giovedì 30 giugno 2016

Una festa o un lutto?

Non so se ve lo ricordate, ma domani entrerà in vigore l’Italicum, anche se la parola “vigore”, tutto sommato, mi sembra la meno adatta da accompagnare alla nuova legge elettorale. È comunque una legge che nasce, ma i suoi genitori non sanno se festeggiare o mettere il lutto, visto che su di essa, infatti, al di là della raccolta di firme per un referendum con il quale abolire l’abnorme premio di maggioranza e i capolista bloccati, si addensano ben altre nubi: la sentenza della Consulta sulla sua costituzionalità e, ormai, la rivolta di deputati e senatori della minoranza (e questo è abbastanza normale), ma anche della maggioranza di governo (Alfano minaccia di andarsene se non sarà cambiata) e della minoranza interna al PD. E a ognuno di loro, che ora sembrano decisi, vorrei chiedere cosa stava passandogli per la testa quando hanno votato a favore mentre Renzi glielo comandava con fiducie e canguri assortiti e mentre moltissimi al di fuori del Parlamento protestavano contro una legge che assomiglia in maniera troppo impressionante per essere casuale al Porcellum già dichiarato incostituzionale.
Dopo la batosta subita dal PD alle amministrative in cui molti hanno scelto il proprio voto, o la propria astensione, per motivi politici più che per motivazioni amministrative, i nodi hanno cominciato a venire al pettine e addirittura all’interno dei renziani qualcuno ha osato esprimere i propri dubbi sulla legge voluta dal capo che mal sopporta un doppio controllo parlamentare e che, quindi, a maggior ragione, tollera che qualcuno possa essere in dissenso all’interno del suo stesso partito. Però si è accorto anche lui che questa legge ormai ben difficilmente potrà resistere com’è fino alle prossime elezioni e, pur continuando a dire che mai nulla sarà cambiato, ha mutato visibilmente atteggiamento nei confronti dei suoi che avanzavano l’ipotesi di qualche cambiamento, o che dicevano, come Guerini, frasi assolutamente prive di senso come «L’Italicum non sarà assolutamente toccato, ma siamo pronti a discuterne». Però, visto quello che è successo ieri, Renzi deve essersi dimenticato di parlarne alla fedelissima ministra Boschi.

Nel pomeriggio Arturo Scotto, capogruppo di Sinistra Italiana alla Camera annuncia che i deputati torneranno a occuparsi dell’Italicum a settembre, subito dopo la pausa estiva, con un dibattito su una mozione relativa alla possibile incostituzionalità di alcune parti e sulle conseguenti modifiche da apportare alla legge elettorale. La Boschi risponde che «La conferenza dei capigruppo della Camera non ha calendarizzato la mozione». E Scotto ribatte che forse «La ministra non ha letto bene il programma dei lavori. La mozione sulla revisione dell’Italicum è nella quota di Sinistra Italiana e il governo non può sindacarlo». E Renzi implicitamente gli dà ragione dicendo con la sua solita spocchia che fa capire molto bene il suo concetto di democrazia: «Perché preoccuparsi? È una mozione dell'opposizione che si discuterà in Parlamento: ce ne sono tante...».
 

Il problema vero per Renzi è che non sa ancora come togliersi dall’impiccio che appare per lui il maggiore ostacolo davanti al referendum costituzionale di ottobre: quello del combinato disposto tra la proposta di nuova Costituzione e l’Italicum. E questo suo imbarazzo è tanto vero che di questo combinato disposto lui non parla mai e sul tema tacciono senza eccezioni anche tutti i suoi.

