sabato 29 ottobre 2016

La politica e il potere

Ieri, dopo la serata passata a Cividale con Angelo Floramo per “Ahi, serva Italia”, al rientro a casa, ho trovato mia moglie che guardava, su La7, il dibattito referendario tra Matteo Renzi e Ciriaco De Mita e il tono di voce dei due mi ha calamitato, tanto che, pur non nutrendo soverchia simpatia per nessuno dei due, ho continuato a seguirli. E adesso, se è recuperabile da qualche parte, ve ne consiglio la visione. Non perché l’aspro dibattito abbia chiarito qualche punto agli indecisi, ma in quanto ha fatto comprendere in maniera palmare le vere ragioni sul perché l’uno l’abbia voluta così e sul perché l’altro è decisissimo a votare no.
 

E il perché è semplice. Mentre il secondo, infatti, vive di politica e sente il potere come un corollario a questa sua maniacale passione. Il primo, invece, la vede in maniera opposta: vive di potere, ed è la politica per lui a essere un corollario; in pratica soltanto il fastidioso mezzo per avere il potere in mano.

La differenza la si vede nel come i due vedono il fatto che oggi, dopo un lunghissimo e ricchissimo cursus honorum, De Mita sia, a 88 anni, ancora nella mischia, visto che è sindaco di Nusco. Renzi parla di ineliminabile attaccamento alle poltrone; De Mita ribatte che è la sua testa a essere strutturata a vivere di politica e che certamente Nusco, per uno che è stato presidente del Consiglio, più volte ministro e presidente della DC, non è un posto dove un assetato di potere possa sentirsi appagato in questa sua smania. E tra le due tesi la più plausibile mi sembra la seconda.

Ma in questo dibattito – a differenza di quello sostenuto con Zagrebelsky – a far capire molte cose non sono state le argomentazione, bensì le smorfie facciali e le cose urlate. La faccia è sempre molto rivelatrice ed era molto interessante vedere quella di Renzi appena De Mita attaccava con un tono tutt’altro che educato e dimesso. Poi riusciva a somministrare alla telecamera il solito repertorio di sorrisetti e corrugamenti lungamente studiato, ma all’inizio, preso di sorpresa da tale mancanza di rispetto da parte di un quasi novantenne che rifiuta di sentirsi rottamato, la bocca e gli occhi non sono mai riusciti a celare lo sbigottimento da parte di chi è abituato a sentirsi dire praticamente sempre di sì e improvvisamente si vede messo in discussione davanti a un vasto pubblico. Sembrava volesse dire: ma questo sa davvero chi sono io? Ma come si permette? Renzi, insomma non è abituato a simili irrispettose contestazioni, non si trova bene quando il sì per lui non suona. E non comprende l’uso del no; ovviamente solo se il no è indirizzato a lui.

In un contesto totalmente privo di cortesie istituzionali e, almeno in questo, molto più equilibrato di quello con Zagrebelsky in cui era soltanto il professore a tener conto del valore dell’educazione, sono volate battute al veleno: «Ci avete rubato il presente – ha detto Renzi – adesso speriamo che non succeda lo stesso con il futuro». E anche: «Non credo che tu la abbia letta tutta questa riforma». E De Mita non è stato da meno: «Questa è una volgarità che non mi aspettavo e soprattutto detta da chi in politica le ha inventate tutte. Hai fatto un partito dove parli da solo e le tue relazioni in direzione andrebbero pubblicate per capire a cosa si è ridotta la politica. È un mestiere che vuoi gestire in maniera autoritaria». E ancora: «Io non ho rabbia per te, ho pietà, non sarò mai di quelli che cambiano partito. Sono nato e muoio democristiano. Tu non so».

Ma va rilevato anche che, De Mita, pur con tono spocchioso e insolente, ha voluto anche esprimere alcuni ragionamenti soprattutto sulla necessità di fare tesoro della storia , quindi di coltivare la memoria, nonché sul fatto che nella politica la collegialità del ragionamento è sempre un pregio, mentre la velocità eccessiva e a prescindere nel prendere le decisioni è quasi sempre un difetto.

