegno nella quale invitava le aziende internazionali a sfruttare il fatto che gli ingegneri italiani costano meno dei loro colleghi.

Secondo me l’inadeguatezza di cui si parla esiste, ma non riguarda soltanto il sedicente ministro Poletti, ma un’intera classe politica sedicente di centrosinistra.

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giovedì 15 dicembre 2016

Il rosso e il rossore

In questo governo – come, del resto, in quello precedente – non manca soltanto il rosso, inteso come ormai negletto colore emblematico della sinistra, ma manca anche quel rossore che è la tipica reazione somatica che svela la vergogna. E non perché siano i vasi capillari delle guance dei ministri a essere insensibili agli stimoli di un cervello che entra in crisi perché si rende conto di aver fatto qualcosa che non andava, ma in quanto è proprio la vergogna a mancare.

«O vergogna, dov’è il tuo rossore?», faceva dire ad Amleto William Shakespeare. E, a dire il vero, il rossore sulle guance di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro (che fatica definirlo così) appare. Ma, in realtà appare sempre, tanto che si può tranquillamente dire che dipenderà da altri fattori fisici, ma non certamente dalla vergogna. Anche perché quel colore non si è rafforzato nemmeno di una minuscola sfumatura quando – come gli succede spesso – si è lasciato scappare quello che pensa davvero: «Mi sembra che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto, quindi prima del referendum sul Jobs act. E se si vota prima del referendum – ha detto riferendosi alla consultazione popolare contro l’attuale legislazione sul lavoro – il problema non si pone. Diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul Jobs Act sarebbe rinviato».

Infatti se le Camere venissero sciolte, com’è previsto dalla legge che regola l’istituto referendario, la consultazione sarebbe rinviata a 365 giorni dopo le elezioni, per evitare una sovrapposizione delle campagne elettorali. In caso contrario la Corte costituzionale, che l’11 gennaio si esprimerà sull’ammissibilità dei quesiti, potrebbe fissare la data del voto tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Poi, in serata – sempre come spesso gli succede – Poletti ha tentato maldestramente di rettificare: «Le mie affermazioni non sono altro che l’ovvia constatazione che, qualora si andasse a elezioni politiche anticipate, la legge prevede il rinvio del referendum. È un’ipotesi che non ho invocato io». E, alla fine, quando si è reso conto che la sua posizione è indifendibile, ha tentato di disinnescare un problema per il governo Gentiloni assumendosi ogni responsabilità: «Le mie frasi sono una scivolata personale».

Ma è davvero difficile accettare questa tesi perché questo governo Gentiloni è troppo simile a quello precedente per lasciar ipotizzare che possa pensarla in maniera diversa su quel capolavoro di fabbrica di ulteriori disparità sociali che Renzi ha orgogliosamente annoverato tra i suoi più scintillanti successi e contro il quale la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Ed è anche difficile credere che potrebbe avere successo una nuova campagna per non far andare i cittadini alle urne, come hanno sciaguratamente fatto Renzi e buona parte del PD in occasione del referendum sulle trivelle.

Questa volta i quesiti referendari puntano a cancellare la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi la possibilità di licenziamento senza giusta causa; ad abrogare le disposizioni che limitano la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante, in caso di violazioni nei confronti del lavoratore; e a eliminare quei voucher che hanno reintrodotto una forma di schiavitù in cui il lavoratore lo puoi comprare al tabacchino proprio per il tempo che ti serve, o anche meno, visto che puoi far apparire e far valere i voucher soltanto nel momento in cui sembra pericoloso continuare a far lavorare donne e uomini – chiamiamoli sempre così, perché il termine “lavoratori” ormai è diventato disumanizzante – in nero.

Poletti, però, ha avuto involontariamente il merito di aver riportato in primo piano gli argomenti “lavoro” e “referendum” che le polemiche sul trapasso dal Renzi al Renzi bis avevano relegato in secondo, o terzo piano. E ha fatto capire almeno due cose: la prima è che il PD renziano ha paura di una nuova debacle referendaria e che, quindi, non ha interesse a far finire la legislatura, ma, anzi, di farla concludere al più presto; la seconda consiste nel fatto che Renzi e i suoi non pensano minimamente di correggere – e potrebbero farlo in breve, almeno su alcuni punti – una legge che non ha neppure una caratteristica del pensiero di sinistra, perché di sinistra quel governo (questo governo) non è.