Forse pensa che se lo disinnesca mutando parzialmente la legge elettorale, le sue prospettive referendarie sulla Costituzione e plebiscitarie sulla sua persona cambierebbero in meglio, ma la Costituzione renziana non ha soltanto questo difetto e va cancellata al di là della sopravvivenza, o meno, dell’Italicum. È utile ricapitolare in un breve elenco, pur alla rinfusa, i motivi per cui non deve rovinare il nostro Paese: vengono indeboliti fortemente gli organi di garanzia che sono fondamentali in un sistema che per le leggi ordinarie diventa, oltre che maggioritario, anche praticamente monocamerale; crea un monstrum indecifrabile nel nuovo Senato che, a detta di Renzi e della Boschi, viene cambiato anche per risparmiare, mentre in realtà le spese senatoriali diminuirebbero soltanto di un 10 per cento; è scritta talmente male che è di difficilissima interpretazione e, infatti, rimanda aspetti fondamentali a leggi ordinarie da stabilire più avanti; con il discorso sulle autonomie svuota di senso l’articolo 5 della Costituzione che, tra l’altro, si trova tra quei Principi fondamentali che teoricamente non sarebbero toccati; ritocca all’insù il numero di firme necessarie per avere un referendum, o una legge di iniziativa popolare per rendere più difficile, anche in questi campi, disturbare il manovratore; non fa aumentare la velocità della produzione legislativa perché è già troppo elevata visto che il totale delle leggi approvate dal nostro Parlamento è da sempre considerato abnorme e straripante rispetto alle legislazioni di tutte le altre democrazie occidentali.

Tenendo poi presente che tutte le poche cose apprezzabili del nuovo testo costituzionale potevano essere approvate a larghissima maggioranza dal Parlamento senza scomodare un referendum, ma che così non è stato fatto proprio per mettere qualche specchietto per le allodole in una trappola pericolosissima, mi piacerebbe ricordare che ogni legge va giudicata non per la velocità con cui è approvata, ma per i benefici che porta ai cittadini. E questo vale anche e soprattutto per la Costituzione.

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giovedì 23 giugno 2016

Idee e ideologie

Vorrei davvero sbagliarmi, ma credo che chi si attende novità sostanziali dalla direzione PD di domani, rimarrà profondamente deluso. Anzi, ci sarà il rischio che la minoranza del partito, nella cronica ansietà di non veder sfasciare completamente quel che resta del PD, possa accontentarsi di parole e promesse, o, al massimo di briciole di facciata più che di sostanza.
Per rendersene conto basta leggere due interviste apparse su Repubblica: la prima, ieri, a Romano Prodi; la seconda, oggi, a Marianna Madia, ministra del governo Renzi che finora si era fatta notare più per la sua silenziosa presenza, che per l’eloquio politico. A parte la differenza di spessore e di chiarezza nelle argomentazioni, mentre Prodi attacca decisamente il vero nodo della questione, che è in massima parte politico e nazionale, la Madia interviene per difendere il suo presidente del Consiglio e, quindi, se stessa, incolpando della sconfitta soltanto le evenienze locali, fino a chiedere la testa di Matteo Orfini, ex “giovane turco” e già diventato “vecchio democristiani”, come commissario del PD romano. Per la Madia a essere decisive sono state l’incapacità dei maggiorenti locali del PD di mettersi in sintonia con la gente «delle periferie» e la difficoltà di spiegare bene le riforme renziane che, a sua detta, sono bellissime.

Non una parola della Madia su quello che è, invece, il nucleo del pensiero di Prodi: «I populisti crescono perché c’è troppa ingiustizia. L’ascensore sociale è bloccato e dentro si soffoca». Un dato di fatto che è anche, in buona parte, assieme alle contrarietà diffusa all’Italicum e alla riforma costituzionale di marca Renzi–Boschi, il motivo di una sconfitta che non va trovato tanto in coloro che, invece di votare PD hanno scelto i 5stelle, ma soprattutto in quelli che, ritenendo di non avere più un simbolo di centrosinistra da barrare, hanno preferito restarsene a casa. Se non ci credete, fermatevi per un momento sul precipitare delle affluenze al voto.

