mercoledì 30 novembre 2016

Quel PD che fa finta di non conoscere se stesso

Alla vigilia di questo referendum costituzionale non si può non ricordare che questa non è la prima volta che una riforma costituzionale viene approvata in Parlamento a colpi di maggioranza. È già successo nel 2001 con la sciagurata decisione di far approvare, con margini risicatissimi, la riforma del Titolo V, quello che tratta dei rapporti tra lo Stato e le autonomie locali, comuni, province e regioni. Ed è accaduto di nuovo nel 2006 con un altro sciagurato tentativo, questa volta del Centrodestra che voleva tramutare – un po’ proprio come oggi, ma quella volta esplicitamente – la Repubblica da parlamentare a presidenziale.

Dopo quei due colpi di mano il Centrosinistra sembrò pentirsi di aver dato il via, per primo nella storia della Repubblica, ai colpi di mano costituzionali, e ammise pubblicamente di avere sbagliato e di aver imparato la lezione, tanto che, alla sua nascita, il Partito Democratico decise di darsi, come punto di riferimento costante, un Manifesto dei Valori (ancora assolutamente vigente e facilmente consultabile sul sito dello stesso PD) in cui si legge che «La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale».

Sono parole chiarissime, profonde e ispirate, che recuperavano concetti di una maggiore tutela necessaria per l’articolo 138; concetti che, tra l’altro, erano già esplicitati molto prima, nel febbraio del 1995, quando dal Centrosinistra fu presentato un disegno di legge costituzionale che introduceva l’obbligo dei due terzi di voti per ogni revisione costituzionale, e che prevedeva che il referendum si potesse chiedere sempre, e che fosse «indetto per ciascuna delle disposizioni sottoposta a revisione, o per gruppi di disposizioni tra loro collegate per identità di materia». Merita ricordare anche che tra i firmatari di quel disegno di legge figuravano anche Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella che essendo, allora nella minoranza, sentivano l’esigenza democratica di impedire alla maggioranza di mettere le mani sulla Costituzione.

Segnalo questa cosa non tanto per dire che il PD di Renzi sottoscrive una cosa e poi ne fa un’altra, ma per affermare due realtà incontrovertibili. La prima: il PD continua a avere in sé alti valori democratici a livello di principio, ma i suoi vertici, o non hanno letto le carte costitutive del loro partito, oppure non se ne curano minimamente. La seconda è che tantissimi italiani hanno scelto di votare per il PD anche in virtù di questi forti impegni democratici e istituzionali, ripetuti speso anche da sindaci, come quello di Udine, Honsell, a ogni 25 aprile, e che oggi quegli stessi italiani si sentono truffati perché oggi il loro voto è utilizzato da un partito che evidentemente non è più quello che si è presentato alle ultime elezioni politiche, e che quel loro voto è stato utilizzato per tentare di massacrare quella stessa Costituzione che molti dei suoi elettori volevano difendere. Viene da chiedere a Renzi, Serrachiani, Guerrini e tanti altri fedelissimi dell’attuale presidente del Consiglio e segretario del partito – in entrambi i casi pro tempore – se non ritengono che i voti perduti nelle recenti amministrative possano essere collegati proprio al tradimento degli impegni più importanti.

Quindi vorrei aggiungere alle motivazioni per barrare il No sulla scheda elettorale anche il fatto che questo voto non vale soltanto per oggi, ma anche per il futuro. Con la vittoria del No, infatti, si contribuirebbe ad abbattere quel concetto aberrante, ma ormai dato quasi per assodato che ogni maggioranza ha il diritto di farsi la sua Costituzione. Ripeto: lo ha fatto il centrosinistra nel 2001, lo ha fatto il centrodestra nel 2006, ma è stato sconfessato dal referendum; lo stanno facendo nel 2016 Renzi con quella parte di partito che preferisce la fedeltà al capo piuttosto che ai valori fondanti e speriamo che anche questa volta il popolo rifiuti di farsi togliere democrazia.

Perché, come ha dimostrato la Costituente nei sui lavori del 1946 e del 1947, la Costituzione, oltre a limitare i poteri di chi ne ha di più e a difendere chi ne ha di meno, è e deve essere di tutti: per riprendere concetti ormai evaporati, dai monarchici ai comunisti, dai liberali ai socialisti, dai credenti ai laici; non può mai essere di una parte soltanto. E soprattutto non può essere fatta da coloro che hanno già più potere degli altri, ma ne vogliono ancora di più. Magari rassicurandoci: «State sereni: non ne approfitteremo».