Renzi, invece, si è limitato a fare tre cose. Ha ripetuto ossessivamente che i cittadini dovranno soltanto rispondere alle domande – legittime, ma sicuramente furbesche – del quesito referendario come se in quelle si esaurissero tutte le modifiche di forma, ma soprattutto di sostanza, che lui spera vengano apportate alla Costituzione. Ha continuato a dire che non è scritto da nessuna parte che aumenteranno i poteri del presidente del Consiglio – anche se lui, lasciandosi un po’ andare, spesso lo chiama già adesso premier – come se fosse necessario scriverlo nel momento che tutto è previsto per dargli una maggioranza assoluta, larghissima, omogenea e quindi stabile e, soprattutto, obbediente. Ha fatto capire che si era preparato allo scontro non sui temi della riforma – non sul merito, come piace dire a lui – forse perché pensava di essere inattaccabile, ma soprattutto facendosi preparare un minuzioso dossier su date, avvenimenti e tutte le cose che potevano mettere in cattiva luce l’avversario.

Non ho mai avuto alcuna simpatia per De Mita, ma devo faticosamente ammettere che il confronto tra i due me l’ha fatto quasi rimpiangere. Non per il tipo di governi che presiedeva, ma perché oltre che comandare, anche pensava; e soprattutto percepiva gli umori della nazione e ne teneva conto. Sicuramente perché intendeva mantenersi dov’era, ma anche perché erano ancora vigenti quelle leggi elettorali proporzionali che probabilmente sono l’unica chiave per capire davvero come mai in un Paese come l’Italia si sia potuto, con governi a guida democristiana e con la presenza ovviamente non silenziosa del Vaticano, far passare leggi come quelle sul divorzio e sull’aborto; o anche lo Statuto dei lavoratori che oggi un governo che Renzi dice di centrosinistra quello stesso Statuto ha praticamente demolito, e lo provano i numeri di coloro che sono realmente occupati – e non a un’ora la settimana – e l’aumento straripante dei licenziamenti senza giusta causa e comunque senza motivazione.

Poi è vero: Renzi non immagina di vedersi a fare politica fino a 88 anni, forse neanche fino a 55. La politica è fastidiosa e, se esercitata in democrazia, è anche molto faticosa. Probabilmente lui, invece, sogna di godersi tra una decina di anni i libri di storia in cui agogna non si parli più della Costituzione del 1948 che ha avuto tanti padri che soltanto di pochi ci si ricorda più il nome, ma della Costituzione del 2016 di Renzi; e di lui soltanto. Dio non voglia che questo succeda.

Alla fine della trasmissione c’era un’altra cosa che mi sono accorto di dover mettere nel conto della mia avversione nei confronti di Renzi. Ieri è riuscito quasi a farmi rimpiangere De Mita. Non vorrei che, continuando così, riuscisse a farmi rimpiangere anche Nicolazzi; o giù di lì.


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sabato 22 ottobre 2016

Entrando nei meriti

A ben vedere, il sentimento dominante in questa lunghissima e sfibrante campagna referendaria sembra essere quello della paura. Per molti una paura indotta dalle più o meno velate minacce internazionali. Per alcuni schierati con il Sì, la paura di vedere cosa potrebbe arrivare dopo Renzi. Per una certa fetta di parlamentari e iscritti al PD, la paura di parlare e di agire con decisione all’interno del proprio partito per fargli riacquistare quei valori la cui assoluta mancanza non può più essere nascosta soltanto dal fatto di non aver cambiato il nome. E tanti di coloro che sono schierati per il No sembrano aver paura di dire di aver paura che la riforma costituzionale, se approvata, metterebbe in pericolo la nostra stessa democrazia, anche al di là dell’eventuale combinato disposto con la legge elettorale; perché si rendono conto che la nuova Costituzione ha in sé un alto grado di pericolosità, a prescindere dal mantenimento, o meno, dell’Italicum.