Il problema di Renzi e del renzismo, come di altri, è che non sono mai riusciti a comprendere la differenza tra idee e ideologie, perché abbattere alcune ideologie – che sono la forzatura assolutizzante delle idee a scopo di dominio politico – può anche essere commendevole, visti i disastri che hanno prodotto, ma questi nuovi conducatores della politica non soltanto nostrana, nel voler distruggere le ideologie hanno cancellato anche le idee. E così sono finite in soffitta la ricerca della giustizia sociale, i diritti, il lavoro, la dignità sociale, l’eguaglianza, la libertà, la partecipazione, l’autonomia, la rappresentatività, lo sviluppo e altre cosucce che, guarda caso, si trovano tutte nei primi 12 articoli della nostra Costituzione, quelli dei Principi fondamentali. La beffa, poi, è che loro un’ideologia ce l’hanno ed è anche vecchia, visto che si tratta del mito dell’uomo solo al comando.

Ne consegue che senza idee si finisce inevitabilmente per privilegiare gli spot sperando che la gente non si accorga che sono soltanto specchietti per le allodole. Un esempio? La distribuzione degli 80 euro, magari poi chiedendoli indietro perché con gli 80 euro si supera la soglia oltre la quale non se ne ha diritto, dichiarando che così qualcuno potrà pagare qualche bolletta e magari anche andare a mangiare una pizza (aveva detto proprio così). Senza rendersi conto, invece, che quello che alla gente – e non solo a quella più povera – non manca una pizza in più ogni tanto, ma la speranza che questa crisi abbia una fine, che tutti gli italiani possano riprendere a curarsi, che i genitori tornino a sperare che i propri figli possano vivere meglio di loro, che in generale si proceda verso un mondo in cui ci sia meno disequilibrio sociale e meno disonestà.

Poi leggi altre interviste. In una Speranza dice che «ora serve più sinistra» e Renzi gli risponde che «è necessario dare un stop alle correnti», come se avere un concetto sociale diverso dal suo non fosse una questione di pensiero, ma soltanto di poltrone. In un’altra il senatore Maran, vicecapogruppo del PD, e quindi renziano di ferro, dice che, per superare la crisi, il PD deve continuare «il percorso di rottamazione» rifiutandosi di tornare ai «valori di riferimento della sinistra». Confermando implicitamente, tra l’altro, che il PD di centrosinistra assolutamente non è.

Ho sempre odiato il termine “rottamazione” se applicato alle persone e, infatti, i miei primi blog contro Renzi li ho scritti proprio accusandolo di trattare, per suo comodo, gli esseri umani con la stessa sensibilità che ha per le macchine. Ora, adeguandomi per un solo momento al suo linguaggio e scusandomene con i miei lettori, vorrei far notare a tutti i renziani che nel mondo dell’industria non vengono rottamati soltanto gli elementi usurati, ma anche quelli che hanno dei malfunzionamenti fin dall’inizio.

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lunedì 20 giugno 2016

Non solo numeri

Se, dopo le elezioni, i numeri sono importanti per capire chi ha vinto e chi ha perso, le dichiarazioni del dopovoto sono fondamentali per valutare se il responso delle urne è stato utile a far comprendere ai perdenti il perché di quel risultato. Ebbene, a prima vista, sembra che a Renzi questa batosta non sia servita a nulla, né come segretario che dovrebbe guardare al fronte interno del PD, né come presidente del Consiglio che dovrebbe curarsi soprattutto del bene del Paese.

Cominciamo dai numeri. Sulla debacle di Roma c’è ben poco da dire e quella di Napoli si era già materializzata addirittura al primo turno. A Bologna vince un sindaco che renziano davvero non è e che comunque è stato costretto ad andare al ballottaggio in una città tradizionalmente di sinistra; il miracolo non è riuscito a Cosolini, sia perché Trieste tanto di sinistra non è, sia in quanto il sindaco uscente si è barcamenato tra renziani e antirenziani. Restano la vittoria di Milano, in cui Sala ce l’ha fatta soltanto perché Pisapia gli è rimasto sempre vicino a garantire che rappresentava anche la sinistra, e la sconfitta di Torino il cui risultato è il più utile per capire davvero la dinamica di queste amministrative. Fassino, infatti, ha perso pur essendo stato, a detta di tutti, un ottimo sindaco. Al ballottaggio ha ottenuto più o meno gli stessi voti del primo turno, mentre la Appendino ha sommato i voti grillini a quelli di destra. Voglia di far perdere il centrosinistra? Certamente sì, ma anche e soprattutto incapacità di far andare a votare i tantissimi elettori di sinistra che a Torino esistono ancora, ma che non riescono più a fare la croce sul simbolo di un partito che di sinistra più non è.

