giovedì 22 settembre 2016

L’automobile usata

«Comprereste un'automobile usata da questo signore?». Così si diceva una volta riferendosi a Silvio Berlusconi, l'indiscusso maestro dei “tirapacchi”. Ma l'inevitabile destino dei maestri è quello di essere superati dai discepoli e ora, infatti, è l'astro di Matteo Renzi a splendere incontrastato nel firmamento dei confezionatori di bidoni.

«L’Italicum è una legge bellissima che in Europa tutti ci invidiano e che molti ci copieranno», diceva Renzi. E ora fa di tutto per far credere alla gente che finalmente quei cattivoni che non sono mai d'accordo con lui gli permetteranno di apportare alla legge alcuni miglioramenti necessari. Ovviamente lui, che ha fatto approvare l’Italicum con una serie infinita di supercanguri e voti di fiducia, l’avrebbe già fatto da tempo, ma, per rispetto del Parlamento, devono essere gli altri – quelli delle minoranze interne ed esterne – a trovare una proposta alternativa e a farle ottenere i voti necessari.

«L’Italicum – ripetevano ossessivamente lui e i suoi – non c’entra nulla con la riforma costituzionale». E ancora adesso che la Corte Costituzionale ha deciso di rinviare il giudizio sulla legge elettorale per non influenzare il risultato del referendum, Renzi continua a ripetere il suo mantra cui non credono più anche molti dei suoi.

A distrarre un po’ l’attenzione dal presidente del Consiglio pro tempore, perché fanno vedere che non c’è soltanto lui tra coloro che dicono una cosa e fanno un’altra, ci sono i grillini che, pur essendo di nascita contrari a qualsiasi alleanza, propongono una legge elettorale a proporzionale puro, probabilmente la migliore, ma anche quella che non può che dare vita a governi di coalizione. O che cancellano una candidatura olimpica non sulla base di riscontri oggettivi, ma in base a preconcetti che generalizzano intere categorie di persone, tranne, ovviamente, se stessi. Che fanno pensare che nulla potrà mai più essere fatto perché la disonestà non può essere battuta, ma che non ci sono nemmeno – o almeno che loro non hanno – i mezzi per combatterla.

Però attenzione a non lasciarsi distrarre troppo; perché Renzi continua a tentare di vendere qualcosa. Ma questa volta non si tratta di una macchina usata che magari ai suoi tempi ha anche funzionato, bensì di una Costituzione che tra errori, contraddizioni ed evidenti incomprensibilità, potrebbe anche non funzionare mai. Almeno dal punto di vista democratico.

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martedì 20 settembre 2016

Un mondo politico

«We live in a political world», cantava Bon Dylan e da poco lo stesso brano è stato cantato in italiano da Francesco De Gregori: «Viviamo in un mondo politico». Rimarcando che qualunque nostro atto, anche privato, ha sempre un significato politico che finisce per influenzare, e quindi per indirizzare, il progredire, o il regredire, dell’intera società.

È per questo che colpisce la decisione della Corte Costituzionale – così recita una nota diffusa dal suo presidente Paolo Grossi, sentito il collegio – «di rinviare a nuovo ruolo la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Messina e Torino in merito alla legge 52/2015 (Italicum) previste per l’udienza pubblica del 4 ottobre».

Colpisce perché di questa decisione si parla come se il rinvio non fosse di per se stesso una decisione politica, mentre non soltanto lo è, ma comporta anche il fatto che moltiplica i suoi effetti visto che lascia libera l’interpretazione di questo stesso atto.

«È ragionevole - ha commentato il costituzionalista Stefano Ceccanti, ex senatore Pd ed esponente del gruppo di coloro che sostengono il Sì - che l'organo di garanzia voglia prendere una decisione nei tempi e nei modi tali da non essere interpretato come organo politico».

E anche Miguel Gotor, sinistra PD, in eterno dubbio se dichiararsi pubblicamente per il No, commenta: «Trovo la decisione estremamente saggia. Ora la politica, a partire da Renzi e dal Pd, non ha più alibi e, se vuole veramente cambiare l’Italicum prima del referendum, ha l’occasione e il tempo per farlo».