Davanti a queste considerazioni potrebbe sembrare che quel rossore mancante sia soltanto un dettaglio secondario nel quadro generale. E, invece, credo sia un aspetto importantissimo perché un rossore, come un pianto, non cancellano gli errori eventualmente fatti in precedenza, ma assicurano una certa dose di quell’umanità che è comunque necessaria per discutere da posizioni diverse con la speranza di incontrarsi in un qualche punto mediano della strada. Se manca anche il rossore, ci si rende conto che ci si trova soltanto di fronte a una specie di automa, a qualcuno che ritiene che il suo unico scopo – senza mai sforzarsi di pensare in proprio – sia quello di arrivare dove gli hanno detto che si doveva arrivare. E che magari, a sconfitta avvenuta, tenterà di togliersi dalle spalle le proprie responsabilità ripetendo quella frase che troppe volte ha ammorbato l’aria che respira questa umanità: «Non ho fatto altro che obbedire agli ordini».

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martedì 13 dicembre 2016

Quel fastidioso suffragio universale

È un fatto acclarato che i Comitati del No non legati a partiti politici avevano come obbiettivo fondamentale la difesa della Costituzione e non la caduta del governo Renzi. E, quindi, una volta raggiunto lo scopo costitutivo, avrebbe potuto essere logico attendersi una loro quasi totale indifferenza davanti alle dimissioni di Renzi e all’ingresso a Palazzo Chigi di Gentiloni.

Questo, però, vista la composizione del nuovo esecutivo, non può accadere per vari motivi: la conferma di tredici ministri del governo uscente, l’ingresso premiante dell’obbediente Finocchiaro nella posizione che sovrintenderà alle nuove leggi elettorali, la conferma dell’inguardabile (e non dal punto di vista estetico) Poletti al Lavoro, la salita a un ministero resuscitato del fedelissimo Lotti, il passaggio agli Esteri di Alfano, noto anche per il fatto che non conosce pochissime parole di inglese, lo spostamento al sottosegretariato di Palazzo Chigi della Boschi, madre putativa dell’orribile riforma bocciata con lei, e che, invece di essere messa almeno temporaneamente in disparte, ha assunto il compito di braccio destro, o di controllora (al femminile si dice così?), di Gentiloni. Sono questi – e non sono tutti – i motivi che fanno pensare che più che di un governo Gentiloni, si tratti di un Renzi bis in cui il burattinaio per il momento preferisce non mostrare la faccia per dedicarsi, invece, principalmente alla cura del partito dal quale, poi, sperare di riprendere la scalata al potere che conta.

Questa immagine è presentata e sostenuta anche da giornali che, dopo aver difeso acriticamente e fino all’inverosimile Renzi e la sua riforma costituzionale, ora tentano di rifarsi un verginità critica non apprezzando il governo Gentiloni.

Nessun motivo, dunque, da parte dei componenti dei Comitati del No, per storcere il naso, visto che Renzi è praticamente rimasto al suo posto? Non è così e i motivi si trovano proprio nell’evidenza che Renzi, così facendo, ben lontano dall’ammettere di aver sbagliato e perduto, ha voluto soltanto riaffermare muscolarmente il proprio potere. E lo ha fatto pensando soltanto al mondo politico; non certamente ai cittadini, la maggior parte dei quali ha votato contro il suo progetto, ma dei quali non si è curato e non si cura minimamente. Il suo discorso, non esplicitato a parole, ma nei fatti, potrebbe essere condensato, più o meno, così: «Va bene, potrebbe sembrare che io abbia perso e, per non perdere la faccia, fingo di andarmene. Ma voi sapete benissimo che le leve del comando restano saldamente in mano mia».