Sul merito della riforma Boschi–Renzi–Napolitano siamo già intervenuti più volte e continueremo a farlo fino al 4 dicembre, ma mi sembra doveroso mettere in luce che il sostantivo “merito” non riguarda soltanto le parole che appaiono nei tantissimi articoli riformati e gli effetti che avranno sulla nostra vita democratica e, quindi, civile. “Merito” è anche il modo in cui a questa riforma e alla sua approvazione parlamentare si è arrivati.
In primis, la proposta di nuova Costituzione sposta il baricentro dell’equilibrio tra poteri dandone di più all’esecutivo e di meno al legislativo, non può non richiamare alla mente la teoria della separazione dei poteri fissata da Montesquieu nello “Spirito delle leggi”, quando ha elaborato e fissato il principio che ogni funzione pubblica deve essere attribuita a un potere distinto (il legislativo che elabora le leggi; l’esecutivo che fa progredire lo Stato applicando le leggi; il giudiziario che, secondo le leggi, dirime le controversie), per evitare che concentrazione di attribuzioni possano spianare la strada a forme di autoritarismo. Una separazione di estrema importanza tanto che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino nell’articolo 169, recita: «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha Costituzione».

E allora la prima tra le tante anomalie di questa riforma consiste nel fatto che è stato uno dei poteri, quello esecutivo, a proporre la riforma di un altro, quello legislativo.

Si potrebbe dire che nessuno griderebbe allo scandalo se fosse stato il Parlamento a proporre una riforma che andasse a incidere sul ventaglio dei poteri del governo; ed è vero. Ma non va dimenticato che è proprio dell’organo legislativo il compito di cambiare le leggi, Costituzione compresa; tanto che Piero Calamandrei disse che durante le discussioni sulla Costituzione e sulle leggi costituzionali, i banchi del governo avrebbero dovuto restare vuoti e che De Gasperi, durante l’intero periodo costituente non prese mai la parola da presidente del Consiglio su temi costituzionali.

E non va dimenticato neppure che, secondo la nostra Costituzione, è il Parlamento e non il governo a essere espressione della volontà popolare, tanto è vero che è il Parlamento – espressione delle democrazia rappresentativa – a decretare la caduta dei governi e che può capitare – come adesso – che il presidente del Consiglio non sia mai stato eletto dai cittadini né alla Camera, né al Senato. Il fatto, insomma, è che la Costituzione dovrebbe venire sempre prima di qualsiasi governo e di qualsiasi presidente del Consiglio.

E di “merito” si parla anche quando si va a esaminare come questa riforma sia stata approvata: non solo per la legittimità di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale, ma perché la fretta con cui è stata portata avanti la riforma è stata inqualificabile, tanto che la commissione Affari costituzionali del Senato non è riuscita neppure a concludere i suoi lavori e i membri della commissione hanno avuto i tempi di intervento contingentati fino al ridicolo: 10” su ogni emendamento. O, più esattamente, democraticamente parlando, al drammatico.

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giovedì 13 ottobre 2016

Il concetto di coerenza














Molto probabilmente penserete che l’immagine che accompagna queste riflessioni sia un espediente propagandistico elaborato da me, o da altri sostenitori del No, per sostenere la tesi che la riforma Boschi – Renzi – Napolitano (mettete pure i nomi nell’ordine che preferite) è molto simile a quella voluta da Berlusconi (e bocciata da un referendum costituzionale) nel 2006.
 
Ebbene, vi sbagliate. Come si può evincere dal richiamo in testa all’immagine, questa elaborazione grafica compare nel sito di bastaunsì, cioè nel sito ufficiale dei renziani che, obbedienti al capo, vanno a cercare voti a destra, spiegando che tra i desideri di Berlusconi e quelli di Renzi c’è ben poca differenza.

Verrebbe da dire: era ora che lo ammetteste! Ma, invece, per loro è un vanto.

Resta il dubbio del risultato che questa forma di propaganda potrà avere sui cittadini. Detto in soldoni: quanti elettori di destra si convinceranno che, votando sì, voteranno per i propri ideali? E quanti elettori di sinistra e centrosinistra finalmente si renderanno conto che il PD delle sue impronte di fondazione ha mantenuto soltanto il nome, ma non l’anima? E lo abbandoneranno definitivamente.

