Che la sinistra
PD prenda in giro noi elettori che ancora faticosamente crediamo nella
sinistra e nel centrosinistra è cosa risaputa, ma che continuino a
prendere in giro anche se stessi, e in maniera sempre più feroce,
continua in qualche modo a riuscire a sorprenderci.
Il plurinquisito Denis Verdini,
attuale capofila di Ala e recente consigliere privilegiato di
Berlusconi, incontra i capogruppo del PD Ettore Rosato, per la Camera,
Luigi Zanda, per il Senato, e il vicesegretario Lorenzo Guerini. Manca –
è vero – il segretario Matteo Renzi, ma, visto il grado di cupidigia di
servilismo dei tre, è come se fosse presente. È, in pratica, la
ratifica formale di un dato di fatto già avvenuto nelle aule
parlamentari e soprattutto in Senato dove Renzi, senza l’appoggio di
Verdini, non avrebbe passato un paio di voti di fiducia.
E davanti a tutto questo, Speranza e
compagni (scusate se li chiamo così, ma la parola non sembra avere più
alcun significato politico) cosa trovano da eccepire? Si assicurano che
l’incontro non avvenga nella sala Enrico Berlinguer di Montecitorio,
quella dove si riuniscono i deputati del PD, ma nell’ufficio di Rosato –
che con Berlinguer e con la sinistra non ha mai avuto nulla da spartire
– e poi si limitano a ripetere le solite litanie nelle quali dicono di
essere in ambasce perché temono che il PD possa non essere più un
partito di centrosinistra, ma una specie di Partito della Nazione.
Se qualcuno li conosce di persona e
sa come arrivarci velocemente, sarebbe il caso di avvertire Speranza,
Bersani, Cuperlo e tutti gli altri che stanno loro più o meno vicini che
quello che loro dicono di temere è già da tempo che si è verificato.
Inoltre, se davvero tengono alla memoria di Berlinguer in maniera seria e
non soltanto con l’attenzione che la sala a lui dedicata non venga
“profanata” da Verdini, ma soprattutto dalle commistioni con la destra,
non restano loro che due strade: o buttare fuori dal tempio i mercanti
che sono guidati da Renzi, o abbandonare il tempio già da tempo e già
abbondantemente profanato per andare a costruirne un altro.
Verdini, con un sorriso ancora più
smagliante di quello che di solito “indossa”, è entrato da Rosato per
chiedere un riconoscimento politico dicendo, con il suo solito buon
gusto: «Non siamo mica dei clandestini». Ed è uscito da quell’ufficio
sogghignando: «Non siamo in maggioranza; l’opposizione dice che non
siamo all’opposizione… Dove siamo, allora? Siamo in Paradiso». Ed è una
definizione azzeccatissima, se per Paradiso, si intende quel posto, come
diceva Dante, «dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare».
Soprattutto se si vuole fare una legge sulla prescrizione che sia più di
apparenza che di sostanza perché non tocca l’unico punto seriamente
necessario e capace di dissuadere gli avvocati dal ritardare il più
possibile qualsiasi procedimento pur di arrivare all’agognata meta della
scadenza dei termini di prescrizione, appunto: quello di bloccare la
prescrizione con il rinvio a giudizio. E a Verdini tutto questo
interessa molto, tanto da dare abbondanti voti in cambio.
E Speranza – per chi crede nella
sinistra, sempre più l’unico ossimoro fatto di una parola soltanto –
cosa trova da dire? Ineffabile, afferma: «Lo dico a Renzi e alla
segreteria: quando Verdini si accosta al PD ne abbiamo un danno
elettorale». Danno elettorale? E di scomparsa di valori vogliamo
parlarne? Ma davvero Speranza pensa che il PD perda voti a causa di
Verdini e non, in prima battuta, proprio a causa dei suoi dirigenti? Si
ricorda Speranza che quando c’è stato il crollo di affluenza in
Emilia–Romagna Verdini era ancora con Berlusconi?
Vuole Speranza finirla di prendere
in giro quelli che avrebbero potuto essere suoi elettori? E vuole
finirla di far finta di prendere in giro anche se stesso?
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sabato 30 aprile 2016
giovedì 28 aprile 2016
I soldi e le idee
La notizia non
ottiene titoli roboanti che vengono destinati, invece, alla corsa alla
presidenza del Comitato per il sì che vede in lizza nomi come
Napolitano, Violante, Finocchiaro, Castagnetti e Bassanini (sì, proprio
quello dell'infausto Titolo V). Però è una notizia su cui merita
riflettere. I gruppi parlamentari del PD, infatti, oggi dovrebbero
approvare un primo stanziamento di 200 mila euro in favore della
propaganda per la conferma della riforma costituzionale firmata da Maria
Elena Boschi, ma voluta da Matteo Renzi.
