lunedì 3 ottobre 2016

Il capocomico e la spalla

Uno degli espedienti recitativi più usati nel teatro italiano è stata l’interazione, studiata e attenta, tra capocomico e spalla, che si è rivelata quasi sempre la chiave di volta capace di reggere un intero spettacolo comico e di portarlo al successo. E questa suddivisione di ruoli ha portato a tali soddisfazioni che il meccanismo è stato adottato anche dove non c’era il teatro e neppure alcuna traccia di comicità. In politica, per esempio. E i casi non sono mancati.

Oggi, con tutto il rispetto dovuto sia alle cariche istituzionali, sia alla tradizione teatrale, e lasciando libero ciascuno di attribuire come preferisce i due ruoli ai due attori, la cosa sta avvenendo di nuovo nella lunghissima rappresentazione di quella che il Tassoni probabilmente avrebbe chiamato “La Costituzione rapita”.

Pensateci: il piano per cambiare la Carta fondamentale della nostra Repubblica stava andando benissimo fino a quando la gente non ha cominciato a dare retta a coloro che già da tempo denunciavano il pericolo di una deriva autoritaria nel “combinato disposto” tra una legge elettorale che crea una larghissima maggioranza assoluta che non rappresenta la realtà dei voti espressi dai cittadini, e una riforma costituzionale che non solo non riforma, ma stravolge, la nostra democrazia, e che, in più, è anche mal scritta, confusa e contraddittoria.

Cosa fare, allora? Semplice: i due padri della riforma (la madre è stata caldamente consigliata di non esprimersi, visti i disastri che ha combinato ogni volta che ha aperto bocca), un presidente della Repubblica emerito e un presidente del Consiglio pro tempore, si impegnano a recitare un copione che prevede uno scambio di battute che li aiuti reciprocamente ad arrivare al loro scopo stando ben attenti a cambiare rotta senza dare mai ragione agli avversari. Il sistema è semplice: basta che il secondo ammetta di aver sbagliato inizialmente perché si è lasciato trasportare dall’irrefrenabile desiderio di aiutare l’Italia, e non se stesso, e che il primo, onusto di gloria, esperienza e autorevolezza, continui a ripetere che l’idea era e continua a essere giustissima, ma che, visto che gli altri tentano di demolirla grazie a quel piccolissimo errore iniziale di voler tramutare un referendum in un plebiscito, questa idea deve essere – almeno per il momento – parzialmente cambiata.

E così – secondo il copione – tutto dovrebbe finire in gloria, magari contando sul fatto che il pubblico plaudente è troppo distratto per ricordare che chi oggi ammette che qualche difettuccio nell’Italicum c’è, pochi mesi fa diceva ad alta voce che quella era la legge elettorale più bella dell’Occidente e che tutti si sarebbero affrettati a copiarla; magari non facendo caso al fatto che ancora adesso Renzi continua a ripetere che comunque la sera del voto si dovrà sapere chi ha vinto e potrà governare, senza fastidiose opposizioni, per cinque anni (e mi astengo dall’usare l’avverbio “almeno”).

Ma il fatto è che l’Italicum è soltanto uno dei problemi di questo dramma burlesco, non il problema: se anche l’Italicum dovesse saltare ed essere sostituito da una legge elettorale che non regali più la maggioranza assoluta a un solo partito, sarebbe disinnescata soltanto la terribile mina distruttiva del combinato disposto, ma non svanirebbe il pericolo principale e comunque mortifero di una Costituzione che è malfatta e pasticciata, ma che soprattutto vuole spostare l’asse dei poteri, togliendone al legislativo e attribuendone altri all’esecutivo, pur senza mai toccare gli articoli che si riferiscono al presidente del Consiglio.

Anzi, il fallimento evidente del progetto dell’Italicum adesso può addirittura diventare un arma a favore di coloro che sono sul palcoscenico, in quanto l’ammissione dell’errore può essere usata come efficace arma di attacco agli oppositori interni. La minoranza del PD, infatti, ha voluto legare troppo il proprio destino a quello dell’Italicum pensando, furbescamente, di poter così avere una scusa valida per tornare sui propri passi e per poter negare il proprio voto al referendum dopo averlo dato sciaguratamente, invece, in Parlamento anteponendo piccoli calcoli interni di bottega al destino democratico di un’intera nazione.

Avessero fatto l’inverso, probabilmente il loro partito non sarebbe più così totalmente estraneo a loro stessi e a milioni di elettori che non lo votano più e, soprattutto, non saremmo costretti a lottare perché il 4 dicembre non diventi un’altra data tragica nel calendario della Repubblica.

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