Un’ultima annotazione: Renzi e i suoi accusano di incoerenza i parlamentari della sinistra PD perché, dopo aver votato sì alla riforma costituzionale nelle aule del Parlamento, ora minacciano di votare no al referendum. Ma quale coerenza può essere trovata nei tanti sodali di Renzi e anche in lui (visto che pur non essendo mai stato parlamentare, si presume che nel 2006 abbia votato no) stante il fatto che ora ripresentano gran parte delle mascalzonate ideate da Berlusconi e dai suoi “saggi”?

Il problema della spaccatura verticale del Paese appare sempre meno risolvibile perché, come benissimo ha detto Crozza, «Il Paese è diviso in due, tra quelli che voteranno sì e quelli che hanno capito la riforma».

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martedì 11 ottobre 2016

Cambiare tutto per non cambiare nulla

Bisogna cambiare tutto per non cambiare nulla. È questo il senso della famosa frase pronunciata da Tancredi, il nipote del principe di Salina, ne “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ed è esattamente il senso di quello che spera di poter fare Matteo Renzi, nei riguardi della nuova legge elettorale, l’Italicum, almeno fino a quando la Corte Costituzionale non deciderà di decidere sulle eccezioni di incostituzionalità sollevate e presentate da molti tribunali.

L’attenzione dei più, infatti, si appunta sulle scadenze temporali fissate da Renzi nel suo discorso alla riunione della direzione PD. Cambiare si può – ha detto, in sintesi – ma soltanto dopo il voto referendario del 4 dicembre. Per intanto si può cominciare a discuterne in un’apposita commessione. E in molti hanno ribattuto – tanto che la minoranza PD ha finalmente deciso di pronunciarsi per il No – che si tratta soltanto di melina, di un surrettizio procrastinare la data del cambiamento per poterla spostare all’infinito, o, anzi, cancellarla, in caso di vittoria del Sì.

Ma la cosa più importante non mi sembra mettere in discussione la validità della parola data da Renzi, anche perché su questo argomento tutti hanno già avuto solidi elementi per decidere il proprio personale giudizio. Il nucleo su cui ragionare è, invece un altro.

Oltre che del metodo di elezione dei senatori, Renzi, infatti, afferma che sull’Italicum si potrà discutere di ballottaggio, collegi uninominali, preferenze, premio di maggioranza alla lista o alla coalizione. Sembra che davvero cambi tutto. Ma poi – ribadita in contemporanea dal fedelissimo Nardella e da altri - arriva la frase che fa capire che nulla, comunque, cambierà: «Deve comunque essere una legge elettorale che faccia sapere subito chi ha vinto e chi ha perso».

A prescindere dal linguaggio usato (“vincere” si attaglia più a una competizione sportiva che a un confronto politico, almeno se si continua ancora a ritenere che la politica, anche con qualche compromesso, debba venire incontro alle necessità non della maggioranza politica del momento, ma della maggior parte dei cittadini), resta del tutto intatto il concetto base che informa l’intera filosofia, oltre che della riforma costituzionale, anche dell’Italicum, così com’è espressa nell’articolo 2 della legge: «I partiti, o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare…». Ma in un sistema parlamentare ci si dovrebbe candidare a rappresentare in Parlamento i propri elettori e non a governare.

E non va dimenticato neppure che, per arrivare al risultato di questa legge che, secondo Renzi, la Boschi e i loro, era «la più bella legge elettorale dell’Occidente» che «molti ci copieranno», il presidente del Consiglio e segretario del PD non ha esitato a ricorrere a mezzi mai, o quasi mai, usati in precedenza nella storia italiana. Il sistema di porre la fiducia su una legge elettorale, infatti, prima che per l’Italicum, era stato usato soltanto in due casi: il 18 novembre 1923 per la legge Acerbo che fu voluta da Benito Mussolini per assicurare al Partito Nazionale Fascista una solida maggioranza parlamentare nelle elezioni del 1924, e il 21 gennaio 1953 per la cosiddetta “legge truffa” che voleva dare un premio di maggioranza a chi avrebbe già conquistato una maggioranza assoluta. Molto meno “truffa” dell’attuale, quindi.