Anzi, per non restare nel vago, merita riportare le parole del tesoriere del PD, senatore Mauro Del Barba che, in maniera molto democratica, parla con grande sicurezza al passato, ma quando lo stanziamento deve ancora avvenire: «I soldi stanziati dai gruppi parlamentari del PD per la campagna referendaria di Jim Messina riguardano l’informazione istituzionale sulla riforma». Una frase che solleva qualche domanda e sollecita alcune riflessioni.
Per prima cosa, chi è Jim Messina? È un guru della propaganda; è il capo del team che ha guidato la seconda campagna elettorale di Barak Obama nel 2012 e già a gennaio è stato ingaggiato dal segretario del PD per sostenere la campagna referendaria, e soprattutto anche il destino politico del segretario stesso che vuole, a tutti i costi, trasformare un referendum costituzionale in un plebiscito sulla sua persona teorizzando una specie di «Dopo di me, il diluvio», teoricamente molto più adatto a un monarca non troppo illuminato, come Luigi XV di Francia, che a un presidente del Consiglio pro tempore.
Da quanto si sa a Messina andrebbe direttamente metà dello stanziamento iniziale, mentre l’altra metà servirebbe per quella che Del Barba definisce “l’informazione istituzionale sulla riforma”.
Già molto si potrebbe dire sul fatto che qualcuno che vuole cambiare la nostra democrazia sia convinto che davvero la politica possa essere sostituita con il marketing, che il consenso su un argomento tanto importante possa scaturire da una grande capacità promozionale. Ma vorrei soprattutto ricordare che la cosiddetta “informazione istituzionale” dovrebbe essere più esattamente chiamata, come una volta, “pubblicità promozionale” e che è stata usata largamente anche da Berlusconi quando ha cominciato a vedere scemare il suo consenso non portandogli, però, molta fortuna. E inoltre, oltre che lo stesso Berlusconi, anche Rutelli e Monti hanno usato la carta del consulente di marketing pescato all’estero, ma sapete tutti che fine hanno fatto.
Mi domando, poi, come la sinistra del PD rappresentata in Parlamento possa accettare in silenzio che il denaro dei gruppi parlamentari possa essere speso in un’operazione contro la quale, almeno a parole, quella parte del PD si schiera. E mi chiedo anche come gli esponenti della minoranza del partito possano pensare di parlare ancora a coloro che credono nei valori costituzionali e della sinistra senza essere sommersi da pernacchie.
Ma torniamo alla cosiddetta “informazione istituzionale” che implica uno spazio di tempo a disposizione per dire esattamente ciò che si ritiene più utile dire – per fare, cioè, propaganda – evitando accuratamente di mettere a confronto le proprie idee con quelle di chi la pensa in maniera diversa. E questo sembra un punto fermo visto che finora i tentativi fatti dai Comitati per il no di mettere in piedi dei dibattiti sull’argomento della cosiddetta riforma costituzionale sono miseramente naufragati di fronte al deciso rifiuto a partecipare da parte degli esponenti del sì.
La sensazione è che ancora una volta si assisterà a uno scontro tra propaganda e informazione, tra soldi e idee. Si potrebbe pensare che chi ha più potere dovrebbe inevitabilmente vincere, ma la storia dei referendum italiani è fortunatamente diversa. Basterebbe ricordare cos’è successo per i quesiti su divorzio e aborto, pur essendoci dall’altra parte la possente macchina propagandistica della Chiesa, o, per venire a tempi più recenti, al risultato del referendum sull’acqua pubblica che ha visto perdere forti potentati economici che ora la politica al governo, dopo aver perso il referendum, tenta comunque di privatizzare con i soliti mezzucci e trucchetti di vocabolario più che di sostanza.
Fortunatamente quando si verifica uno scontro tra soldi e idee, quasi sempre il sonnacchioso popolo italiano si sveglia, supera la disaffezione per le urne, e, pur con la storica fatica di chi soldi non ne ha molti, se queste idee hanno la caratteristica di aiutare il popolo e la democrazia, le fa vincere.
Tutti gli “Eppure…” li puoi trovare anche all’indirizzo http://g-carbonetto.blogspot.it/
Anzi, per non restare nel vago, merita riportare le parole del tesoriere del PD, senatore Mauro Del Barba che, in maniera molto democratica, parla con grande sicurezza al passato, ma quando lo stanziamento deve ancora avvenire: «I soldi stanziati dai gruppi parlamentari del PD per la campagna referendaria di Jim Messina riguardano l’informazione istituzionale sulla riforma». Una frase che solleva qualche domanda e sollecita alcune riflessioni.