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sabato 26 novembre 2016

Qualcuno ha già votato

Il fatto che la Corte Costituzionale spesso finisca per considerare costituzionalmente illegittime alcune leggi e alcune riforme rientra sicuramente nella normalità, come altrettanto normale è che le reazioni di coloro che si sentono dare torto siano abbastanza critiche. Ma questa volta, con la bocciatura di parte della riforma Madia sulla Pubblica Amministrazione, si esce dalla consuetudinarietà, sia per il tipo di decisione della Corte, sia per le reazioni dei delusi.

E partiamo proprio da questi ultimi. Anzi, dal loro capo, Matteo Renzi, che ha reagito rabbiosamente: «È una vittoria dei burocrati», ha sibilato. E – anche se da un organo istituzionale ci sarebbe da attendersi quel rispetto più volte da lui affermato in campagna referendaria nei confronti di un organo di garanzia – c’è da capirlo, nella sua stizza, perché nelle motivazioni della sentenza della Suprema Corte si legge che la riforma Madia lede l’autonomia delle Regioni. E che lo fa in quattro punti cruciali: dirigenti, società partecipate, servizi pubblici locali, organizzazioni del lavoro.

C’è da capirlo nel suo dispetto perché quella stessa Corte Costituzionale, che aveva deciso di rimandare la propria decisione sulla costituzionalità dell’Italicum per non influenzare il voto al referendum, questa volta ha deciso di intervenire in maniera pesante su argomenti che sono consustanziali, più che contigui, al complesso del Titolo V, quello che si occupa, appunto, dei rapporti tra Stato e Regioni e che è una delle fonti di maggiori novità e più forti critiche per la riforma costituzionale. E questo non può non voler dire qualcosa in quanto la Corte, senza neppur dover mettere in evidenza la sua scelta, avrebbe potuto rinviare tranquillamente la decisione di un paio di settimane.

E, a quel punto, con la vittoria del No, non avrebbe avuto problemi a dire le medesime cose che ha detto ieri. Con la vittoria del sì, invece, la Corte avrebbe potuto addirittura evitare qualsiasi giudizio in quanto si sarebbe trovata a dover ragionare su una Costituzione diversa; perché – è bene ricordarlo – la Consulta deve esprimersi sulla Costituzione vigente, mentre non può esprimersi su progetti futuri.

Quindi, se ha deciso di esprimersi subito, con la Costituzione ancora in vigore, questo evidentemente vuol dire qualcosa. E, pur rendendomi conto che le mie opinioni, i miei ragionamenti e le mie conclusioni devono limitarsi a essere catalogate come ipotesi, senza possibilità di conferma certa vista la consolidata riservatezza dei giudici, mi sembrano talmente logiche che mi appare doveroso condividere queste conclusioni con voi.

Se la Corte ha voluto esprimersi subito, questo significa che intende far capire che, almeno per il Titolo V, la riforma costituzionale Boschi–Renzi–Napolitano non è da lei apprezzata.

In pratica, almeno secondo me, un primo voto sulla riforma è stato già dato, con una decina di giorni di anticipo sul referendum, da un’istituzione di grande peso. Ed è un voto negativo.

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giovedì 24 novembre 2016

La buona educazione

Il tema della buona educazione è stato da me toccato una sola volta durante questa lunghissima campagna referendaria: quando ho annotato che, nel dibattito televisivo tra loro, con la sua indefettibile presenza era diventata una pesante palla al piede per chi (Zagrebelsky) ne aveva fatto una pratica quotidiana, mentre con la sua totale assenza era stata una potente arma propagandistica nelle mani di chi (Renzi) forse ne aveva sentito parlare in gioventù, ma poi ne aveva eliminato qualsiasi traccia perché avrebbe potuto fare da freno in alcune sue attività.

Ora, visto che le offese sono diventate il pane quotidiano di Renzi, ma anche di Grillo e di una parte del fronte del No che si colloca nel centrodestra, ritengo giusto far rimarcare la differenza del Fronte del No che da sempre cerca di entrare nel merito, visto che Renzi e i suoi navigano a slogan; ma anche ribadire certe verità che, probabilmente per un eccesso di fair play, sono state accennate all’inizio e poi sono rimaste soltanto sullo sfondo.