È indiscutibile che le sentenze si devono rispettare sempre, ma questa non è una sentenza: è un procrastinare una decisione e personalmente trovo questa scelta saggia soltanto se la si guarda dal punto di vista di chi preferisce non esporsi prima di sapere come andrà a finire; perché anche quando la scelta popolare sulla riforma costituzionale sarà stata fatta e sarà nota a tutti, la decisione della Suprema Corte sarà considerata politica, come politiche sono state inevitabilmente ritenute tantissime sentenze di questo organo di garanzia soprattutto quando è stato chiamato a decidere qualcosa che riguardava da vicino il mondo politico, appunto.

L’articolo 134 della Costituzione – non toccato dalla revisione – nel suo primo comma recita: «La Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni.

E per questo ritengo che la Corte Costituzionale sia sempre chiamata a decidere nel merito se una scelta politica è un vulnus alla Costituzione e alla democrazia, o se non lo è. E che, pur avendo assoluta sovranità nel redigere il calendario delle udienze, non sia chiamata ad aspettare gli eventuali cambiamenti decisi dalla politica, o dalla volontà popolare perché, così facendo abdica al proprio compito.

Comunque almeno una cosa la Consulta l’ha già detta e Ceccanti, forse inconsapevolmente, l’ha ribadita: che Italicum e riforma costituzionale sono inestricabilmente legati, anche se Renzi e i suoi per mesi, sapendo bene di mentire, continuavano a sostenere che tra le due cose non c’è alcun legame. Il combinato disposto, insomma, c’era e ancora c’è. Con tutta la sua pericolosità.


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martedì 13 settembre 2016

Una legge e una riforma

In questi giorni si sta parlando ad abundantiam di riforma dell’Italicum, la legge elettorale sulla quale la Corte costituzionale è chiamata a esprimersi probabilmente già il 4 ottobre e che possiede tante rassomiglianze con il già incostituzionale Porcellum da far pensare che abbia poche possibilità di uscirne indenne.

Oggi ne parlano non soltanto i fautori del No al referendum costituzionale che l’hanno sempre indicata come pericolosissima perché, con la nuova proposta costituzionale, creerebbe un combinato disposto capace di aprire davvero la strada a velleità antidemocratiche.

Adesso ne parla anche la minoranza del PD che, pur avendola approvata per un difficilmente comprensibile disciplina di partito, adesso la indica come un motivo per votare No, a meno che non venga cambiata.

Ne parla il presidente emerito Napolitano, sul quale per il dovuto rispetto istituzionale non spendo altri aggettivi, che, dopo averla a lungo difesa, oggi la indica come legge da cambiare assolutamente.

Ne parla e ne scrive Matteo Renzi che, dopo averla fatta approvare a colpi di fiducie, supercanguri e artifici procedurali assortiti, e dopo averla definita una legge che tutta l’Europa ci invidia e che ci copierà, oggi si dice non solo disposto a cambiarla, ma addirittura desideroso di farlo, anche se – avverte sogghignando sotto i baffi – sarà difficile trovare una maggioranza disposta a farlo. Dimenticandosi, ovviamente che, quando la cosa gli interessava pro domo sua, quella maggioranza è pur riuscito a trovarla.

Ne parlano, con differenti gradi di disponibilità, tutti i renziani che fino a ieri giuravano e spergiuravano – evidentemente fidando in una qualche cecità dei loro interlocutori – che riforma costituzionale e nuova legge elettorale non avevano alcun legame.

Gli unici a non parlarne più sono i grillini che, dopo aver visto quello che è successo alle comunali, hanno capito che l’Italicum sarebbe il modo più sicuro per farli arrivare in breve a Palazzo Chigi.

Ebbene, vorrei che fosse chiaro a tutti – e soprattutto alla sinistra del PD – che l’eventuale scomparsa di una legge elettorale molto simile al famigerato Porcellum, renderebbe ancor più assurda la riforma costituzionale Boschi–Renzi–Napolitano (ma sull’ordine di questi tre nomi ognuno può sbizzarrirsi a piacere), perché la filosofia di questa riforma è sempre stata quella di spostare fortemente l’asse del potere dal Parlamento al governo concedendo a quest’ultimo una larga maggioranza assolutamente al riparo da sorprese. E che le due riforme siano nate in uno stesso progetto è confermato anche dal fatto che i loro iter sono andati avanti praticamente di pari passo e con forzature procedurali molto simili.