Per prima cosa, chi è Jim Messina? È un guru della propaganda; è il capo del team che ha guidato la seconda campagna elettorale di Barak Obama nel 2012 e già a gennaio è stato ingaggiato dal segretario del PD per sostenere la campagna referendaria, e soprattutto anche il destino politico del segretario stesso che vuole, a tutti i costi, trasformare un referendum costituzionale in un plebiscito sulla sua persona teorizzando una specie di «Dopo di me, il diluvio», teoricamente molto più adatto a un monarca non troppo illuminato, come Luigi XV di Francia, che a un presidente del Consiglio pro tempore.
Da quanto si sa a Messina andrebbe direttamente metà dello stanziamento iniziale, mentre l’altra metà servirebbe per quella che Del Barba definisce “l’informazione istituzionale sulla riforma”.
Già molto si potrebbe dire sul fatto che qualcuno che vuole cambiare la nostra democrazia sia convinto che davvero la politica possa essere sostituita con il marketing, che il consenso su un argomento tanto importante possa scaturire da una grande capacità promozionale. Ma vorrei soprattutto ricordare che la cosiddetta “informazione istituzionale” dovrebbe essere più esattamente chiamata, come una volta, “pubblicità promozionale” e che è stata usata largamente anche da Berlusconi quando ha cominciato a vedere scemare il suo consenso non portandogli, però, molta fortuna. E inoltre, oltre che lo stesso Berlusconi, anche Rutelli e Monti hanno usato la carta del consulente di marketing pescato all’estero, ma sapete tutti che fine hanno fatto.
Mi domando, poi, come la sinistra del PD rappresentata in Parlamento possa accettare in silenzio che il denaro dei gruppi parlamentari possa essere speso in un’operazione contro la quale, almeno a parole, quella parte del PD si schiera. E mi chiedo anche come gli esponenti della minoranza del partito possano pensare di parlare ancora a coloro che credono nei valori costituzionali e della sinistra senza essere sommersi da pernacchie.
Ma torniamo alla cosiddetta “informazione istituzionale” che implica uno spazio di tempo a disposizione per dire esattamente ciò che si ritiene più utile dire – per fare, cioè, propaganda – evitando accuratamente di mettere a confronto le proprie idee con quelle di chi la pensa in maniera diversa. E questo sembra un punto fermo visto che finora i tentativi fatti dai Comitati per il no di mettere in piedi dei dibattiti sull’argomento della cosiddetta riforma costituzionale sono miseramente naufragati di fronte al deciso rifiuto a partecipare da parte degli esponenti del sì.
La sensazione è che ancora una volta si assisterà a uno scontro tra propaganda e informazione, tra soldi e idee. Si potrebbe pensare che chi ha più potere dovrebbe inevitabilmente vincere, ma la storia dei referendum italiani è fortunatamente diversa. Basterebbe ricordare cos’è successo per i quesiti su divorzio e aborto, pur essendoci dall’altra parte la possente macchina propagandistica della Chiesa, o, per venire a tempi più recenti, al risultato del referendum sull’acqua pubblica che ha visto perdere forti potentati economici che ora la politica al governo, dopo aver perso il referendum, tenta comunque di privatizzare con i soliti mezzucci e trucchetti di vocabolario più che di sostanza.
Fortunatamente quando si verifica uno scontro tra soldi e idee, quasi sempre il sonnacchioso popolo italiano si sveglia, supera la disaffezione per le urne, e, pur con la storica fatica di chi soldi non ne ha molti, se queste idee hanno la caratteristica di aiutare il popolo e la democrazia, le fa vincere.
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sabato 23 aprile 2016
La sincerità di Davigo
Conosco Piercamillo Davigo da molti anni e ho tanta stima della sua persona che non mi è possibile restare in silenzio mentre la cosiddetta politica si scaglia contro di lui. E questo non per cercargli scuse di cui non ha sicuramente bisogno, ma soltanto per ristabilire la verità di quello che ha detto e, conseguentemente, per mettere nella giusta luce le repliche che sono arrivate a pioggia.
Il neoeletto presidente dell’Associazione nazionale magistrati, a leggere l’intervista sul Corriere e le sue dichiarazioni all’Università di Pisa, ha detto alcune cose che qui di seguito riassumo. «I politici non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto ».
Poi: «La situazione è peggiorata rispetto a Tangentopoli».
E ancora: «La classe dirigente di questo Paese, quando delinque, fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente di strada; e fa danni enormi».
