mercoledì 20 luglio 2016

Il brufolo e la malattia

In questi giorni di dolore e di rabbia per un terrorismo sempre più crudelmente inumano e sempre meno mirato, di orrore per continui razzismi e vendette, e di preoccupazione per come in sempre più Paesi si acuisca la tendenza alla ricerca dell’uomo forte e non del popolo coinvolto e consapevole, non ci si può dimenticare - anche se non è facile farlo - dei pericoli che corre l’Italia con la riforma costituzionale e con il suo “combinato disposto “ con la nuova legge elettorale.
Ho già dichiarato che farò tutto quanto è possibile - non tanto per il bene mio, ma per il futuro democratico di mia figlia, di mia nipote e di tutti i loro coetanei - affinché a ottobre (o a novembre, o chissà quando) vinca il no; ma comunque andrà a finire ritengo si debba chiarire subito che l’impegno dei componenti dei comitati del No non potrà, né dovrà esaurirsi dopo il conteggio delle schede, in quanto Renzi - per quanto importante lui reputi se stesso - altro non è che la punta di un pericolosissimo iceberg, o una specie di brufolo che indica, ma in parte nasconde la vera malattia che oggi i più indicano con soddisfazione come un grande successo della chirurgia sociale: la scomparsa delle ideologie che, però, in realtà consiste soltanto in un intervento di chirurgia estetica perché un’ideologia, assolutamente per ora vincente, è rimasta.

Cancellato il nome e la veste politica che avrebbero potuto coinvolgerla nel rifiuto che ha affossato tutte le degenerazioni delle altre ideologie, infatti – come acutamente già rilevava Natalino Irti nel suo “La tenaglia” di otto anni fa – si è palesata esplicitamente nella sua sostanza: il liberismo economico, fondato sul capitale privato e sulla volontà di guadagno a ogni costo. E anche nella sua ambizione: diventare - proprio come i comunismi, i fascismi e i fondamentalismi assortiti - una visione della vita che pervade il mondo intero, che diventa contemporaneamente teoria e prassi, determinando linguaggi, costumi e modi del fare; cancellando, come le aberrazioni di cui sopra, l’unica cosa che dovrebbe importare davvero: l’uomo, la sua vita, la sua dignità, le sue aspirazioni.

Come si lega questo discorso al referendum costituzionale? È semplice: il trionfo dell’ideologia del mercato e della finanza su tutte le altre, grazie anche a una pretesa oggettività dei numeri, ha portato al dominio del pragmatismo della quotidianità. E la quotidianità, con la conseguente mancanza di un vero progetto sociale per il futuro, comporta - per riuscire a dare un senso alla propria collocazione al vertice del potere esecutivo di una nazione - la necessità di un’ossessiva volontà di “riforme” e di “riforma delle riforme”.

In queste condizioni le leggi non hanno né durata, né stabilità; sembrano immerse in un processo continuo, oggi possono essere e domani non essere più, a seconda della convenienza del momento di chi comanda in quel momento. Le leggi, insomma, sembrano esistere quasi soltanto come invito a essere cambiate. Manca una direzione, non c’è un fine davvero sociale e rimangono soltanto le procedure produttive di tutte le norme di cui il pragmatismo della quotidianità ritenga di avere bisogno. E la lotta politica finisce per volgersi quasi esclusivamente alla conquista della macchina che gestisce le procedure che possono tramutare in legge ogni volontà del potere.

E qui arriviamo al punto, perché le volontà del potere dovrebbero essere temperate dall’insieme di principi e valori etici contenuti in quella somma di faticosi ragionamenti e compromessi, in quel patto di convivenza che è la Costituzione entrata in vigore nel 1948 la cui sostanza, proprio perché rallenta il compimento dei desideri della maggioranza, ora Renzi e i suoi vogliono mandare in soffitta. È per questo che dico che in ogni caso si dovrà continuare a lavorare e che Renzi è soltanto un foruncolo che distrae l’attenzione dalla vera malattia. Perché anche la Costituzione, se spogliata delle sua tensione etica e sociale, altro non è che un documento fatto di norme che un acconcio numero di voti parlamentari può cambiare. E non perché i portatori di questi voti debbano avere argomenti seri e convincenti, o le loro minacce di disastri abbiano solidi fondamenti, ma in quanto la Costituzione stessa ha finito per essere consunta dai continui assalti dell’ideologia vincente e per veder esaurire la sua forza propulsiva. Perché la Costituzione ha bisogno di una fede sociale che la animi e la sorregga, una fede sociale che deve essere assolutamente riconquistata.