Ebbene, se dovesse venire a mancare quella larga maggioranza attribuita a un unico partito dall’Italicum, il caos già abbondantemente prevedibile, vista la scarsa qualità di forma e contenuti della riforma costituzionale, si dilaterebbe a dismisura e la spaccatura verticale dell’Italia accompagnata dal progredire dell’allontanamento progressivo dei cittadini dalla politica renderebbe ancora più difficile quella stabilità che tutti dicono insostituibile, ma che, pur apparentemente assente per decenni, ha pur consentito all’Italia di uscire dai disastri materiali, sociali e politici della guerra.

Il fatto è che oggi, per Renzi e soprattutto per i potentati economici, il termine “governabilità” significa in primo luogo fastidio per le discussioni democratiche e voglia di privilegiare quella fretta nel decidere, senza eccesivi controlli, che sembra essere diventata ben più importante del bene dei cittadini.

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sabato 10 settembre 2016

Quale Assemblea Costituente?

Nessun dubbio che alla carica di Presidente della Repubblica, per quanto emerito, si debba una consistente dose di rispetto; ma nessun dubbio, neppure, che all’ombra di questo rispetto non si possa lasciar passare sotto silenzio della frasi che, a essere rispettosi e benevoli, possono essere definite “di parte”.

In una lunga intervista a Repubblica l’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha invitato ad abbassare i toni del confronto politico e a concentrare l’attenzione sul merito delle questioni che saranno oggetto del referendum costituzionale che ancora Renzi preferisce non decidere quando sarà celebrato.

Siamo perfettamente d’accordo sul fatto che finalmente si cominci a parlare del merito di una riforma che, secondo noi, demolisce la Costituzione e mette a serio rischio la democrazia del nostro Paese, e che si cessi di usare slogan risibili («Il Parlamento avrà più poteri di oggi», o «La legge elettorale non c’entra nulla con la riforma costituzionale»), oppure patenti falsità certificate come tali dalla Corte dei conti («L’abolizione del Senato comporterà risparmi per 500 milioni di euro»). Ma la consonanza si ferma qui.

Napolitano afferma: «Ricordiamoci lo spirito che condusse una larghissima maggioranza ad approvare la Carta nell’Assemblea Costituente nonostante su punti non da poco molti avessero forti riserve». Ebbene, non fidandomi troppo della mia memoria, sono andato a rivedermi vari testi su quel momento fondamentale della nostra storia e, pur tra migliaia di pagine, non sono riuscito a trovare la benché minima traccia di avvenimenti accaduti invece durante l’iter della riforma costituzionale di cui si discute oggi, come “supercanguri”, maxiemendamenti, voti di fiducia, sostituzioni nelle commissioni dei commissari che non erano d’accordo con la linea scelta dal segretario del PD e presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che aveva imposto la riforma come condizione imprescindibile per la sua rielezione.

Vorrei sommessamente ricordare che il testo entrato in vigore il 1° gennaio 1948 è uscito da un’Assemblea Costituente e non da un governo che l’ha imposta – cancellando tutti i dissensi con espedienti parlamentari – al partito di maggioranza relativa e all’intero Parlamento.

Mi piacerebbe anche che si sottolineasse che l’Assemblea Costituente era stata eletta dai cittadini italiani, mentre l’attuale Parlamento è stato scelto con una legge anticostituzionale ed è rimasto in carica, su espressa pronuncia della Corte Costituzionale, soltanto per non lasciare un lasso di tempo di totale vacanza istituzionale e non certamente per cambiare la sostanza della nostra democrazia.

E non soltanto marginale è il fatto che la nostra Costituzione sia stata approvata in un aula pienissima, mentre la riforma Boschi–Renzi–Napolitano ha visto uscire dall’aula l’intera opposizione al momento del voto.
 

Il presidente emerito afferma che «la riforma non è né di Renzi, né di Napolitano», ma lo inviterei a rileggersi il discorso da lui fatto alle Camere durante la cerimonia del suo reinsediamento.

Vorrei concludere citando le indicazioni date da Piero Calamandrei durante i lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, affinché la Carta fosse al sicuro dalle conseguenze politiche della tensione che saliva fra i grandi partiti popolari, ex alleati nei giorni della Liberazione: «Nella preparazione della Costituzione, il governo non deve avere alcuna ingerenza…». «Nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria». «Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti».

Ma davvero il presidente emerito ricorda lo spirito dell’Assemblea Costituente? Ma davvero pensa – quale possa essere il risultato del referendum – che questo Paese non uscirà comunque profondamente spaccato da questa prova di forza imposta da parte di coloro che fanno della fretta e non del bene del Paese il valore primario di una democrazia?