È un discorso tutto interno a quel mondo politico che Renzi dichiarava di voler cancellare con la rottamazione e che trova un esempio emblematico in Rosato che, una volta rimasto fuori dal governo, si è sentito in dovere di dichiararsi a favore di un veloce ritorno alle urne. Ma è anche e soprattutto la constatazione che l’ex sindaco di Firenze dimostra ancora una volta di tenere in gran conto il voto dei cittadini, ma soltanto se gli è favorevole; altrimenti fa finta che non ci sia neppure stato. Ed è questo che continua a preoccupare e che deve far rimanere con le antenne alzate tutti coloro che hanno operato e votato per difendere la Costituzione.
 

Il modo di comportarsi di Renzi, infatti, non può non richiamare alla memoria le parole pronunciate da Napolitano, uno dei suoi due anziani padri putativi, dopo le elezioni presidenziali statunitensi: «La vittoria di Trump è fra gli eventi più sconvolgenti della storia della democrazia europea e americana, e del suffragio universale che non è sempre stata una storia di avanzamento, ma è stato anche foriero di grandissime conseguenze negative per il mondo». Parole poi riprese, messe a fuoco e sintetizzate da Fabrizio Rondolino: «Il suffragio universale – ha detto il pasdaran del PD renzista – comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale».

Sono parole che fanno rabbrividire e che vanno nello stesso senso in cui andava la riforma che abbiamo avversato e bocciato: quello di togliere occasioni al popolo per far sentire la propria voce e di limitare anche l’attività dei delegati dal popolo per privilegiare, invece, i voleri del capo.

È vero che talvolta il suffragio universale porta a risultati che possono essere considerato pericolosi, ma la causa non è certamente del suffragio universale e della democrazia, bensì del fatto che troppo spesso la gente si avvicina alle urne con sufficienza, o del tutto impreparata. E la colpa non è solo della gente, ma soprattutto della politica che ormai tenta di parlare ai cittadini soltanto in occasione del voto, mentre per tutti gli anni che intercorrono tra un’elezione e l’altra, cerca addirittura di sviare l’attenzione, di non far pensare, perché ogni pensiero cosciente può dar vita a una fastidiosa obiezione, o, addirittura, a un’intollerabile opposizione. E così saltano tutti confronti e i dibattiti, intesi come occasione di crescita reciproca e non di palcoscenico in cui mettere in mostra soltanto i propri slogan.

Ed è evidente che allora il posto lasciato così a lungo vacante dalla politica volontariamente assente, finisce per essere occupato da altre entità: una televisione che per la grandissima parte distrae e assopisce qualunque impulso sociale, le mafie, i poteri forti, o, anche, più semplicemente, gli egoismi e le asocialità.

Eppure la storia ha dimostrato ad abundantiam che se consegni la tua vita in mano a chi è delegato a decidere da solo per te, prima o poi quel qualcuno abuserà della sua delega. E potrà anche farlo in maniera drammatica. La mente corre a nomi come Mussolini, Hitler, Stalin, ma la lista tra cui scegliere un esempio, pur se talvolta meno altisonante, è purtroppo drammaticamente lunghissima.

Quindi, come già è stato detto, la vittoria nel referendum non è un punto di arrivo, ma di partenza. Non per creare nuove realtà politiche, ma per sorvegliare e stimolare quelle esistenti. Sprecare il patrimonio accumulato in questi lunghi mesi di efficace opposizione dal basso sarebbe commettere un peccato sociale e politico probabilmente non inferiore a quelli commessi da Renzi.

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sabato 10 dicembre 2016

Alleanze, obbiettivi e rancori

Al fatto che in Italia tutto sia un po’ più complicato del normale ormai dovremmo essere abituati, ma – è inutile negarlo – ogni volta restiamo un po’ sorpresi.

Prendiamo, per esempio, il referendum: si poteva votare Sì, oppure No e, quindi, oggi ci dovrebbero essere soltanto un vincitore e un perdente. Invece i vincitori si moltiplicano: al di là di quelli – che non sono pochi – che hanno votato No perché ritenevano che non si dovesse rinunciare a una fetta di democrazia, hanno voluto mettere cappello sul risultato i grillini, i leghisti, i berlusconiani e, in generale, quelli di destra.