Prima questione: la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum. Ebbene, visto che la riforma Renzi-Boschi–Napolitano è stata approvata a colpi di maggioranza, diventa importante il fatto che questa maggioranza sia abusiva e illegittima. Visto che la Corte ha ritenuto fondato il parere di chi vedeva «una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica» nelle attuali Camere in quanto quella legge ha costruito una maggioranza diversa rispetto al verdetto del voto popolare. La Corte ha aggiunto che le Camere potevano comunque restare in carica per il principio di continuità dello Stato, ma il principio di continuità si riferisce a normale amministrazione e alla redazione di una nuova legge elettorale, non al fatto che si possa usare il margine garantito da una maggioranza incostituzionale per cambiare la Costituzione. Se il Porcellum non ci fosse stato, il PD non avrebbe oltre 350 deputati, ma sarebbe abbondantemente al di sotto dei 200 e molto probabilmente Renzi non si sarebbe lasciato tentare di scalare un posto di potere con una maggioranza inesistente.


Ma, pensando a quelli del PD che voteranno come vuole Renzi, vorrei invitarli ad andare a rileggersi quel “Manifesto dei Valori” che è ancora vigente ed è consultabile e scaricabile dal sito internet dello stesso Pd. Quel manifesto risentiva ancora della vergogna di cui si era macchiato il Centrosinistra quanto, nel 2001, aveva approvato a colpi di maggioranza la riforma costituzionale del Titolo V, e, infatti, vi si legge un testo da cui trasuda, palpabile, il rimorso per quello che era stato fatto e il proponimento di non ripetere più il medesimo errore.

Il testo dice: «La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e che resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale».

Sono parole inequivocabili che, infatti, presupponevano la modifica dell’articolo 138 della Costituzione andando a recuperare una proposta già avanzata dal Centrosinistra avanzata nel 1995, quando era stato presentato un disegno di legge costituzionale che introduceva l’obbligo dei due terzi di voti per ogni revisione costituzionale, e che prevedeva che il referendum si potesse chiedere sempre, e che fosse «indetto per ciascuna delle disposizioni sottoposta a revisione, o per gruppi di disposizioni tra loro collegate per identità di materia». Tra i firmatari di quel disegno di legge figuravano anche Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, un presidente della Repubblica emerito e un Presidente della Repubblica in carica.

Forse sarà cattiva educazione ricordare certe cose, ma, visto che ora è stato il Pd a imporre una riforma costituzionale a colpi di maggioranza, più che di cattiva educazione, o di scarso fair play, parlerei di doveroso recupero di memoria democratica. Anche se può infastidire coloro che quella memoria vorrebbero seppellirla insieme a tante altre.

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giovedì 17 novembre 2016

Governicchi e governoni

Non fosse in ballo il destino democratico di un Paese, e soprattutto dei suoi abitanti, ci sarebbe da divertirsi a osservare l’arrabattarsi di Renzi che su questo referendum ha giocato tutto e che sempre più teme di perdere la sua scommessa.

Lo vediamo promettere di tutto e di più: dalla decontribuzione totale per gli assunti al Sud dove, caso strano, il No è in nettissimo vantaggio, agli 800 euro per tutti i nuovi nati, ai 500 euro a tutti diciottenni (è sempre un caso che siano proprio quelli che per la prima volta vanno alle urne), alla quattordicesima (nuova o rafforzata) per una fetta di pensionati, agli 80 euro distribuiti un po’ qua, un po’ là a varie categorie di persone.

Ma lo vediamo anche effettuare giravolte e piroette degne di un grande artista del circo. All’inizio aveva detto che se avesse vinto il No lui si sarebbe ritirato dalla politica. Poi, resosi conto, grazie alle spiegazioni di alcuni influenti amici, che la sua possibile uscita di scena aveva affascinato molta più gente di quanta ne avesse terrorizzata, era precipitosamente tornato indietro affermando che si era trattato di un suo errore e che, comunque, non solo non sarebbe uscito dalla politica, ma addirittura non si sarebbe neppure dimesso.

Ora, accortosi che quella virata di 180 gradi non ha sortito l’effetto sperato, ha bruscamente ripreso la direzione di marcia originale, evidentemente sperando che nella mente degli italiani due contraddizioni possano elidersi in maniera tanto efficace da non lasciare neppure traccia nella loro memoria. Oggi, infatti, ha detto: «Se i cittadini dicono di No e vogliono un sistema che è quello decrepito che non funziona, io non posso essere quello che si mette d'accordo con gli altri partiti per fare un governo di scopo o un governicchio».