Poi vorrei ricordare dieci nomi di cui forse vi sarete dimenticati, ma che nella memoria di Renzi dovrebbero essere ben presenti: Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, Andrea Giorgis, Enzo Lattuca, Alfredo D'Attorre, Barbara Pollastrini, Marilena Fabbri, Roberta Agostini e Marco Meloni. Sono i deputati del PD che il 20 aprile 2015 Renzi ha deciso di sostituire d’autorità nella Commissione Affari costituzionali perché non erano pienamente appiattiti sui suoi orientamenti proprio nella discussione della nuova legge elettorale.

Alla luce di questi ricordi sul comportamento di Renzi, è dal governatore della Toscana, Enrico Rossi, che arriva una specie di epitaffio per il PD: «Renzi ha fatto un'apertura; lui è il segretario e se in un partito non ci si fida del segretario, allora quel partito è morto». Combiniamola con le parole rivolte da Cuperlo a Renzi – «Se perdi avrai paralizzato il Paese per nulla, se vinci camminerai sulla macerie» – e si vede che forse questa volta qualcosa comunque cambierà perché il PD che conosciamo come capofila del centrosinistra non ci sarà più. Forse Renzi ha sbagliato qualche calcolo (magari pensando soltanto alla gerarchia del partito e non anche agli elettori) perché questa volta comunque qualcosa cambierà.

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giovedì 6 ottobre 2016

I principi fondamentali

Di cose bizzarre, in questa campagna referendaria, se ne vedono davvero tante; soprattutto da parte del governo che opera per accaparrarsi più Sì possibili facendo vedere quanto è bravo in tutti i campi. E così si possono ammirare le quattordicesime ai pensionati, ma non a quelli più poveri, al di sotto dei 750 euro mensili di pensione. Oppure la decisione di far pagare alle banche il fallimento di Banca Etruria e delle altre tre, salvo poi concedere alle banche stesse di rivalersi immediatamente sui correntisti aumentando fortemente i costi di tenuta dei conti e applicando una specie di tassa di secondo livello che i più maligni hanno già definito “Boschi tax”. O, ancora, il governo che fornisce cifre molto ottimistiche nel Def (il Documento economico e finanziario) per influenzare in meglio le previsioni sul Pil e, quindi, le decisioni nella legge di stabilità; la Banca d’Italia, la Corte dei conti e l’Ufficio parlamentare di bilancio che, più che contestare le cifre, le definiscono di fantasia; e Renzi che, piccato da tanta inusitata mancanza di rispetto nei confronti del capo, risponde sbuffando: «Vedremo chi avrà ragione», come non si stesse parlando del destino economico di una nazione, ma di una semplice scommessa tra più o meno amici.

La palma della bizzarria tocca, però, a una persona che nel governo non c’è: a Roberto Benigni e non perché ha detto che «se vince il No sarà peggio della Brexit», copiando la prima versione di alcuni giornali economici anglosassoni che intanto hanno cambiato idea (il Financial Time l’altro giorno ha scritto che le riforme costituzionali renziane sono «un ponte verso il nulla»), ma in quanto ha anche affermato che «i primi 12 articoli della Costituzione, i Principi fondamentali, i diritti e doveri sono straordinariamente belli e intoccabili».

Belli lo sono davvero, ma intoccabili proprio no. E Benigni è persona troppo attenta e intelligente per non sapere che non sono assolutamente sacri perché, se è ben vero che nessuno si è mai sognato di andare a modificare la forma dei primi 12 articoli andando a ritoccarne il testo, nella sostanza, invece, già di alcuni si è svuotato parte del contenuto e ora ci si appresta a proseguire nell’opera di vanificazione.