Gli sconfitti, invece, tendono a mimetizzarsi se è vero che anche Renzi – indiscutibilmente quello che tutto ha scommesso e tutto ha perduto – è arrivato a teorizzare che, tutto sommato, il suo è stato quasi un successo perché tenta di intestarsi l’intero gruppo del 40 per cento degli italiani che hanno votato Sì.

E, sull’onda di questo tentativo di gioco delle tre carte destinato agli elettori più distratti, o più vogliosi di farsi convincere, fa finta di dimenticarsi che per mesi è andato avanti a dire che, in caso di sconfitta, non si sarebbe limitato a dare le dimissioni, ma avrebbe abbandonato per sempre la politica. Cosa che, ovviamente, ora si guarda bene dal fare.

Tra i perdenti, però ci sono quelli che magari non lo ammettono esplicitamente, ma fanno vedere quanto male ci sono rimasti mettendo in campo un livore inverosimile contro coloro che, in linea teorica, tra i vincenti per loro dovrebbero essere politicamente più vicini: quelli che hanno cancellato la riforma Boschi–Renzi–Napolitano da sinistra.

Tutti conosciamo qualcuno tra questi rancorosi pronti ad accusare il No di tutte le disgrazie che capiteranno in Italia nel prossimo mezzo secolo, ma certi meritano davvero una citazione particolare. Michele Serra, per esempio, è uno dei più animosi: accusa “la sinistra a sinistra di Renzi” di saper dire soltanto “No, no, no”, e addirittura di opporsi a Pisapia che si dice disponibile a impegnarsi per la creazione di una nuova forza di sinistra che poi possa allearsi con Renzi per rinnovare le troppo brevi glorie dell’Ulivo.

Per prima cosa sarebbe da precisare, rispolverando una definizione brutta e sbagliata che fa tornare la mente agli anni di piombo, che Renzi non è “un compagno che ha sbagliato”. Intanto perché in lui non c’è nulla di terroristico, ma poi perché non è un “compagno”, visto che non ha alcuna connotazione di sinistra, e perché non “ha sbagliato”, visto che quella riforma fortunatamente abortita lui l’ha pensata, scritta e voluta con fredda determinazione.

Allora, per prima cosa, quella “sinistra a sinistra di Renzi”, o configura, vista la reale posizione di Renzi, quasi come una sterminata prateria, o tende a far pensare che di pensieri di sinistra in Italia ce ne siano rimasti davvero pochissimi; e così non è. Lo dico perché Renzi, anche se afferma di essere uomo di sinistra, in realtà non lo è affatto. Basta pensare alle cose che ha realizzato: il Jobs Act che reintroduce una sorta di schiavismo in cui il lavoratore può essere facilmente acquistato con i voucher al tabacchino e facilmente licenziato con l’unico disturbo di una piccola mancia; lo Sblocca Italia con la sua libertà di cementificare ovunque; la Buona Scuola che non pensa più alla cultura e nemmeno all’istruzione, ma soltanto alle richieste del “mercato”; le tante regalie che, al di là degli scopi elettoralistici, non riducono neppure di un ette le terribili disparità sociali esistenti nel nostro Paese, ma configurano soltanto come un’elemosina per di più fatta con i soldi altrui. E si potrebbe andare ancora avanti.

E allora Serra dovrebbe anche tener conto che nessuno a sinistra rifiuta a priori quell’alleanza con il maggiore partito teoricamente di centrosinistra, ma la rifiuta con Renzi. Perché di Renzi non è che non si fidi – e ne avrebbe già tutte le ragioni – ma perché lo conosce già anche troppo bene.

Si dirà che il PD ha tutto il diritto di scegliersi il segretario che vuole; ed è assolutamente giusto. Ma se il PD sceglie un segretario – e, quindi, una linea politica – che privilegia la governabilità rispetto alla rappresentatività, che vede la democrazia come un fastidio da limitare, se non si riesce a eliminare, perché finisce per cancellare le scelte dei vertici del sistema, che si impegna allo spasimo per favorire banche e mercati e non per cancellare, o almeno diminuire, le diseguaglianze, allora non si capisce proprio perché la sinistra dovrebbe portare voti e forza a un’entità politica che ha obbiettivi diametralmente opposti ai suoi.