È evidente che Renzi dice sempre quello che crede che in quel momento gli conviene di più, o, comunque, quello che gli consigliano i suoi reputatissimi consiglieri strategici di propaganda, ma, al di là della volatilità e volubilità dei concetti, nelle sue dichiarazioni ci sono sempre alcuni punti fermi che permettono di comprenderlo davvero.

In questo caso mi sembra utile soffermarci per un momento sul termine “governicchio” e su come, secondo lui, questo nascerebbe. Ne deriva la constatazione che la differenza tra “governoni” e “governicchi” non risiede nelle cose che questi sono riusciti a fare per il bene del Paese, ma nella quantità di quella che lui chiama “governabilità” – e che in realtà è decisionismo – che quel governo riesce ad avere; nella possibilità di decidere senza doversi sobbarcare la fatica, e soprattutto il fastidio, di dover discutere con altri che non hanno la medesima idea.

Se ne trae, insomma, l’idea che governicchi sono stati quelli che, con faticose discussioni e mediazioni, sono riusciti a far superare a un partito di maggioranza relativo come la Democrazia Cristiana, tanti impedimenti ideologici da far approvare la legge sul divorzio e sull’aborto, o, anche, a far passare lo Statuto dei lavoratori. Senza contare quelli che ci hanno portato dalla distruzione postbellica al boom economico.

Di governoni, invece, non ce ne sono praticamente stati; tranne il suo, ovviamente, che è sicuramente un primatista di promesse, ma che è stato capace di mantenerne ben poche, in primis quelle sulla ripresa economica. E che come suo unico indiscutibile successo può presentare – ai potentati economici, ovviamente – la distruzione dello Statuto dei lavoratori e la riduzione in moderna schiavitù di centinaia di migliaia di lavoratori che non hanno più alcun diritto, neppure quello di lamentarsi.

E questo non è un invito a votare No per far cadere il governo Renzi – del suo destino politico mi interessa poco, o nulla – ma a farlo per scongiurare l’ipotesi che la sua mentalità debordi dai limitati anni di durata di un governo alla ben più lunga durata di vigenza di una Costituzione che – merita ripeterlo – non è una legge qualunque, ma deve stabilire regole condivise e deve limitare i poteri di chi già ne ha di più degli altri. E non il contrario.

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lunedì 14 novembre 2016

La scelta dei tempi

Evidentemente abbiamo qualche problema serio nella coniugazione dei verbi; non tanto nella scelta dei modi, quanto in quella dei tempi.

Per esempio, talvolta usiamo il presente mentre dovremmo adoperare il passato. Ultimamente, infatti, abbiamo più volte sentito ripetere «La sinistra perde…» aggiungendo, poi, a seconda del caso, «… le amministrative», o «… in Francia», o, proprio in questi giorni, «… contro Trump». Ma, ammesso che la si possa chiamare sinistra, invece del presente, avremmo dovuto usare il passato – prossimo o remoto, a seconda dei gusti – perché la sinistra è davvero da tanto tempo che ha perso; e non soltanto alcune elezioni, ma soprattutto, nell’ansia di vittoria, la sua anima.

In altri casi, invece, dovremmo usare il presente e non il futuro. Dire, per esempio, «Se dovesse essere approvata la riforma costituzionale si rischierà un deriva antidemocratica» è sbagliato perché la deriva antidemocratica la stiamo già vivendo ora, anche se bisogna sottolineare che le sue radici affondano indietro nel tempo; almeno fin da quando si è consentito il passaggio e l’uso di leggi elettorali anticostituzionali.
 

È difficile, infatti, definire in altro modo quanto è successo con i quattro milioni di lettere spedite, a firma di Matteo Renzi, agli italiani all’estero per propagandare il sì al referendum costituzionale.

Mettiamo subito in chiaro che sicuramente nessuna legge sarà stata infranta, ma il messaggio di etica politica e di educazione democratica che ne esce è davvero devastante.