Non ci credete? Provate a pensare a cos’è successo nell’aprile 2012, quando è stata approvata a larghissima maggioranza la riforma dell’articolo 81, che ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione. Ma davvero, cambiando l’ordine di priorità e di importanza nella gestione del denaro pubblico, questa nuova stesura non è andata a cambiare la sostanza dell’articolo 2 dove recita «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» e quella dell’articolo 3, almeno nel passo in cui dice che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»? Provate a chiedere se per loro non è cambiato niente a quegli undici milioni di italiani – dato Censis – che hanno rinunciato alla prevenzione sanitaria, o addirittura a curarsi, perché non hanno i soldi sufficienti per farlo visto che i risparmi sulla sanità per raggiungere il pareggio di bilancio sono diventati più importanti della loro salute.

Oppure, per venire all’oggi, fate la fatica di leggervi i lunghissimi articoli 117 e 120 che ritrasferiscono una quantità infinita di potestà legislative dalle Regioni allo Stato e pensate a cosa rimarrebbe, nella sostanza, dell’articolo 5 che recita: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento».

E lasciamo pur perdere gli articoli 1 e 4 dove si parla di lavoro, il 9 che dovrebbe tutelare lo sviluppo della cultura e della ricerca e difendere il paesaggio e il patrimonio storico e artistico, l’1 che ripudia la guerra. Qui la riforma costituzionale non c’entra perché sono stati tutti già svuotati, o con leggi ordinarie, o con cecità volute.

Quindi – e mi spiace dirlo – oggi suona vuoto anche quel mantra con cui Benigni più volte ha toccato il nostro animo: «La nostra Carta è la più bella del mondo. È stato un miracolo. I nostri costituenti ci hanno fatto volare e hanno illuminato le macerie. E così l'Italia si è rialzata». La nostra sarebbe davvero la Carta più bella del mondo se, invece di tentare di cambiarla – nel nome di una “governabilità” che punta a poter fare più in fretta e con meno controlli, ma non a migliorare la quantità delle leggi – la si fosse seguita e applicata fino in fondo.

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lunedì 3 ottobre 2016

Il capocomico e la spalla

Uno degli espedienti recitativi più usati nel teatro italiano è stata l’interazione, studiata e attenta, tra capocomico e spalla, che si è rivelata quasi sempre la chiave di volta capace di reggere un intero spettacolo comico e di portarlo al successo. E questa suddivisione di ruoli ha portato a tali soddisfazioni che il meccanismo è stato adottato anche dove non c’era il teatro e neppure alcuna traccia di comicità. In politica, per esempio. E i casi non sono mancati.

Oggi, con tutto il rispetto dovuto sia alle cariche istituzionali, sia alla tradizione teatrale, e lasciando libero ciascuno di attribuire come preferisce i due ruoli ai due attori, la cosa sta avvenendo di nuovo nella lunghissima rappresentazione di quella che il Tassoni probabilmente avrebbe chiamato “La Costituzione rapita”.

Pensateci: il piano per cambiare la Carta fondamentale della nostra Repubblica stava andando benissimo fino a quando la gente non ha cominciato a dare retta a coloro che già da tempo denunciavano il pericolo di una deriva autoritaria nel “combinato disposto” tra una legge elettorale che crea una larghissima maggioranza assoluta che non rappresenta la realtà dei voti espressi dai cittadini, e una riforma costituzionale che non solo non riforma, ma stravolge, la nostra democrazia, e che, in più, è anche mal scritta, confusa e contraddittoria.

Cosa fare, allora? Semplice: i due padri della riforma (la madre è stata caldamente consigliata di non esprimersi, visti i disastri che ha combinato ogni volta che ha aperto bocca), un presidente della Repubblica emerito e un presidente del Consiglio pro tempore, si impegnano a recitare un copione che prevede uno scambio di battute che li aiuti reciprocamente ad arrivare al loro scopo stando ben attenti a cambiare rotta senza dare mai ragione agli avversari. Il sistema è semplice: basta che il secondo ammetta di aver sbagliato inizialmente perché si è lasciato trasportare dall’irrefrenabile desiderio di aiutare l’Italia, e non se stesso, e che il primo, onusto di gloria, esperienza e autorevolezza, continui a ripetere che l’idea era e continua a essere giustissima, ma che, visto che gli altri tentano di demolirla grazie a quel piccolissimo errore iniziale di voler tramutare un referendum in un plebiscito, questa idea deve essere – almeno per il momento – parzialmente cambiata.