Davanti a tutto questo, cosa fa Renzi? Per prima cosa anticipa, come chiaro ulteriore segnale di guerra, la convocazione della direzione nazionale da lunedì 27 a venerdì 24, giorno in cui era già stata convocata l’assemblea delle forze della sinistra PD. Poi se ne esce con una frase molto chiarificatrice: «Non è mancata la sinistra, perché la sinistra non c’è. Non c’è stato, invece, lo sfondamento al centro», a significare che per lui non è importante quella parte di elettorato che ha sempre rappresentato l’anima del primo PD, ma quella nuova che gli ha assicurato l’elezione a segretario del partito, carica dalla quale gli è stato facile andare all’attacco e alla defenestrazione di Letta per arrivare dove da sempre voleva arrivare.

Ma anche altre dichiarazioni sono molto importanti per comprendere meglio quale persona ci troviamo davanti: «La sconfitta a Torino e Roma – dice – è senza attenuanti. Ma lo ripeto: non è un voto nazionale, bensì locale. Non cambio certo idea perché abbiamo perso e chiaramente non mi dimetto, né da Palazzo Chigi, né da segretario del Pd. La minoranza chiede il congresso? Si accomodino. Tanto ci vuole un po' di tempo e non si può fare prima del 2 ottobre».

Perché cita questa data? Semplice perché adesso ufficializza che vorrebbe anticipare il più possibile, per tutta una serie di motivi, la data del referendum che considera decisivo per il suo destino, che definisce «la partita con la P maiuscola», come se veramente la cosa più importante fosse il suo destino politico e non il futuro democratico dell’Italia. E, infatti, dicono che ai suoi fedeli abbia ribadito: «Se perdo il referendum, il congresso non mi tocca. Se vinco nessuno tocca me».

Il primo motivo dell’anticipo riguarda la decisione della Corte Costituzionale sul ricorso presentato dal tribunale di Messina che ha sollevato forti dubbi di costituzionalità contro la nuova legge elettorale, l’Italicum, che ha notevoli rassomiglianze, sia sul premio di maggioranza, sia sui troppi nominati, con il famigerato Porcellum, già dichiarato incostituzionale proprio su questi due punti. Ove la sentenza di incostituzionalità dovesse arrivare prima del referendum costituzionale, dal punto di vista di Renzi sarebbe un ulteriore forte indebolimento di una posizione già scarsa di capacità razionali in un confronto diretto con i sostenitori del no.

Il secondo motivo è strettamente collegato a quest’ultimo aspetto. Infatti per il sì la debolezza di argomentazioni che vadano al di là di quella che sostiene che sarebbe più facile governare, induce inevitabilmente ad accelerare il più possibile i tempi, anche tentando di ridurre al massimo le occasioni di informazione e di confronto sui temi della sciagurata riforma costituzionale e dell’ancor più sciagurato combinato disposto tra riforma costituzionale e nuova legge elettorale.

Non si sa cosa potrà fare ora Renzi per arginare la delusione di un partito che in buona parte finora aveva accettato il suo dilagante decisionismo perché lo considerava un vincente e che ora deve fare i conti con la doccia gelata di una sconfitta senza attenuanti. E dovrà anche stare attento a non perdere i tanti sostegni che aveva avuto dalla destra che è sempre alla ricerca dell’uomo forte e che adesso, dopo aver perduto Berlusconi, rischia di perdere anche Renzi.

Taluni dicono che, per recuperare la fronda interna, potrebbe accettare di cambiare l’Italicum, ma neppure quello può essere cambiato prima del 2 ottobre e inoltre, oltre a essere una confessione di debolezza, apparirebbe davvero troppo evidente che le regole che vuole fare e disfare non sono mai per il bene dell’Italia, ma, pur se in una visione veramente miope, per il bene suo.