Dovrebbe essere evidente che Stato, Costituzione, Parlamento e governo sono elementi che devono essere uniti in una convivenza storica e che se questa storicità viene a mancare ed è sostituita dal pragmatismo della quotidianità, la crisi degli organi legislativi ed esecutivi finisce per apparire – e quindi diventare – anche crisi dello Stato e della Costituzione. Insomma, è totalmente contraddittorio salutare con gioia la morte delle ideologie politiche, e quindi dei progetti sociali, e pretendere contemporaneamente dai cittadini il senso dello Stato. Perché tra le ideologie “da rottamare” purtroppo ci sono anche l’ideologia dello Stato e della Costituzione.

Se non vogliamo che dagli obbiettivi politici e sociali ci si riduca alla pura esistenza normativa, è evidente che il lavoro dovrà essere lungo, pesante e ininterrotto perché se distruggere è stato relativamente facile indicando gli errori, le aberrazioni e una corruzione dilagante (perché anche l’"ideologia" dell’onestà è stata attaccata con determinazione), ricostruire il senso dello Stato, della Costituzione, del vivere sociale sarà molto più difficile anche perché richiederà, da parte di coloro che al futuro ancora credono, la capacità di mettere almeno temporaneamente da parte le inevitabili differenze, per unirsi nella difesa del bene maggiore che è la vera democrazia e non quella cosa che ci ostiniamo ancora a chiamare così, ma che ha soltanto vaghe rassomiglianze con quel sistema politico che ha nel voto soltanto la parte finale e – tutto sommato, visto che l’alternanza è accettabile, se non auspicabile – la meno importante rispetto ai principi, ai valori, al pensiero, al progetto, all'elaborazione, al confronto, alla mediazione e alla ricerca degli accordi che facciano il bene di tutti.


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venerdì 15 luglio 2016

La vera differenza

Davanti a tragedie come quelle di Nizza diventa assurdo parlare delle piccinerie della nostra politica, anche quando tenta di combinare schifezze sulle quali comunque ci sarà tempo e obbligo di tornare. Ora, invece, è il momento di indirizzare il proprio pensiero alle vittime per le quali l'asprezza del dolore è troppo forte anche per essere soltanto accennata; ai carnefici contro i quali sorge quasi spontaneamente un odio che solamente con fatica si riesce circoscrivere in maniera tale da non farlo diventare uno dei tanti razzismi che ammorbano il mondo e che sono proprio all'origine di stragi come quella di ieri sera; e a noi che ci sentiamo soltanto impotenti e spauriti testimoni e che, invece, dovremmo essere i motori per far muovere il mondo verso quegli obbiettivi di pace, fraternità, benessere diffuso di cui tanto parliamo e per i quali tanto poco facciamo, sia per deliberata scelta, sia per colpevole disattenzione.

Avremo giorni, mesi e anni per pensare a questo tipo di terrorismo, come ne abbiamo avuti tanti - e non sono ancora bastati - per pensare ai terrorismi di casa nostra, ma il primo pensiero che viene alla mente è una domanda: com'è possibile che da sempre si sia divisa l'umanità a seconda del colore della pelle, o della religione praticata, o delle inclinazioni sessuali, o della ricchezza, e mai sia stata portata in primo piano la vera differenza esistente tra i vari esseri umani e cioè il rispetto - o meno - della vita altrui?

E questo vale non soltanto per chi materialmente ammazza conosciuti e sconosciuti direttamente con armi, esplosivi, o veleni assortiti, ma anche per coloro che fanno morire i propri simili con la fame, le privazioni, la negazione dei diritti di cura e di molti altri diritti, con le umiliazioni e le privazioni della dignità, con la smania di guadagnare di più a ogni costo.

Si tratta forse di creare una nuova categoria di persone verso le quali indirizzare l'odio? Assolutamente no; anzi, è il contrario perché è proprio aggredendo alla base le ragioni dell'odio nostro che potremo demolire le ragioni dell'odio altrui. Dovremmo diventare protagonisti attivi nel diffondere l'idea che la vita umana è al vertice delle cose importanti.

E tutto questo può essere fatto soltanto agendo sul piano culturale, purtroppo quello meno valutato e rispettato in questi anni orribili perché la cultura richiede tempo e disponibilità a non guadagnare. Entrambe cose che per le tendenze di oggi sono peggiori di una bestemmia.