E così – secondo il copione – tutto dovrebbe finire in gloria, magari contando sul fatto che il pubblico plaudente è troppo distratto per ricordare che chi oggi ammette che qualche difettuccio nell’Italicum c’è, pochi mesi fa diceva ad alta voce che quella era la legge elettorale più bella dell’Occidente e che tutti si sarebbero affrettati a copiarla; magari non facendo caso al fatto che ancora adesso Renzi continua a ripetere che comunque la sera del voto si dovrà sapere chi ha vinto e potrà governare, senza fastidiose opposizioni, per cinque anni (e mi astengo dall’usare l’avverbio “almeno”).

Ma il fatto è che l’Italicum è soltanto uno dei problemi di questo dramma burlesco, non il problema: se anche l’Italicum dovesse saltare ed essere sostituito da una legge elettorale che non regali più la maggioranza assoluta a un solo partito, sarebbe disinnescata soltanto la terribile mina distruttiva del combinato disposto, ma non svanirebbe il pericolo principale e comunque mortifero di una Costituzione che è malfatta e pasticciata, ma che soprattutto vuole spostare l’asse dei poteri, togliendone al legislativo e attribuendone altri all’esecutivo, pur senza mai toccare gli articoli che si riferiscono al presidente del Consiglio.

Anzi, il fallimento evidente del progetto dell’Italicum adesso può addirittura diventare un arma a favore di coloro che sono sul palcoscenico, in quanto l’ammissione dell’errore può essere usata come efficace arma di attacco agli oppositori interni. La minoranza del PD, infatti, ha voluto legare troppo il proprio destino a quello dell’Italicum pensando, furbescamente, di poter così avere una scusa valida per tornare sui propri passi e per poter negare il proprio voto al referendum dopo averlo dato sciaguratamente, invece, in Parlamento anteponendo piccoli calcoli interni di bottega al destino democratico di un’intera nazione.

Avessero fatto l’inverso, probabilmente il loro partito non sarebbe più così totalmente estraneo a loro stessi e a milioni di elettori che non lo votano più e, soprattutto, non saremmo costretti a lottare perché il 4 dicembre non diventi un’altra data tragica nel calendario della Repubblica.

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sabato 1 ottobre 2016

La contradizion che nol consente

Credo sia stato davvero molto utile il dibattito tra il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e il fondatore del Comitato per il No, Gustavo Zagrebelsky, condotto su LA7 da “miperdonipresidente”, appunto, Mentana che alla fine si è assunto ipocritamente perché tardivamente tutte le responsabilità per le disparità di trattamento e di tempo usate nei confronti dei due antagonisti. Molto utile per una lunga serie di motivi su alcuni dei quali mi sembra doveroso soffermarmi subito.
Il primo riguarda il fatto che tra i due – e quindi tra i sostenitori del No e quelli del Sì – ancor prima dello scontro istituzionale e politico, divampa, sotterraneo ma non troppo, un vero scontro antropologico. Da una parte un signore anziano pacato che tenta di spiegare le cose ed esporre ragionamenti; dall’altra un giovane politico che non ascolta neppure l’avversario, se non per segnare i punti sui quali ritiene più facile rispondere e per ignorare gli altri. Da una parte una persona ossequiente alla propria educazione, che frigge davanti al comportamento altrui, ma si sente in dovere di stare zitto, in attesa del proprio turno; dall’altra un personaggio che non lascia quasi mai finire un ragionamento, o una domanda, e interrompe ad alta voce, quasi sempre con espressioni che nulla c’entrano con quello che l’antagonista sta dicendo. Da una parte uno studioso che conosce bene, per averle sempre praticate, le regole del dialogo, o del dibattito, comunque del confronto tra opinioni diverse, e che ritiene doveroso adeguarvisi in ogni caso; dall’altra un politico di grande potere che è abituato ai soliloqui e ai cenni di deferenza e che, quindi, non conosce, o forse non accetta, le regole che sono alla base delle più elementari democrazie e che, anzi, ritiene praticamente offensivo che qualcuno non sia d’accordo con lui.