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lunedì 5 dicembre 2016

La storia siamo ancora noi

Ebbene sì, lo confesso: ho esultato.

Perché l’Italia continua a essere una Repubblica parlamentare e non è diventata presidenziale. Perché ancora una volta il povero e fragile Davide batte il ricchissimo e potente Golia. Perché è stato dimostrato che sperare si può sempre. Perché molta gente è tornata ad accostarsi alle urne e appare evidente che per buona parte si è trattato di quella gente di sinistra che ormai non riteneva più che qualcuno potesse rappresentarla e che forse ora non considererà concluso il suo compito. Perché il buon senso si è rivelato superiore al potentissimo schieramento mediatico messo in campo da Renzi e dai suoi. Perché la gente ha dimostrato ancora una volta che, se sta attenta, sa distinguere benissimo tra informazione e pubblicità. Perché molti tra quelli che hanno cambiato bandiera perché pensavano di vincere non avranno più il coraggio di appuntarsi medaglie di coerenza, mentre, se questo coraggio di ripresentarsi per cariche politiche o amministrative ce l’avranno ancora, saremo noi a sforzarci di ricordare a tutti come si sono rivelati.

E potrei proseguire a lungo sui perché ho esultato, ma preferisco soffermarmi sui motivi per i quali la gioia non può essere completa e priva di ombre. Sono pensoso perché Renzi ha lasciato un Paese spaccato verticalmente in due e – almeno in questo è riuscito a vincere – una sinistra in frantumi e da ricostruire. Sono pensoso perché i tentativi di appropriarsi di una vittoria popolare sono tantissimi e sono già partiti subito dopo il voto.

Ma pensoso non vuol dire preoccupato, o addirittura privo di speranze. Anzi. I mercati – chiamiamoli pure così – fanno già vedere quanto poco hanno gradito che l’obbediente Renzi non sia più al suo posto, anche se – Costituzione insegna – sarà il Presidente della Repubblica a decidere come cercare un nuovo governo. Però ci sono quasi venti milioni di italiani che hanno già fatto sapere con chiarezza che tengono più conto della democrazia che delle loro minacce.

Nella notte Luciano Favaro, per festeggiare, ha diffuso il testo di “La storia Siamo noi, bella Ciao”, una canzone di Francesco De Gregori che ho spesso citato in questi dodici lunghissimi mesi di campagna referendaria. Un testo che desidero riproporvi:

La storia siamo noi, nessuno si senta offeso
Siamo noi questo prato di aghi sotto al cielo.
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.
La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare,
Questo rumore che rompe il silenzio,
questo silenzio così duro da masticare.
E poi ti dicono: “Tutti sono uguali,
Tutti rubano alla stessa maniera”
Ma è solo un modo per convincerti
A restare chiuso dentro casa quando viene la sera;
Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone
La storia entra dentro le stanze, le brucia,
La storia dà torto e dà ragione.
La storia siamo noi.
Siamo noi che scriviamo le lettere
Siamo noi che abbiamo tutto da vincere e tutto da perdere.
E poi la gente (Perché è la gente che fa la storia)
Quando si tratta di scegliere e di andare
Te la ritrovi tutta con gli occhi aperti
Che sanno benissimo cosa fare:
Quelli che hanno letto milioni di libri
E quelli che non sanno nemmeno parlare;
Ed è per questo che la storia dà i brividi,
Perché nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
Siamo noi, bella ciao, che partiamo
La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano.
La storia siamo noi, Siamo noi questo piatto di grano.


Ripeto quello che ho già scritto e detto tantissime volte: a me del destino politico di Renzi interessava poco o nulla. Mi importava, invece, molto del destino democratico di mia figlia, di mia nipote, dei loro coetanei e di tutti gli italiani. Non è che questo destino ieri sia stato scritto e che ora possiamo vivere tranquilli, ma è certo che ieri è stata cancellata una possibile uscita traumatica dalla strada tracciata da coloro che per la Costituzione sono morti. 

Ora dovremo continuare a vigilare e a operare – ognuno secondo le sue capacità – perché la democrazia, come la stessa vita, va difesa, salvaguardata e fatta sviluppare giorno per giorno da tutti. Senza demiurghi al comando.