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sabato 9 luglio 2016

I numeri

Matteo Renzi ha pronunciato, per l'ennesima volta, la fatidica frase «Abbiamo i numeri». Questa volta l'ha detta davanti al presidente Mattarella per assicurargli che, pur davanti alle nuove polemiche legate ad Alfano e famiglia, il governo riuscirà ad avere al Senato la maggioranza necessaria a far passare il decreto Enti locali. E Mattarella - che a differenza del suo predecessore si attiene al dettato costituzionale e opera da arbitro più che da capitano di una delle parti in campo - non ha potuto far altro che annuire in attesa degli eventi.

Ma dalla frase di Renzi ancora una volta si evince che i numeri sono l'unica cosa della democrazia che Renzi sia riuscito ad assimilare: di tutto quello che prima dei numeri dovrebbe esserci non c'è traccia. Principi, valori, pensiero, elaborazione, confronto, discussione, mediazione, accordi alla luce del sole sono tutte cose che nella mente dell'attuale presidente del Consiglio sono scomparse, e comunque assenti, per lasciare spazio soltanto alla parte finale: i numeri. Sicuramente importanti, ma altrettanto sicuramente travisabili, addomesticabili, imponibili; e, quindi, adatti a ogni tipo di regime, mentre sono tutti gli altri aspetti che precedono le conte dei voti a distinguere se si è, o meno, in uno stato di democrazia.

Adesso, secondo Renzi e i suoi, dell'Italicum si può discutere; il referendum si può "spacchettare". Un soprassalto democratico? Certamente no. Soltanto, ancora una volta, questione di numeri che il presidente del Consiglio si è accorto con certezza di non avere più. E allora cerca di correre al riparo, anche perché ha legato il suo futuro politico al risultato del referendum.

In questo momento è inutile parlare della ministra Boschi che - dopo aver ribadito più volte in passato che, come il suo capo , se la riforma costituzionale non dovesse passare in toto se ne andrebbe a casa - ora annuncia che la Costituzione va discussa con i cittadini. E neppure di Napolitano che continua ad accusare chi difende i principi fondanti della Costituzione del 1948 di provocare il disastro per l'Italia. Piuttosto un cenno sembra obbligatorio sul fatto che non vorrei mai essere vicesegretario del PD. Guardate come Guerini deve rinnegare se stesso per tentare di salvare la faccia al suo capo: fino a ieri era severissimo sacerdote dell'intangibilità della presunta nuova Costituzione e della nuova legge elettorale, mentre adesso è propugnatore di un dialogo a tutto campo.

Comunque, visto che Renzi soltanto di numeri intende, vorremmo ribadire che l'Italicum non va corretto, ma va cestinato per trovare nuove formule che garantiscano rappresentatività e, quindi, democrazia. E che lo "spacchettamento" della riforma costituzionale può risolvere solamente questioni minute e secondarie, come quella dell'abolizione del CNEL, mentre una Costituzione seria è qualcosa di organico: se la tocchi in un punto (e qui se ne vogliono stravolgere più di quaranta) quell'azione può riflettersi, anche a livello di limitazione di diritti, in altri punti. E, in ogni caso, la voglia di tramutare una repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale non può certo essere "spacchettata".

E allora, a maggior ragione, attenti alle promesse di Renzi per il futuro: per lui, visto che è la cosa a cui bada maggiormente, saranno sempre i numeri e non le promesse a contare di più.

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domenica 3 luglio 2016

Ricordando Elie Wiesel

È morto, a 87 anni, Elie Wiesel, giornalista, scrittore, Premio Nobel per la pace. Sopravvissuto alla Shoah, aveva deciso di dedicare la sua vita a combattere l'oblio, l'indifferenza, la menzogna. Non c’era momento in cui non parlasse di Dio, in cui non ci discutesse e litigasse, in cui non lo mettesse sotto processo per quello che aveva lasciato fare. Con lui aveva un conto aperto da quando nel lager gli era stata sottratta gran parte della famiglia: «Non dimenticherò mai – aveva detto – quelle fiamme che consumarono la mia fede per sempre».
 
Ha combattuto per tutta la vita contro le crudeltà e le dittature, ha sempre tenuto in gran conto i valori e gli ideali; quindi le ideologie, ma diventando un loro implacabile nemico non appena mostravano segni di degenerazione. Ha voluto con forza che l’Onu approvasse una risoluzione che giudicasse il terrorismo come un crimine contro l'umanità.

Mentre troppi non pensano più perché ritengono che la velocità sia il bene supremo, la sua mancanza diventa ancora più pesante. Desidero ricordarlo offrendogli la presentazione che nel giugno del 2004 sono stato chiamato a fare, da monsignor Duilio Corgnali, nel duomo di Tarcento, de “Il processo di Shamgorod” per una settimana di cultura intitolata “Il silenzio di Dio”.