Le prossime due o tre settimane saranno decisive per molti, anche tra le schiere dei renziani. Ci piacerebbe sapere, per esempio, se, dopo aver guardato le cose dalla parte del bene del Paese e non dalla parte del bene di Renzi, il ministro Franceschini direbbe ancora che votare NO al referendum costituzionale «è un vero atto contro il Paese», o se il deputato Coppola se la sentirebbe ancora di sostenere che «chi dice no è un irresponsabile».

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martedì 7 giugno 2016

Il paradosso dei due Renzi

Come sempre, il linguaggio usato dalle persone è fortemente rivelatore della loro personalità, del loro pensiero, dei loro progetti. «Noi non siamo contenti», ha detto Renzi commentando i risultati del primo turno delle amministrative. Può sembrare del tutto normale, anzi, apprezzabile; ma, a starci attenti, ci si rende conto che per il presidente pro tempore del Consiglio l’uso della prima persona plurale non è assolutamente abituale. Normalmente dice: «Ho fatto…», «Ho voluto…», «Il mio governo…». Questa volta, invece, le frasi sono sul tipo: «Non siamo riusciti a farci capire…», «Non siamo soddisfatti…». Poi, per separare ancor più nettamente il risultato negativo dalla propria persona, annuncia che alla direzione del Pd, dopo i ballottaggi, proporrà il commissariamento del Pd napoletano, quasi che fosse stato un partito diverso dal suo a decidere che lo scandalo delle primarie andava ignorato pur di far candidare la Valente, di strettissima osservanza renziana.
In realtà Renzi ha ragione quando afferma che le elezioni locali non devono avere ripercussioni sul destino del governo nazionale, ma fa finta di dimenticare un particolare che finora, invece, aveva sfruttato fino in fondo e cioè che lui, oltre che essere presidente del Consiglio, è anche segretario politico del PD e che il PD è riuscito a non far eleggere al primo turno nessun proprio candidato sindaco nelle grandi città, neppure a Bologna; che a Napoli è rimasto addirittura fuori dal ballottaggio, che a Roma è distanziato fortemente dai 5 stelle e che se la destra si fosse presentata unita nella capitale probabilmente Giachetti avrebbe già finito la sua corsa al primo turno, che anche a Trieste il centrodestra è in forte vantaggio, che i grillini minacciano il successo dem persino a Torino, che a Milano inopinatamente la destra è riuscita praticamente a pareggiare con un PD che ha scelto un candidato inequivocabilmente non di centrosinistra.

Se, quindi, il Renzi presidente del Consiglio potrebbe dormire sonni tranquilli, il Renzi segretario del PD dovrebbe avere le notti popolate da incubi perché in altri tempi e in partiti normali un simile risultato avrebbe portato – magari attendendo le due settimane che ci separano dal ballottaggio – alla defenestrazione di chi ha guidato il partito a un simile disastro.

Ma a impedire tutto questo ci sono due cose. La prima è il fatto che di congresso si parlerà soltanto il prossimo anno. La seconda è dovuta al paradosso esistente nello statuto del PD laddove, all’articolo 3, comma 1, è scritto che «Il segretario nazionale è proposto dal Partito come candidato all’incarico di presidente del Consiglio dei ministri». Ne deriva che se Renzi dovesse lasciare a qualcun altro la carica di segretario del Partito, automaticamente sarebbe quest’ultimo ad avere diritto, secondo il PD, di salire a palazzo Chigi.

È ben vero che lo statuto non specifica se il cambio debba avvenire subito, o possa essere rimandato nel tempo, magari lasciando al Presidente della Repubblica un potere che ancora la Costituzione gli attribuisce, ma sarebbe difficile non ricordare che quando Renzi è diventato segretario, pur dicendo «Stai sereno», non ha lasciato né tempo, né spazi a Enrico Letta e gli ha sfilato, con l’aiuto di Napolitano che ha dettato forse non troppo costituzionalmente alcune sue condizioni, la poltrona di capo del governo.

Non è che tutto questo possa essere dimenticato soltanto usando per i verbi la prima persona plurale al posto della prima persona singolare.