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venerdì 2 dicembre 2016

Le buone compagnie

Sembrerà strano, ma non ho mai sentito dare del fascista a Togliatti, né del comunista ad Almirante. Eppure per decenni hanno votato nella stessa maniera contro le proposte politiche della DC. Quindi, secondo il modo di ragionare di Renzi e degli esponenti del Sì, avrebbero dovuto far parte di qualcosa di simile a quell’“accozzaglia” che, nella loro visione delle cose, esiste tra coloro che votano No. “Accozzaglia” che non esisterebbe, invece, al loro interno perché evidentemente – contenti loro – si sentono molto vicini a personaggi come Verdini e De Luca.

E un’“accozzaglia”, sempre dal loro punto di vista, sarebbe stata, a rigor di (loro) logica, anche la Resistenza visto che contro i nazifascisti hanno combattuto insieme monarchici e comunisti, liberali e socialisti, popolari e repubblicani, militari e pacifisti.

Appare davvero impossibile che la loro capacità di ragionamento sia talmente bassa da considerare reale quest’accusa di frequentare cattive compagnie. E, quindi, questo mantra, che si sente ripetere da Renzi e dai suoi sempre più frequentemente man mano si avvicina il momento del voto e appare chiaro che proprio “nel merito” il No ha molte argomentazioni migliori rispetto al Sì, non può che essere catalogato tra le frasi destinate a tentare di far presa sulle fasce più distratte dell’elettorato. Sotto la propaganda, niente.

Come giustamente scrive Zagrebelsky, rispondendo a Scalfari, «l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che entrambi gli schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione di una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente».

C’è ben poco da aggiungere a queste parole, se non il fatto che, al tirar delle somme, gli unici che sono “entrati nel merito” sono stati proprio quelli del No, mentre quelli del Sì si sono aggrappati a vuoti slogan, a timori di governi non renziani e di ritorsioni economiche dall’estero. Oltre che, naturalmente, ad elargizioni ai genitori dei neonati, ai diciottenni, che casualmente sono al loro primo voto, ai pensionati, a un’attenzione mai prima neppure sfiorata per gli italiani all’estero, e alla miracolosa chiusura alla vigilia del voto di contratti nazionali di categoria che non soltanto non si chiudevano da tantissimi anni, ma che addirittura erano osteggiati perché si volevano privilegiare i contratti di secondo livello.

Credo che, a poche ore dal voto, più che alle cattive compagnie sia il caso di guardare alle buone compagnie. E mi riferisco a tutte le persone con le quali ho avuto il privilegio di lavorare in questi lunghissimi mesi di campagna referendaria in un Comitato che è nato dal basso, tra gente che sente in sé ideali di sinistra, senza alcun apporto iniziale di qualche esponente politico; che è stato composto soltanto da cittadini che si rifiutavano – e si rifiutano ancora – di diventare sudditi; che non hanno nessuna ambizione di arrivare a cariche politiche, ma che si muovono soltanto perché sentono che è loro dovere farlo; perché hanno elaborato il concetto che, se spesso sentiamo parlare di “diritto di resistenza”, dovremmo parlare, invece, di “dovere di resistenza”; pacifica, democratica e civile, ma sempre resistenza. E, infatti, non si riesce a capire perché siamo tanto pronti a reagire alle invasioni dei nostri territori – di una nazione, o di un privato cittadino che siano – e siamo tanto insensibili davanti alle invasioni dei nostri diritti.

Credo sia in caso di guardare alle buone compagnie anche e soprattutto perché ritengo assolutamente giusto quello che scrive anche Pierpaolo Suber nel suo profilo Facebok quando ricorda che, qualunque sarà il risultato referendario, questo paese si troverà spaccato e dovrà trovare le risorse etiche, culturali e civili per ricostruire un dialogo democratico che è stato violentemente spezzato con modalità che sono sostenute da ambizioni personali e non dalla ricerca del bene del Paese. E saranno quelle buone compagnie le uniche in grado di lavorare per riunificare il Paese perché sono convinti che il bene del Paese è superiore al proprio tornaconto personale.

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