Mi rendo conto che la lunghezza del testo è abnorme per una comunicazione via internet, ma credo che per me sia più importante ricordare Elie Wiesel che rispettare i dettami del web. Comunque era giusto avvertirvi che il testo è davvero lungo. Eccovi quello che ho detto quella sera.

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Credo che nel vedere la quantità di gente che sta decretando il successo di questa Settimana internazionale della cultura di Tarcento, la prima cosa da sottolineare sia che Il Silenzio di Dio – ammesso che esista davvero – porta a far parlare, a far ascoltare, a far ragionare. Il che – di questi tempi – già mi sembra una specie di piccolo miracolo, capace di far sorridere di contentezza.

Ma lasciamo perdere i sorrisi e arriviamo alle cose serie. Perché questa occasione è per me terribilmente seria. Parlare, in un duomo, su un tema come quello de “Il silenzio di Dio”, mentre sta per andare in scena “Il processo di Shamgorod”, di Elie Wiesel, è una situazione che non può non mettermi in crisi. Sia perché io – laico e fortemente dubitante – parlo da una specie di pulpito, sia, soprattutto, perché il processo di Shamgorod è un processo a Dio; e presentarlo e rappresentarlo in un luogo consacrato può sembrare una bestemmia.

Può sembrare una bestemmia, come una bestemmia può essere sembrata a molti uno degli scritti più sofferti e più conosciuti di un altro grande del pensiero, Hans Jonas che nel suo “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, forse non ha istruito un vero e proprio processo, ma ha sicuramente messo in piedi una penetrante requisitoria che contemporaneamente è stata anche una sofferta arringa difensiva.

Eppure, se questi due scritti possono essere considerati bestemmie, allora tutti noi abbiamo bestemmiato ogni volta che ci siamo chiesti perché è stato permesso che un bambino morisse di leucemia, o di morte bianca, o di qualsiasi altra cosa possa portare via una vita che deve ancora sbocciare compiutamente. Tutti noi abbiamo bestemmiato quando ci siamo chiesti non soltanto perché un pedofilo abbia potuto fare quello che ha fatto, ma anche perché, prima, egli abbia potuto diventare ciò che è diventato. Tutti noi abbiamo bestemmiato quando ci siamo chiesti come sia stato possibile permettere a gente come Hitler, Mussolini, Stalin, Pol Pot e, per venire ai giorni nostri, anche a Osama Bin Laden, a Sharon, a Busch, e a una sfilza di persone che sarebbe troppo lungo elencare, di detenere il potere di far uccidere tanti altri uomini da non poterne tenere un conto esatto. O come sia stato possibile permettere di far arrivare al potere altri individui che forse non hanno ammazzato con le armi, ma hanno ucciso con la fame e con le umiliazioni.

Sono tutte bestemmie queste? È molto difficile rispondere. Sarei portato a dire di no; a sostenere che queste non sono bestemmie, in quanto sono le limitate e irrazionali reazioni di un uomo a quelli che sentiamo come tradimenti. Ma forse proprio per questo sono bestemmie. Oppure, piuttosto, questo nostro continuo processo a Dio – che costruiamo ogni giorno e che ogni giorno può avere una sua udienza – lo giustifichiamo con il “Silenzio di Dio”. È una locuzione che è balzata all’attenzione di tutti quando Giovanni Paolo II ha lanciato un grido di dolore: «Oltre alla spada e alla fame, c’è una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità». È una locuzione che ottimamente è stata indicata come tema di questo che è stato definito “Festival del pensiero”, anche se, a dire il vero, questo può apparire eccessivo perché il pensiero non può abbracciare tutto, non può spingersi oltre certi confini, non può giustificare, non può spiegare qualsiasi cosa.

“Il silenzio di Dio”. Monsignor Duilio Corgnali ha scritto, in maniera assolutamente condivisibile, che il silenzio non è mancanza di parole: il silenzio è mancanza di rumore. Ebbene: allora il silenzio forse non esiste, perché il rumore lo sentiamo quasi dappertutto. Lo abbiamo trovato sul Golgota, lo abbiamo trovato nel pogrom che ha cancellato la popolazione ebraica del paesino polacco di Shamgorod nel febbraio del 1649 e lo abbiamo trovato ad Auschwitz, quando Elie Wiesel, ne “La Notte”, dice: «Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...», a una forca, sulla quale invano si rifiutava di morire un bambino impiccato dai nazisti.