Cominciamo da un semplice calcolo matematico per capire quanto possa essere venuta a costare una simile spedizione. Dal sito di Poste italiane si evince che per spedire all’estero una missiva leggera (al di sotto dei 20 grammi) si deve spendere un euro per indirizzarla in Europa e nell’Africa che si affaccia sul Mediterraneo, che servono 2 euro e 20 centesimi per il resto dell’Africa, le Americhe e l’Asia, e che si arriva a 2 euro e 90 centesimi per l’Oceania. Facciamo, a essere molto buoni, una media di un euro e 50 centesimo a missiva e questo comporterebbe una spesa di 6 milioni di euro. Ma siamo ancora più buoni e diciamo anche che, vista la grande quantità di lavoro, Renzi possa avere ottenuto un forte sconto sulla cifra totale, magari rivolgendosi a qualche azienda di posta privata. Diciamo che si possa arrivare al 50 per cento di sconto? Resterebbero sempre 3 milioni di euro. Calate ancora un po’, ma più di tanto non si potrebbe davvero.

Una cifra davvero consistente che, ovviamente, non può essere uscita dalle casse dello Stato perché si tratterebbe di peculato, ma che deve essere uscita da quelle del PD, pur se, probabilmente, a nome di “Bastaunsì”, e magari sotto forma di sostanziose donazioni da parte di abbienti sostenitori di cui nulla per il momento si sa. E saremmo anche curiosi di sapere se la spesa sia stata decisa, o meno, da una direzione del partito e se la minoranza ne fosse stata al corrente.

Ma il vero problema, che getta una luce un po’ inquietante sul modo di pensare e di agire di colui che si è intestato fin da subito la proposta di riforma costituzionale, è la sua continua commistione di azioni, il suo ininterrotto approfittare del suo ruolo pubblico in ogni circostanza per fare propaganda politica spingendo verso un risultato che egli considera determinante per il proprio futuro. Nel suo sfrenato attivismo, dall’assemblea nazionale sul Mezzogiorno alle inaugurazioni di qualsiasi tipo di opera pubblica o privata, anche piccolissima, ogni occasione è buona per presentarsi con la giacca del presidente del Consiglio e approfittare della sua carica per fare una dose di propaganda che poi, inevitabilmente visto che di presidente del Consiglio si tratta, finirà sulle televisioni; nazionali, o locali, a seconda dei casi.

Ma per quanto riguarda la lettera agli italiani all’estero, la situazione è decisamente più grave e fa capire lo spirito di quella riforma che speriamo non diventi mai la nostra Costituzione: in questa lettera Renzi, sia dal punto di vista economico, sia politico, fa propaganda come segretario del PD, ma usa il piglio, la teorica autorevolezza e le parole del presidente del Consiglio.

Rispetto per la costituzionale separazione dei poteri fissata da Montesquieu proprio per evitare pericolose concentrazioni? Qui non c’è più nemmeno la separazione delle cariche.

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martedì 8 novembre 2016

La prima vittima? Il vocabolario

È già stato segnalato molte volte, ma merita ripeterlo ancora: una delle prime e più importanti vittime di questo modo scriteriato di fare politica è il vocabolario. In quella che lo storico Emilio Gentile, nel suo recente libro “Il capo e la folla”, ha definito “democrazia recitativa”, sono tantissimi i vocaboli usati a sproposito, da soli, in locuzioni, o frasi, per far intendere qualcosa che i capi vorrebbero far arrivare alla folla, ma senza che dietro al concetto, oppure allo slogan ci sia un contenuto reale, tangibile e soprattutto corrispondente alla frase stessa.

Se non si usa lo stesso vocabolario vuol dire che non ci si può più capire e, visto che il capire ciò che dice l’altro è la base fondamentale di ogni possibile dialogo e accordo, l’incomprensione reciproca rende non solo impossibile, ma addirittura inutile il confronto e si arriva alla negazione della politica e, quindi, della democrazia.

Proviamo a fermarci per un momento sulla piccata risposta di Debora Serracchiani a Pierluigi Bersani che, dopo gli attacchi alla minoranza richiesti dal capo e accettati dalla folla alla Leopolda, aveva detto che «mentre a Firenze urlavano “Fuori. Fuori”, a Monfalcone gli elettori del PD erano già andati fuori», non sentendosela di votare per la candidata PD e lasciando così campo libero alla candidata leghista per espugnare una delle più tradizionali roccaforti della sinistra. Aggiungendo poi che «c’è un pezzo del nostro mondo che se ne va e dal PD non è arrivato un minimo di riflessione e di riconoscimento di questi problemi».

Ebbene la presidente della giunta regionale così ha risposto: «Bersani non stravolga la realtà ed eviti polemiche fuori luogo».