Il secondo attiene alla differenza tra apparenza e sostanza e al fatto che molti sono convinti che la prima sia decisamente più funzionale della seconda a raccattare voti tra i distratti. Altrimenti non si spiegherebbe la compostezza del professore (che al massimo si è limitato a chiudere gli occhi) di fronte allo studiato e ricchissimo repertorio di smorfie, strabuzzamenti di occhi, increspature di labbra, gesti di impazienza studiati attentamente ed effettuati con tutta la parte del corpo inquadrata dalle telecamere. Due sole eccezioni all'autocontrollo. Per Zagrebelski lo scatto «Non mi continui a dire “Con tutto il rispetto"…», sottintendendo “quando il rispetto non c’è”. Per Renzi un’occhiata di pura cattiveria e veleno in una delle volte in cui il costituzionalista è andato a toccare punti di difficile risposta per il politico mentre Renzi era convinto di non essere inquadrato dalla telecamera.

Il terzo concerne lo spirito con cui i due si sono approcciati al dibattito. Zagrebelsky con un suo libro con il testo costituzionale e convinto di dover parlare soltanto di Costituzione. Renzi, evidentemente preoccupato dello scontro, con un pur smilzo dossier preparatogli dal suo staff per tentare di mettere in cattiva luce Zagrebelski e con la decisione continua di spostare l’attenzione dalla Costituzione ad altri aspetti della politica.

Come ultimo punto, ma forse più importante, è apparso chiaro come Renzi e i suoi abbiano intenzione di tentare di approfittare delle domande del quesito referendario che evidentemente – bisogna dare loro atto di grande premeditazione – avevano ben presenti fin da tanti mesi fa. Vi ripropongo il testo completo: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?».

Ebbene, per Renzi le risposte a tutte le cinque articolazioni dell’unico quesito devono essere risolte con un sì perché un no, giusto per dare un solo esempio, vorrebbe dire – secondo lui, o meglio secondo la sua propaganda perché la sua mente non può essere così rozza, anche se ritiene rozza quella degli altri – che si è semplicemente contrari alla riduzione dei parlamentari. E Zagrebelsky, con la palla al piede della sua educazione, non riusciva, tra gli ululati del presidente del Consiglio pro tempore, a far sentire che la riduzione dei parlamentari si può ottenere in tanti altri modi diversi e anche più efficaci, sia per la funzionalità democratica, sia per raggiungere e superare quei risparmi economici che Renzi continua a sbandierare come fossero la cosa più importante anche mentre la democrazia stessa viene messa in pericolo.

E a questo proposito, merita rilevare che davanti al «rischio di una svolta oligarchica» sollevata da Zagrebelsky pensando al combinato disposto tra riforma costituzionale e legge elettorale, Renzi ha fatto la faccia risentita e ha ribattuto dicendo che questa è «un’offesa agli italiani». Allora, visto che il presidente del Consiglio è stato il primo sostenitore di quell’Italicum che può mettere in pericolo la democrazia italiana e che ora afferma che dovrà cambiarlo, ma con una legge che mantenga il concetto che «la sera del voto bisognerà sapere chi ha vinto» e che continuerà a fare quello che vuole per cinque anni, l’incoerenza appare davvero chiara. E viene naturale scomodare Dante che nel XXVII Canto dell’Inferno, quello di Guido da Montefeltro, scrive: «Ch’assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente».

Renzi è la stessa persona che continua a cercar di convincere quelli che ha già perso e quelli che sta perdendo continuando a dire «Io sono di sinistra» e subito dopo aggiungendo «Bisogna fare le cose in modo da ottenere i voti a destra». Votare a favore delle tesi di una contraddizione vivente davvero non credo possa essere accettabile.


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