In questi tre casi – e in tanti altri – il rumore c’era. Mancavano forse le parole, ma il rumore era forte e assordante come una sirena d’allarme. Stridente. Anzi, per usare il termine più esatto, lacerante: perché ci ha lacerato cuore, cervello e anima. E questo rumore esiste anche in tutto quello a cui ho già accennato: nelle morti naturali e accidentali dei bambini, nell’infanticidio, nella pedofilia, nel rendere schiavi gli altri, nel fare guerre, nel fare terrorismi, nell’essere razzisti ed eterofobi, nell’essere egoisti e nel rifiutare solidarietà, nell’affamare la gente, nel calpestare tutti i diritti altrui pur di aumentare i propri guadagni.
Il male, insomma, è un grande costruttore di rumori e forse, in realtà, questi rumori sono talmente violenti da coprire le parole che in sottofondo, invece, magari continuano a esserci, ma che noi non riusciamo a percepire forse più per nostra distrazione che per loro debolezza.

Ma allora, se noi non sentiamo più le parole di Dio, questo deve essere imputato a lui, oppure significa che siamo noi a non sentire, a non credere? Il silenzio di Dio, in definitiva, può mettere in dubbio la nostra fede? Ovviamente non lo so, ma credo che questo non possa accadere a chi ha la fortuna di possederla davvero; e io non sono tra quelli. Perché immagino che la fede non sia il risultato di un rendiconto finale tra una colonna del dare e una dell’avere; che non possa dipendere dal risultato delle nostre preghiere perché, ovviamente, Dio non deve mica ripagare le nostre preghiere come un commerciante che, ricevuto il denaro, consegna la merce al cliente. Credo che la vera fede non possa essere quell’acritica e cieca superstizione dogmatica che è alla base di ogni fondamentalismo, perché se rifiuta ogni interrogativo non la sento come una vera fede, ma solo come una superstizione, un professare il nulla.

Credo che spesso si tenda ad accusare la laicità confondendola con la secolarizzazione. Se la secolarizzazione, infatti – almeno nella connotazione indicata da Max Weber – vuole riferirsi a una deliberata espulsione di riferimenti religiosi dalla vita sociale, molto diverso è il concetto di laicità, perché in diverse questioni aperte nella concezione della vita e della storia, delle istituzioni e della politica, laicità e fede non si oppongono pregiudizialmente. Anzi, laico può essere sia il credente, sia il non credente, mentre entrambi, invece, possono esprimere il più vuoto dogmatismo. Laico, insomma, è il credente non superstizioso, aperto alla ricerca, agli interrogativi, desideroso di confrontarsi con Dio e con gli altri uomini, anche con coloro che si ritengono non credenti. E così è laico ogni non credente che sviluppa senza assolutizzazioni il proprio relativo punto di vista, la propria ricerca e il proprio dialogo, anche con il credente.

Insomma, la fede, quella che io tenderei a considerare più vera, quella che più mi piacerebbe avere in dono, mi appare invece molto vicina a un continuo processo a Dio e a noi stessi. Mi sembra un continuo mutare tra credere e dubitare; ritengo debba essere capace di mettere in discussione tutto rifiutando in maniera assoluta la superbia di quella che potremmo definire la sindrome “del popolo eletto”, di colui che pensa di essere superiore perché è sempre convinto di possedere la verità. Una volta Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, parlando della “Cattedra dei non credenti”, una specie di seminario aperto a pensatori e uomini di scienza non toccati dalla fede, disse più o meno così: «Ci sono i non credenti a cui non interessa pensare per tentare di conoscere e quelli che si macerano e si sforzano di scoprire quello che non è possibile scoprire, ma che non per questo si rassegnano a non pensare. Ecco – ha continuato Martini – io con loro riesco a discutere benissimo perché sono abituato a sentir discutere quotidianamente nella mia anima la parte di me che crede con quella che non crede».

E lo stesso concetto era già stato espresso con grande umanità ed efficacia da Turoldo: «Pensavo di essere solo a combattere, invece c’era tutta una Chiesa sommersa che inconsapevolmente ti imponeva di essere fedele, di non cedere: una Chiesa di credenti e di non credenti. Sì, perché io non ho mai saputo con certezza quali siano i confini tra credenti e no, quali i confini di una Chiesa che non fosse solo una costruzione giuridica; ma che fosse prima di tutto una realtà di spiriti, di creature viventi. Pensavo di essere io a durare, invece erano loro a farmi durare: perché non si può tradire chi crede anche per te».