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mercoledì 7 settembre 2016

Il concetto di eguaglianza

Non fossimo umani e, quindi, soggetti a continue delusioni, ma anche decisi a rialzare la testa al più presto, ci sarebbe da disperarsi perché ancora una volta è stata confermata una triste disillusione legata a una delle più potenti e affascinanti illusioni: quella dell’eguaglianza. Perché ancora una volta si è dovuto toccare con mano che, mentre parlando di eguaglianza si pensa romanticamente a un livellamento al piano più alto raggiunto da una parte dell’umanità, nella realtà troppo spesso si finisce per sentir dire «Allora sono tutti uguali», quando qualcuno in cui taluni avevano riposto una certa fiducia finisce per sprofondare ai piani più bassi e più deprecati della società.

Mi riferisco – è evidente – al caso della vicenda del Comune di Roma e dei grillini che avrebbero dovuto – a loro dire – non soltanto farlo riemergere da putride paludi di malaffare, ma anche e soprattutto far vedere com’è che si può amministrare e governare bene e in maniera trasparente. Lo dico perché un loro successo in questa seconda parte del loro programma avrebbe potuto ridare fiducia nella politica a una consistente parte dei cittadini che l’hanno persa da tempo. E questo sarebbe stato un bene non soltanto per loro, ma per l’intera democrazia che non può non essere fondata sulla partecipazione, se non vuole diventare oligarchia, aristocrazia, tecnocrazia, o altre cose che con la democrazia c’entrano ben poco.

Il fallimento etico di almeno una parte del movimento è purtroppo indiscutibile. Non solo e non tanto nel motore di tutto questo guazzabuglio di interessi pubblici e privati, di intromissioni e pressioni economiche e politiche, di ambizioni e cedimenti; un motore che evidentemente ha trovato carburante nel comportamento della sindaca Raggi. L’evidenza dello sprofondamento appare ancor più drammaticamente, invece, nel post–pateracchio, nelle bugie e nelle mezze verità, nei silenzi e nelle scuse difficilmente credibili perché praticamente non plausibili.

Pensate all’assessora Muraro che diceva di non sapere di aver ricevuto un avviso di garanzia, pur avendone dato notizia alla sindaca Raggi verso fine luglio. E pensate ala stessa Raggi che prima diceva di non saperne niente e che poi, messa alle strette dalla Commissione parlamentare Ecomafie, ha dovuto ammettere di sapere, ma, utilizzando molti più numeri di articoli e commi che parole comprensibili da tutti, ha cercato di sostenere che i dati erano troppo vaghi per parlarne: pur se evidentemente erano abbastanza circostanziati per indurla a segnalare la cosa al direttorio dei 5 stelle.

E mentre Grillo, per una volta, non sa cosa dire (o, se lo sa, preferisce non dirlo), cosa fa Di Maio, l’uomo su cui il movimento punterebbe per salire a Palazzo Chigi? Prima dice di non sapere nulla e poi, messo con le spalle al muro perché i documenti con cui veniva avvertito esistono e sono stati resi pubblici, se ne esce con un incredibile «Scusate, ho letto quella mail; ma ho capito male». Lasciandoci il dubbio se è un bugiardo, o se è incapace di capire che lui stesso stava domandando a Fabio Massimo Castaldo e a Paola Taverna precisazioni sulla Muraro e sulla sua posizione di fronte alla giustizia.

Il tutto fa tanta tristezza perché molti – non noi – si erano illusi di avere trovato finalmente qualcosa di nuovo, magari ancora affetto da inesperienza, ma ancora pulito. E ora, se non autori di un atto di fede, con il ragionamento devono ricredersi. Ma fa tristezza anche a chi non ha votato 5 Stelle e non si era illuso perché è stato nuovamente riportato davanti alla triste condizione di chi ha già visto tante di queste storie e le ha odiate a tal punto da disperare di trovare una politica degna di tal nome e da far allontanare dalle urne.

Ma superato il momento di scoramento, pensateci un po’: la parola eguaglianza non va usata soltanto per dire «Sono tutti uguali» con tono sconsolato. La parola eguaglianza è stata usata anche spesso per illustrare sinteticamente quei progressi sociali che ormai noi quasi non avvertiamo perché ci siamo abituati a loro, ma che appaiono nettamente se lanciamo il nostro sguardo indietro anche soltanto di qualche decennio. È una parola che parla di difficoltà, fatiche e sacrifici anche estremi, eppure continua ad avere tutto il suo fascino utopico che non può essere nemmeno scalfito dai tanti millantatori che hanno animato il nostro passato, che continuano ad popolare il nostro presente e che dovremmo far di tutto perché non possano riempire anche il nostro futuro.

