venerdì 4 novembre 2016

Quale semplificazione?

Una delle “parole magiche” più frequentemente usate da Renzi, Boschi e sodali per propagandare il sì alla riforma costituzionale è sempre stata “semplificazione”. Ma sempre più questa parola appare come una presa in giro perché continuano a venire a galla incongruenze, confusioni, pasticci e contraddizioni che fanno pensare, invece, ad altri concetti come “complicazione”, “conflitto istituzionale”, o, addirittura, “inapplicabilità”.

Per quanto riguarda il Senato e la sua rappresentanza, per esempio, è sfuggito quasi a tutti che, se passasse la riforma, a rigor di logica il Friuli Venezia Giulia potrebbe essere presente nel nuovo Senato con un solo senatore: quello scelto tra i sindaci, mentre potrebbe non esserci quello scelto tra i consiglieri regionali. E sarebbe un fatto davvero molto grave, oltre che assurdo, per un Senato delle autonomie che viene favoleggiato come luogo istituzionale creato proprio per rappresentare le necessità e le istanze dei territori. Meglio chiamarli così perché il concetto di autonomia in parte svaporerebbe quasi immediatamente.

Questa vera e propria perla la segnala Fabio Folisi nel suo quotidiano online “Friulisera”. E consiste nel fatto che gli estensori della riforma si sono dimenticati di verificare se, almeno nelle regioni a statuto speciale, la carica di senatore fosse compatibile, o meno, con quella di consigliere regionale. E così – sottolinea Folisi – scopriamo, leggendo l’articolo 15 dello Statuto della Regione Fvg, che: «L’ufficio di consigliere regionale è incompatibile con quello di membro di una delle Camere, di un altro Consiglio regionale, di un Consiglio provinciale, o di sindaco di un Comune con popolazione superiore a 10 mila abitanti, ovvero di membro del Parlamento europeo». La norma è chiara e incontrovertibile: parla di assoluta incompatibilità tra le due cariche che, invece, la riforma Boschi–Renzi–Napolitano vede strettamente legate.
 

Il senso con cui la norma regionale è stata scritta risiede proprio in quella complessità dei compiti affidati sia a un consigliere regionale, sia a un senatore, sia anche alle altre cariche citate nell’articolo 15, che non può permettere di lavorare bene contemporaneamente in due incarichi evidentemente e giustamente ritenuti di grande delicatezza. Oggi, invece, la riforma sembra considerarli due sinecura che possono tranquillamente convivere anche a centinaia di chilometri e ad abissi di distanza di argomenti l’uno dall’altro.

Ebbene, se passasse la riforma, il busillis iniziale sarebbe davvero divertente, se non portasse allo sconforto nel pensare ai nostri cosiddetti nuovi costituenti. Pensateci: un consigliere regionale designato a diventare senatore non potrebbe presentare le dimissioni da consigliere regionale – e queste non potrebbero essere accettate – pena l’automatica decadenza dalla nomina a senatore perché non sarebbe più senatore. Un cane che si morde la coda; un circolo vizioso irrisolvibile dal quale si potrebbe uscire elegantemente soltanto modificando lo Statuto regionale, cosa lunga e difficilissima perché, per cambiarlo, occorrerebbero le medesime trafile usate per la Costituzione e per le leggi costituzionali.

Più semplicemente, sarebbe bastato inserire nelle norme transitorie un comma nel quale si fosse specificato che, in caso di conflitto con gli statuti speciali, le regole costituzionali avrebbero avuto la prevalenza fino alla variazione degli statuti stessi tenendo conto che avrebbero dovuto essere armonizzati con la nuova Carta fondamentale.

Ma questo non è stato fatto e adesso, sempre ammesso che la riforma passi, ci si troverà davanti a una diatriba da azzeccagarbugli tra coloro che dicono che nulla è scritto e quelli che, invece, sostengono che bisogna interpretare le norme nel modo che a loro sembra più opportuno. Non sono un costituzionalista, ma ho la netta sensazione che anche questo discorso, che non riguarda soltanto il Friuli Venezia Giulia, ma anche la Sicilia, che di senatori che ne ha molti di più, e la Sardegna finirà davanti a quella Corte costituzionale che Renzi, Boschi e sodali assicuravano sarebbe rimasta quasi disoccupata.

Senza contare che la Consulta sicuramente dovrà anche confrontarsi con ricorsi presentati sulla maniera di scegliere i senatori, laddove sarà possibile farlo, soprattutto nelle regioni che manderanno a Roma soltanto un senatore–consigliere regionale. Perché i dettami vincolanti per l’elezione di secondo grado sono espressi in tre punti diversi e richiedono contemporaneamente il rispetto della proporzionalità, la parità di genere, il rispetto dell’indicazione degli elettori di primo grado. Come mettere insieme questi tre requisiti è un altro indovinello di difficilissima risoluzione.

Al di là degli inevitabili e amari sogghigni, resta il fatto che vorrebbero che abbandonassimo una Costituzione che necessità di alcuni ritocchi, ma non tanti, e che è chiara e trasparente, per abbracciarne una nuova, stravolgente il nostro concetto di democrazia, scritta davvero con i piedi da coloro che ambirebbero a passare per nuovi padri costituzionali e che è già in partenza un terreno minato che darebbe un dilagante surplus di lavoro alla Corte Costituzionale.

Semplificazione? Ma quale?

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