Ma i processi intentati da Wiesel e da Jonas contro Dio risentono chiaramente del fatto che gli ebrei vedono in Dio il Signore della storia, che trovano già nell’al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, che meno sono disposti a trincerarsi dietro l’ineffabilità delle decisioni divine perché loro, dopo una millenaria pratica di studio e di intensa e continua frequentazione della Torah, hanno instaurato con Dio un rapporto che è diventato quasi da pari a pari. Ti fanno notare che nel Deuteronomio è scritto: «Amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo spirito, con tutte le tue forze» e che non c’è scritto «adorerai». E su questa base la confidenza, l’intimità, il colloquio tra ebreo e Dio a volte, per un osservatore esterno, sfiora l’insolenza. È per questo che Abramo ha discusso con Dio in favore di Sodoma e ne è uscito vincente; anche se è stata Sodoma, poi, a perdere. È per questo che sono loro e non i cristiani, e tanto meno i musulmani, a permettersi di processarlo per le nefandezze che ha lasciato fare agli uomini.

Molto significativo in questo senso mi sembra un brano di un testamento rinvenuto in una soffitta di Varsavia, scritto da un ebreo in attesa di essere trovato dai nazisti – che già gli avevano ucciso moglie e cinque figli – alla fine della rivolta del Ghetto: «II Dio d’amore – scrive – ha comandato di amare ogni essere creato a sua immagine; ma nel suo nome veniamo assassinati senza pietà, giorno dopo giorno, da duemila anni». E continua: «Credo nel Dio d’Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in Lui. Credo nelle Sue leggi, anche se non posso giustificare i Suoi atti. Il mio rapporto con Lui non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa davanti alla Sua grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote. Io lo amo, ma amo di più la Sua Legge, e continuerei a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in Lui. Dio significa religione, ma la Sua Legge rappresenta un modello di vita, e quanto più moriamo in nome di quel modello di vita, tanto più esso diventa immortale».

Questo rapporto con Dio per cristiani e musulmani è difficilmente concepibile. Eppure i tre credi monoteisti hanno in comune il Dio del Sancta Sanctorum, quel luogo dell’antico tempio di Gerusalemme dove si diceva aleggiassero lo spirito e il nome segreto di Dio; quel Sancta Sanctorum che era vuoto perché soltanto il vuoto può alludere all’essenza inafferrabile e incomprensibile di Dio. E quel luogo così segreto e così inaccessibile non può essere dimenticato ancora oggi perché, in pratica, ha dato origine a tutte le chiese cristiane, alle moschee islamiche e alle sinagoghe ebree della diaspora. Senza quel vuoto assoluto e profondissimo nessun tempio potrebbe esistere.

Ma le tradizioni delle tre religioni sono davvero molto complesse e tra i credenti il gioco si snoda e si aggroviglia attraverso i temi dell’unità e della diversità, mentre a rendere ancora più complicato il quadro intervengono anche le posizioni del laicismo, dell’ateismo, dell’agnosticismo.

Pietro Citati, mettendo a confronto le tre religioni ha scritto: «Se una volta siamo stati creati da Dio, oppure l’abbiamo creato noi (la differenza è irrilevante), ora giochiamo con lui». Lasciamo perdere gli altri concetti di questa densissima frase e soffermiamoci per un momento sull’affermazione che «la differenza è irrilevante» chiedendoci se questo assunto possa essere considerato come vero.

Se fosse davvero così, verrebbe da pensare che siamo stati noi, a seconda delle nostre abitudini, delle nostre tradizioni, a creare Dio, o meglio, degli dei diversi. Perché se fosse stato lui a creare noi, ci avrebbe dato un unico faro spirituale e ci avrebbe risparmiato molti orrori che non sono identificabili soltanto con le mattanze esportate, come le crociate, la jihad, la shoah, ma anche con quelle intestine, come l’inquisizione o le stragi avvenute in Algeria. La terza ipotesi è ritenere che Dio abbia creato noi e, contemporaneamente ci abbia lasciato non soltanto la totale libertà di creare lui vestendolo dei panni che più ci sembravano adatti, ma anche il pieno libero arbitrio di negare la sua esistenza, magari sostituendolo con altri dei. Perché, poi, nessuno riesce, se non con grandi sforzi, a vivere senza avere di fronte a sé una figura, o un obbiettivo superiore.

È difficile, insomma, sostenere che l’affermazione di Citati sia giusta, o sbagliata. Più semplicemente mi appare inutile, perché si arrotola su se stessa riportandoci al punto di partenza senza offrirci nemmeno un punto di appoggio non solo per risolvere l’irrisolvibile dubbio sull’esistenza di Dio, ma neppure per avvicinarci a coloro che lo sentono in maniera diversa da noi. E questo sarebbe importantissimo.