È evidente che qui le due parti in causa parlano lingue diverse. Bersani si lamenta che alla Leopolda Renzi ha aizzato la folla contro coloro che, all’interno del partito non sono d’accordo con lui e la Serrachiani risponde che non è stato lui a urlare «Fuori. Fuori». Bersani si lamenta che il tonfo monfalconese, come quelli delle amministrative di primavera non porti subito a un’analisi autocritica del perché il PD abbia perduto tanti elettori e la Serracchiani risponde parlando di polemiche inutili. E qui c’è da capirsi: fuori luogo o inutili perché? Perché quando una bottiglia di vetro è andata in mille pezzi, nessuno potrà mai riuscire a ricomporla come non fosse successo alcunché? Oppure perché con le polemiche interne si rischia di rendere ancora più difficile l’unica cosa che a Renzi interessa davvero, e cioè la vittoria al referendum? O, invece, perché la minoranza di un partito ormai, con la democrazia recitativa, non deve permettersi di sollecitare riflessioni a una maggioranza che vuole decidere da sola e che, evidentemente, in qualcosa ha sbagliato? O, ancora, perché non essendo d’accordo con il capo, si può essere accusati di attentare all’unità (quale?) del partito?

Si dirà che neppure in altri partiti la democrazia interna sembra essere un requisito importante. Ma non capisco proprio questo mantra ripetuto spesso soprattutto dalla ministra Boschi: se gli altri sono poco democratici e si comportano male, la stessa cosa deve essere lecita per un partito che vuole farsi ritenere di centrosinistra? E, soprattutto, deve essere accettata senza battere ciglio anche da quegli elettori che di centrosinistra, o di sinistra, sono davvero?

Ho già avuto modo di dire che la cosa che sicuramente non riuscirò mai a perdonare a Renzi è il fatto che ha distrutto l’anima del PD, o, almeno, quella che si pensava avrebbe dovuto essere la sua anima quando è stato fondato. E facendo questo ha mandato scientemente in frantumi, quasi vantandosene, quel centro di gravità che è inevitabile, se si vuole creare convergenze di tipo ulivistico e, quindi condannando il centrosinistra italiano a un rincorsa che durerà parecchio tempo prima di riprendere le dimensioni che, invece, potrebbe avere di natura.

E lo ha fatto, con l’aiuto di tutti i suoi, accanendosi proprio contro quel vocabolario violato chiamando “governabilità” il decisionismo, “semplificazione” l’eliminazione di spazi per il dissenso, “tempi certi” la certezza di non avere troppi fastidi dalle opposizioni, e così via.

Proviamo, ogni volta che sentiamo frasi indigeribili, a chiedere ad alta voce a chi le pronuncia cosa vogliano dire davvero. Potrebbe già essere determinante.


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domenica 6 novembre 2016

La coscienza e la burocrazia

Nel pomeriggio di ieri, quando ho letto le dichiarazioni di Papa Francesco durante l’incontro in Vaticano con i movimenti popolari internazionali, ho provato la stessa sensazione di quando, al mare, si riemerge da una nuotata sott’acqua al limite delle nostre capacità e si torna a inspirare avidamente quell’aria che i nostri polmoni richiedono con forza.

Dopo mesi in cui ci si sente moralmente obbligati a lottare contro il buio incombente di una riforma costituzionale nella quale le parole d’ordine dei propugnatori sono velocità, governabilità, riduzione delle spese della politica e dei suoi attori, e assoluto rispetto dei desiderata dei cosiddetti “mercati”, il messaggio di Francesco è addirittura abbagliante, oltre che graffiante per le coscienze che ancora non si sono rinchiuse in una corazza d’acciaio.

Ricordando Lesbo, Francesco sottolinea che lì ha potuto «ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o per violenze di ogni genere. Folle esiliate a causa di un sistema socio-economico ingiusto e di guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli. Faccio mie – ha continuato Francesco – le parole di mio fratello l’arcivescovo Hieronymos di Grecia: “Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la bancarotta dell’umanità.”».

E il pontefice si è chiesto, «che cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo... Molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente». La paura, ha insistito Francesco, «indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si rifiuta di vedere il sangue, il dolore, il volto dell’altro».

E poi si è domandato cosa fare, e si è risposto: «Il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi e anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento».

E qui capisci senza esitazioni che le parole “sinistra” e “destra” hanno davvero ormai poco senso se riferite agli schieramenti sugli scranni parlamentari dei vari partiti politici, entità che continuano a chiamarsi così, ma che della loro funzione originale di cinghia di trasmissione tra il popolo e il potere hanno mantenuto ben poco, se non addirittura nulla.