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sabato 3 settembre 2016

I dubbi e le certezze

Anch’io, come le stragrande maggioranza delle persone, vivo di incertezze. Talvolta, addirittura, può venirmi il dubbio di sbagliare nel giudizio negativo che ho nei confronti di Renzi. Poi, fortunatamente, lui rimette subito le cose a posto.

Mercoledì, nell’e–news che Renzi manda a tutti i simpatizzanti e che, per ragioni misteriose, arriva anche a me, il capo del governo pro tempore, nel confutare il fatto che «qualcuno è riuscito a insinuare e far circolare l'idea che mentre mi stavo facendo il segno della croce ai funerali di Amatrice in realtà stessi scrivendo al telefono», spiega, con un ammirevole salto acrobatico logico che « dire la verità in modo semplice e chiaro, offrire numeri e cifre è possibile. Poi ognuno si fa una propria opinione. Ma i numeri sono chiari. Le cifre non mentono». Come non essere d’accordo che i numeri sono dati di fatto? Ieri, però, l’Istat ha confermato che il Pil italiano è a crescita zero e Renzi, con il suo solito sorriso confidenziale, ha rilevato che però «la crescita c’è», perché – ribadiscono Renzi e Padoan – a causa degli arrotondamenti le previsioni annue salgono da un più 0,6 per cento a un più 0,7.

Francamente mi interessa poco discutere sulla possibile variazione di un decimo di punto percentuale sulle possibili variazioni del Pil. Mi interesserebbe molto di più sentir parlare del benessere – non soltanto economico – dei cittadini di cui la politica dovrebbe occuparsi a ogni livello. Ma di questo non si parla praticamente mai perché è difficile fare spot ottimistici se i contenuti di quegli spot sono immediatamente percepibili come artefatti, se non addirittura falsi.

Anche questa volta Renzi, come sempre, si è preoccupato di far sapere quanto è bravo in campi diversi da quello di cui ci si occupa in quel momento e sul quale avrebbe poco di positivo da dire, mentre, così facendo, può fare propaganda fidando sul fatto che chi lo ascolta è distratto su quello di cui sta parlando lui.

Ma gli esempi non si fermano a lui. Il ministro Lorenzin sostiene la necessità dell’incremento di natalità come se si trattasse soltanto di cambiare il programma di una serata, altrimenti dedicata a una cena o a un film, e tutta la questione non fosse legata, invece, alla mancanza di possibilità economiche di mettere in piedi una famiglia alla stessa età in cui ci si riusciva un paio di decenni fa.

I grillini, davanti al caos della giunta Raggi e all’apparire delle profonde crepe che stanno intaccando l’apparente monolito del Movimento Cinque Stelle, copia immediatamente la frase di Di Maio che, senza eccessiva fantasia, copia a sua volta una frase che era già vecchia ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, quando, a turno, tutti accusavano i cosiddetti “poteri forti” che sicuramente esistono, ma che, tra l’altro, dovrebbero avere ben solidi agganci anche all’interno del movimento se sono riusciti, senza apparenti spinte esterne, a far dimettere cinque personaggi di primo piano dell'organigramma romano in meno di 24 ore, e a far sparare l’uno contro l’altro molti esponenti dell’universo grillino.

In tante città si è convinti che per far rivivere i centri storici basti organizzare alcune volte l’anno delle manifestazioni che facciano arrivare decine di migliaia di “consumatori” – cosa ben diversa da “cittadini” – da fuori. E non ci si rende conto che per far rivivere una città, invece, bisognerebbe rendere più appetibile la vita in quei centri dove, invece, le banche hanno preso il posto dei negozi e dove è quasi impossibile comperare – se dovesse servire – un qualunque elettrodomestico per sostituire quello che si è appena guastato.

Ma vi è mai venuto il dubbio che nella scelta dei politici e degli amministratori si dovrebbero privilegiare le persone che abbiano un minimo di preparazione, ma soprattutto la capacità di lanciare il proprio sguardo progettuale oltre la distanza di qualche mese, o addirittura anche al di là del prossimo appuntamento elettorale?

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