Perché chi crede in un Dio unico corre un pericolo grandissimo in quanto inevitabilmente è indotto a pensare che il suo regno debba essere attuato hic et nunc, qui e ora. Su questa terra e, ovviamente, con il massimo rigore e con assoluta purezza di leggi e riti. Qualsiasi rinvio nel tempo, o compromesso di sostanza, sarebbero configurabili come un tradimento gravissimo: il più alto tradimento possibile perché perpetrato ai danni dell’entità più alta possibile. Ebbene, questa idea è quella che aleggia al di fuori della locanda di Shamgorod durante la folle festa di Purim; e nessuna idea è stata più pericolosa; nessuna ha portato a maggiori disastri nella storia universale.

Tzvetan Todorov ha messo questo concetto perfettamente a fuoco con una folgorante intuizione che ha racchiuso in quella che, con splendida sintesi filosofica e semantica, ha chiamato la “tentazione del bene”, cioè la certezza di possedere il concetto di bene, di vederlo incarnato in noi, collegata con l’assoluta determinazione di volerlo imporre agli altri, anche con la forza, anche a costo di seminare violenza e morte. E purtroppo, paradossalmente, la storia insegna che ha fatto molto più male, e su più larga scala, la tentazione del bene che quella del male.

A questo punto non possiamo non chiederci se in Dio può albergare la stessa cattiveria che vediamo quotidianamente esplicarsi nel mondo che conosciamo, ma Jean-Jacques Rousseau già nel Settecento ha risposto a questo quesito dicendo che «di tutti gli attributi di una divinità onnipotente, la bontà è quello senza il quale non la si potrebbe neppure concepire».

Ecco. Ricollegandomi proprio a questo pensiero, vorrei rendervi partecipi di una riflessione legata a una serie di domande che si agitano nella mia mente fin da quando ero bambino e frequentavo il catechismo; perché nelle grandi religioni monoteiste – anche se allora consideravo soltanto la mia – c’è qualcosa che mi ha sempre infastidito: quello che non riesco a definire in maniera diversa e più descrittiva de “il cipiglio del Signore”. E mi chiedo: perché uno che mi crea deve poi guardarmi sempre con i sopraccigli aggrottati? Perché deve passare una certa pur piccola parte dell’eternità a scrutarmi, pronto a cogliermi in fallo e poi a punirmi? Perché nessuno dei tanti e bravi artisti che hanno lavorato al sacro lo ha mai immaginato e dipinto con gli angoli della labbra rivolti all’insù e con gli occhi sorridenti? Perché nel mondo musulmano addirittura non può essere raffigurato?

In una ricerca di qualche anno fa ho letto che i riferimenti al riso di Dio contenuti nell’Antico Testamento sono ventinove, ma che soltanto in due di questi casi si tratta di situazioni davvero gioiose. Le altre ventisette sono, invece, momenti di disprezzo, o di dileggio nei confronti di empi e peccatori. Del resto solo un Dio serioso può spiegare bene certi eccessi ebraici, cristiani e musulmani. Perché nulla come una risata può sgretolare qualsiasi fondamentalismo.

Provate a pensare a un Dio sorridente, come io lo sogno. Sorridente pur scrutando le difficoltà di una vita terrena che per troppi è come un terribile percorso a ostacoli. In questo Dio si può scorgere un sorriso di indulgenza davanti a chi sbaglia, un sorriso di soddisfazione se qualcosa di buono viene realizzato, un sorriso di incoraggiamento quando qualcuno si muove per fare qualcosa che merita di essere fatto, un sorriso di dolcezza per chi riesce a scambiare amore con un proprio simile, un sorriso di solidarietà per chi vive lo strazio del dolore. Un sorriso che, se non offende, ne fa sempre nascere un altro e che può contribuire in maniera più efficace di un mare di parole a cambiare questo mondo dando corpo a speranze realizzabili.

Se pensassimo a un Dio silenzioso e che non sorride, sarei portato a pensare che la sua attenzione davanti agli orrori di Shamgorod, a quelli di Auschwitz, sia tesa soltanto a colpire – ma non in questo mondo – i colpevoli; e non ad avere pietà delle vittime e a lenire il loro dolore. Un Dio capace di sorridere è l’unico che ci può far uscire da una spirale discendente che porta a una disperazione terrena, e al grave peccato della disperazione nella salvezza eterna. Il Dio sorridente è l’unico che mi sembra possa essere dietro una creazione che non sia priva di senso, che non lasci annichiliti e disperati davanti alla non coincidenza tra peccato, colpa e male. Armand Salacrou scrisse: «L’esistenza di una creazione senza Dio, senza scopo, mi sembra meno assurda che la presenza d’un Dio perfetto, che crea un uomo imperfetto per fargli correre i rischi di una punizione infernale».