Ma quelle due parole – sinistra e destra – hanno ancora un senso preciso e strepitante se dividono coloro che hanno come prima preoccupazione il bene di tutti e soprattutto di coloro che soffrono di più, da quelli che, invece, difendono il fazzoletto di terreno e l’angolino di benessere che sono riusciti a ritagliarsi e pensano ai poveri di casa e ai migranti che arrivano da lontano soltanto quando cercano giustificazioni per la loro condotta fatta di rifiuti, di barricate, di muri e dicono che lo fanno – e qui inevitabilmente ci richiamano alla memoria il lupo di Cappuccetto Rosso – «per aiutarli meglio». O aumentando di un po’ le elemosine, o per ritrasferire i problemi «a casa loro» dove i problemi sicuramente non saranno risolti, ma dove non si vedranno nemmeno più, se si avrà quel minimo di attenzione per cambiare immediatamente canale quando la televisione accenna a guerre, o a disastri umanitari.

E poi, dopo questa avida boccata di valori umani, sociali e civili, ecco che prepotentemente torna a cercare spazio la burocrazia, arriva Cuperlo firmando un documento che, secondo lui e i renziani, risolve quasi tutti i problemi e che Miguel Gotor, senatore della minoranza PD, condanna, invece, senza esitazioni: «In assenza di un impegno parlamentare irreversibile e simile a quello profuso da Renzi per varare l’Italicum (allora non istituì commissioni di partito, ma impose la fiducia al Parlamento e fece sostituire dalla Commissione Affari costituzionale dei compagni di partito che la pensavano diversamente), sarà bene adoperarsi per il successo del No. Un esito che consentirà di abrogare l’Italicum grazie alla volontà della maggioranza del popolo italiano».

Noi diciamo da tempo che, anche senza l’Italicum, la riforma costituzionale sarebbe indigeribile perché, in realtà, oltre a essere confusa, pasticciata, contraddittoria, punta anche e soprattutto a trasformare nei fatti una democrazia parlamentare in una democrazia praticamente presidenziale.

E, comunque, un’eventuale nuova legge elettorale – dice Renzi anche in presenza della firma di Cuperlo – dovrebbe comunque assicurare che la sera delle elezioni si deve sapere chi ha “vinto” – vocabolo più adatto a una partita di calcio che a un lavoro per il bene del Paese – e che la maggioranza che ne esce sia ampia e stabile.

E allora è inevitabile rispolverare un paragone espresso da Tommaso Montanari che ritengo molto descrittivo: la Costituzione è assimilabile a una pistola e l’Italicum a un proiettile. Se tolgo di mezzo il proiettile, la pistola resta sempre sul tavolo, pronta a essere armata con un nuovo proiettile e, quindi, il pericolo continua ad aleggiare sulle nostre teste. Perché il nuovo proiettile lo si può mettere anche a gennaio.

Ma, a parte questo, grazie anche ai richiami del Papa indirizzati alla coscienza di ciascuno di noi, ci appare davvero chiaro che dopo una lunghissima parentesi sott’acqua noi vogliamo riprendere a respirare democrazia e non decisionismo. Non sarà un’impresa priva di fatiche, ma non tentare di recuperare il progresso sociale sarebbe un terribile – e laicissimo – peccato di omissione.

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venerdì 4 novembre 2016

Quale semplificazione?

Una delle “parole magiche” più frequentemente usate da Renzi, Boschi e sodali per propagandare il sì alla riforma costituzionale è sempre stata “semplificazione”. Ma sempre più questa parola appare come una presa in giro perché continuano a venire a galla incongruenze, confusioni, pasticci e contraddizioni che fanno pensare, invece, ad altri concetti come “complicazione”, “conflitto istituzionale”, o, addirittura, “inapplicabilità”.

Per quanto riguarda il Senato e la sua rappresentanza, per esempio, è sfuggito quasi a tutti che, se passasse la riforma, a rigor di logica il Friuli Venezia Giulia potrebbe essere presente nel nuovo Senato con un solo senatore: quello scelto tra i sindaci, mentre potrebbe non esserci quello scelto tra i consiglieri regionali. E sarebbe un fatto davvero molto grave, oltre che assurdo, per un Senato delle autonomie che viene favoleggiato come luogo istituzionale creato proprio per rappresentare le necessità e le istanze dei territori. Meglio chiamarli così perché il concetto di autonomia in parte svaporerebbe quasi immediatamente.