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mercoledì 1 giugno 2016

Che pochi quelli che tifano Renzi!

Anche oggi sono stato martellato dalle comunicazioni di Renzi. Ormai succede ogni giorno e sarebbe il caso di ricordare a chi di dovere che esiste quella cosa chiamata par condicio che, se vale per le elezioni, a maggior ragione dovrebbe valere per appuntamenti importanti come un referendum costituzionale.
L'ex concorrente alla Ruota della fortuna ha cominciato con una lunghissima mail nella quale il presidente pro tempore del Consiglio decanta a lungo tutte le cose bellissime che ha fatto, o, meglio, che ha promesso di fare. Confesso che la cosa mi ha rasserenato perché mi stavo domandando come mai, nella sua puntigliosa corsa a copiare Berlusconi, Renzi non avesse ancora realizzato un libretto sullo stile del famigerato “Una storia italiana” regalato dall’allora ancora cavaliere a tutte le famiglie italiane per far vedere quanto bravo era. Grazie ai nuovi mezzi di comunicazione e a causa di una disponibilità di denaro sicuramente inferiore Renzi ha scelto lo strumento informatico. Ma non preoccupatevi: il tono agiografico e autolaudativo è assolutamente identico, come siamo sicuri che sarà anche assolutamente identica anche l’occupazione sproporzionata e spropositata degli spazi televisivi Rai e di quelli istituzionali.

Seconda razione di Renzi, invece, via Facebook dove, riferendosi al referendum di ottobre, scrive: «Oggi oltre duecento donne e uomini di scienza e ricerca hanno firmato un appello per il sì alla riforma costituzionale, sfida decisiva per la stabilità istituzionale del nostro Paese». E continua: «Ieri anche una delle più grandi realtà associative del Paese, la Coldiretti, ha ufficializzato il proprio sì. E nei giorni scorsi duecento professori di diritto hanno spiegato nel merito le ragioni costituzionali di questa scelta. Si rassegni chi si ostina a parlare di battaglia personale: una parte importante del Paese si sta schierando – al di là di ogni colore politico – perché l’Italia diventi più semplice».

Su questo testo merita fermarsi un po’ di più. Oltre duecento donne e uomini di scienza e ricerca? Perbacco: forse sbagliavamo quando eravamo convinti che le donne e gli uomini di scienza e ricerca fossero svariate migliaia? Oppure, pur con i suoi mezzi di pressione, il presidente pro tempore del Consiglio è riuscito a convincere a firmare soltanto pochi?

Altrettanti sarebbero i professori di diritto? Qui, al di là delle medesime considerazioni di cui sopra, vorrei ricordare che contro si sono schierati fin da subito oltre sessanta costituzionalisti di primaria importanza e addirittura tredici presidenti emeriti della Corte Costituzionale. Inoltre, se Renzi ha davvero tanti esperti bravi nel difendere le tesi del capo, cerchi di mandare in giro per le televisioni e per le manifestazioni organizzate dal PD almeno qualcuno che sia in grado di entrare nel merito senza balbettare e senza nemmeno sapere di cosa si sta parlando.

Poi, se la Coldiretti è beatificata perché ha ufficializzato il proprio sì come realtà associativa, perché altre realtà associative come l’ANPI, la FIOM, l’ARCI e altre vengono demonizzate dallo stesso Renzi e dai suoi che affermano che non devono permettersi di influenzare i propri iscritti?

Ultima cosa, almeno per il momento. Renzi parla di un’Italia più semplice e questa frase punta a solleticare tutti coloro che si trovano quotidianamente davanti a una burocrazia straripante, ma la realtà è ben diversa. Con la riforma costituzionale Renzi non punta a semplificare la vita degli italiani, ma soltanto a semplificare il suo lavoro, togliendo di mezzo il maggior numero possibile di controlli al suo operato. Quando ho letto il titolo di un dibattito “Democrazia semplificata o deriva autoritaria”, ho pensato che era sbagliato, ma che per correggerlo bastava sostituire la “o” con una “è” accentata: “Democrazia semplificata è deriva autoritaria”.


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