Un’obiezione – o più spesso un’accusa – che sempre viene fatta davanti a questa visione del sacro è quella che rischiamo di trovarci tra le mani un Dio di plastilina che noi forgiamo e modelliamo a seconda dei nostri desideri. Può anche essere, ma lavorando la plastilina noi operiamo sulla forma, non sulla sostanza. Esattamente com’è accaduto con le sacre scritture che non soltanto sono state scritte da mani umane, pur ufficialmente sotto ispirazione divina, ma che in molti casi sono state scelte scartandone altre con criteri nei quali l’uomo, con le sue limitatezze, ha pur sempre avuto una grande parte.

Perché per chi, come me, è ricco più di scetticismi che di certezze, i rapporti con Dio sono attraversati da due tipi di dubbi. Il primo, più importante, riguarda proprio il dilemma tra esistenza e non esistenza; il secondo, meno rilevante, ma non meno capace di ingenerare incertezze, riguarda il sospetto che almeno parte delle opere di devozione delle varie religioni, derivino dalla fantasia di qualcuno a un certo punto della storia. Insomma: mi piacerebbe fare qualcosa per ringraziare Dio; e anche per ingraziarmelo. Ma chi mi assicura che questi riti non siano inutili orpelli come lo furono i sacrifici di buoi, o di altri animali?

E allora due sono le soluzioni che possono – anzi devono – convivere. La prima è essere convinti che nelle devozioni non sia importante la forma, ma soltanto la sostanza, il sentire. La seconda è individuare Dio nel prossimo. Se poi Dio esiste, tanto meglio. Ma se non esiste, comunque si è fatto qualcosa di buono per sollevare qualcuno, per far mediamente progredire l’umanità. Se poi tutto questo possa bastare, in tutta sincerità non lo so.

Comunque, davanti al teorico Silenzio di Dio possiamo renderci perfettamente conto di che strano animale sia l’uomo. Pretende che gli sia concesso il libero arbitrio e, nello stesso tempo, di essere difeso da Dio, facendo cancellare, in pratica, il libero arbitrio agli altri. Se mi fosse concessa la scelta tra libertà e tranquillità, non avrei dubbi: preferirei la libertà e la responsabilità della scelta. Perché il limitare la malvagità altrui dipende da noi tutti. Con le norme che ci siamo dati, ma soprattutto con la buona volontà, perché onestà non è saper svicolare tra legge e legge restando formalmente non condannabili; onestà è vivere seguendo la convinzione che il bene proprio e quello altrui sono la meta alla quale tendere. E da questo impegno nessuno può sentirsi escluso.

Anche in quest’ottica spesso teorizziamo che divino e umano debbano essere tenuti separati. Eppure proprio ragionando sul Golgota, su Shamgorod, su Auschwitz e su tutte le altre cause di nostre possibili bestemmie, ci rendiamo conto che divino e umano in certi momenti sono inevitabilmente vicinissimi e che probabilmente si toccano molto più facilmente nel male che nel bene. Perché è nel male che sentendo l’assenza di Dio, ne percepiamo l’esistenza. O, almeno, la desideriamo. Avvertiamo la necessità di un ente supremo proprio quando gli imputiamo la latitanza.

E, quindi, torniamo a Shamgorod. Albert Camus ne L’uomo in rivolta, ha scritto che «l’uomo non è del tutto colpevole, poiché non ha cominciato la storia; né del tutto innocente, perché la continua». Ne consegue che Dio, che ha anche la responsabilità di averla fatta cominciare, dovrebbe essere colpevole. Ma, per capire meglio il nostro grado di colpevolezza e il dramma scritto da Wiesel, non possiamo dimenticare che noi cristiani abbiamo l’alibi dell’esistenza del demonio, mentre per gli ebrei il diavolo è un’altra cosa. La religione ebraica professa l’assoluta unicità del creatore, cui non si può contrapporre alcun altro potere maligno. Che il male esista è un fatto che rientra nell’esperienza dell’uomo, che è rappresentato nelle leggende e nelle credenze popolari, ma che non ha importanza dogmatica.

Il demonio ebraico – e Shamgorod lo dimostra bene – non possiede una propria forza. È capace di sedurre, di sobillare, di spaventare, ma devono essere altri a far il male per conto suo: devono essere gli umani ad agire.

E allora ci rendiamo conto che, in realtà, Il processo di Shamgorod che vedremo adesso, non è soltanto il processo a Dio, bensì un processo contro tutti noi.

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