Questa vera e propria perla la segnala Fabio Folisi nel suo quotidiano online “Friulisera”. E consiste nel fatto che gli estensori della riforma si sono dimenticati di verificare se, almeno nelle regioni a statuto speciale, la carica di senatore fosse compatibile, o meno, con quella di consigliere regionale. E così – sottolinea Folisi – scopriamo, leggendo l’articolo 15 dello Statuto della Regione Fvg, che: «L’ufficio di consigliere regionale è incompatibile con quello di membro di una delle Camere, di un altro Consiglio regionale, di un Consiglio provinciale, o di sindaco di un Comune con popolazione superiore a 10 mila abitanti, ovvero di membro del Parlamento europeo». La norma è chiara e incontrovertibile: parla di assoluta incompatibilità tra le due cariche che, invece, la riforma Boschi–Renzi–Napolitano vede strettamente legate.
 

Il senso con cui la norma regionale è stata scritta risiede proprio in quella complessità dei compiti affidati sia a un consigliere regionale, sia a un senatore, sia anche alle altre cariche citate nell’articolo 15, che non può permettere di lavorare bene contemporaneamente in due incarichi evidentemente e giustamente ritenuti di grande delicatezza. Oggi, invece, la riforma sembra considerarli due sinecura che possono tranquillamente convivere anche a centinaia di chilometri e ad abissi di distanza di argomenti l’uno dall’altro.

Ebbene, se passasse la riforma, il busillis iniziale sarebbe davvero divertente, se non portasse allo sconforto nel pensare ai nostri cosiddetti nuovi costituenti. Pensateci: un consigliere regionale designato a diventare senatore non potrebbe presentare le dimissioni da consigliere regionale – e queste non potrebbero essere accettate – pena l’automatica decadenza dalla nomina a senatore perché non sarebbe più senatore. Un cane che si morde la coda; un circolo vizioso irrisolvibile dal quale si potrebbe uscire elegantemente soltanto modificando lo Statuto regionale, cosa lunga e difficilissima perché, per cambiarlo, occorrerebbero le medesime trafile usate per la Costituzione e per le leggi costituzionali.

Più semplicemente, sarebbe bastato inserire nelle norme transitorie un comma nel quale si fosse specificato che, in caso di conflitto con gli statuti speciali, le regole costituzionali avrebbero avuto la prevalenza fino alla variazione degli statuti stessi tenendo conto che avrebbero dovuto essere armonizzati con la nuova Carta fondamentale.

Ma questo non è stato fatto e adesso, sempre ammesso che la riforma passi, ci si troverà davanti a una diatriba da azzeccagarbugli tra coloro che dicono che nulla è scritto e quelli che, invece, sostengono che bisogna interpretare le norme nel modo che a loro sembra più opportuno. Non sono un costituzionalista, ma ho la netta sensazione che anche questo discorso, che non riguarda soltanto il Friuli Venezia Giulia, ma anche la Sicilia, che di senatori che ne ha molti di più, e la Sardegna finirà davanti a quella Corte costituzionale che Renzi, Boschi e sodali assicuravano sarebbe rimasta quasi disoccupata.

Senza contare che la Consulta sicuramente dovrà anche confrontarsi con ricorsi presentati sulla maniera di scegliere i senatori, laddove sarà possibile farlo, soprattutto nelle regioni che manderanno a Roma soltanto un senatore–consigliere regionale. Perché i dettami vincolanti per l’elezione di secondo grado sono espressi in tre punti diversi e richiedono contemporaneamente il rispetto della proporzionalità, la parità di genere, il rispetto dell’indicazione degli elettori di primo grado. Come mettere insieme questi tre requisiti è un altro indovinello di difficilissima risoluzione.

Al di là degli inevitabili e amari sogghigni, resta il fatto che vorrebbero che abbandonassimo una Costituzione che necessità di alcuni ritocchi, ma non tanti, e che è chiara e trasparente, per abbracciarne una nuova, stravolgente il nostro concetto di democrazia, scritta davvero con i piedi da coloro che ambirebbero a passare per nuovi padri costituzionali e che è già in partenza un terreno minato che darebbe un dilagante surplus di lavoro alla Corte Costituzionale.

Semplificazione? Ma quale?

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