Tutte affermazioni molto difficili da controbattere. E, infatti, le violente reazioni, da Matteo Renzi in giù, si attestano su due altri argomenti. Il primo dice che non è giusto dire che tutti i politici rubano. Il secondo, invece, sostiene che non bisogna alimentare lo scontro tra politica e magistratura.
Il primo argomento è usato in maniera chiaramente strumentale perché Davigo non si è mai sognato di affermare che tutti i politici rubano; anzi. Nell’intervista al Corriere, gli chiedono: «Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti. Lo disse davvero?». Ed egli risponde: «Certo. Ma in un contesto preciso. Mi citano fuori contesto per farmi passare per matto. Parlavo di appalti contrattati tra partiti e imprese: chiunque avesse avuto un ruolo in quel sistema criminale, non poteva essere innocente; uno onesto nel sistema non ce lo tenevano». E chi lo ha sentito nelle varie volte che è venuto a parlare in regione ricorderà certamente che spesso ha detto che «Non è accettabile la frase che dice: “Sono tutti ladri”. Se la sento dire, mi arrabbio e ribatto che io non rubo».
Il secondo argomento, invece, sa di antica voglia di non far venire a galla le cose che non vanno; non per eliminarle dalla realtà, ma semplicemente dalla vista. Davigo non alza il livello di scontro con la politica; semplicemente mette in rilievo alcune realtà incontrovertibili: «Prendere i corrotti è difficilissimo. Nessuno li denuncia, perché tutti hanno interesse al silenzio: per questo sarei favorevole alla non punibilità del primo che parla. Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati». E anche per questo difende le intercettazioni dall’ennesimo attacco volto a depotenziarle.
Per capire come si comporta Davigo è utile ricordare che un giornalista gli ha chiesto: «Perché il giorno della sua elezione all’Anm, parlando di Renzi, ha detto: “Quel ‘brr che paura’, rivolto alla magistratura è una cosa che non mi è piaciuta per niente”?». E il neopresidente di Anm ha risposto: «Perché non mi è piaciuta per niente». Insomma una risposta che dimostra ancora una volta che predilige la verità alla diplomazia.
Ora è questo il punto: la verità non serve per essere detta a qualsiasi costo e fine a se stessa, ma perché senza verità è addirittura inutile cominciare a discutere, se si vuole costruire qualcosa. È chiaro che chi è al vertice e preferisce comandare piuttosto che governare non ama particolarmente la verità, ma è altrettanto chiaro che, se si vuole tentare di uscire dalla palude nella quale ci siamo cacciati, la verità qualcuno deve pur cominciare a dirla. E soprattutto nel campo della giustizia dove la verità – per quanto è umanamente possibile – dovrebbe essere inscindibile dalle indagini, dai procedimenti e dalle sentenze. Sulla verità in politica, invece, il discorso è più complesso in quanto la politica è diventata sempre più propaganda e sempre meno convinzione nei valori nel nome dei quali si dice di agire. Quindi, proprio come nella pubblicità, la verità diventa un orpello spesso inutile, se non addirittura dannoso.
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giovedì 21 aprile 2016
Un desiderio per il 25 aprile
Nessuno può
appropriarsi della festa del 25 aprile che, ancor prima e ancor più del 2
giugno è, secondo me, la vera festa nazionale italiana. Nessuno può
appropriarsene e, quindi, tantomeno io. Ma un desiderio vorrei proprio
esprimerlo: mi piacerebbe che dei valori della Resistenza non parlassero
né coloro che vogliono cambiare la Costituzione, né quelli che, con
varie motivazioni, o per logica di partito, voteranno a favore di questo
cambiamento.
Vorrei che avessero il buon gusto di non farlo perché hanno detto che una delle motivazioni che li hanno spinti è che i padri costituenti hanno commesso degli “errori costituzionali”. E lo hanno detto per giustificare lo scempio che stanno tentando di fare della nostra Costituzione, per distruggerne gli equilibri istituzionali, anche se sanno benissimo che non di “errori” costituzionali si è trattato, ma di scelte politiche e sociali razionali e che la Carta fondamentale adottata ha consentito di raggiungere una democrazia solida, la pace interna, un perimetro politico ben chiaro per contenere lo scontro tra i partiti e, se permettete, anche il raggiungimento di un benessere materiale che – sarà casuale – ha cominciato a scemare proprio quando l’impianto istituzionale entrato in vigore il primo gennaio 1948 ha cominciato a subire i poderosi colpi di chi voleva accentrare il potere nelle mani dell’esecutivo a scapito di tutti gli altri poteri, compreso quello del popolo, cioè la democrazia. Praticamente, procedendo sulla medesima strada, ha cominciato a camminare Craxi, ha continuato Berlusconi e spera di portare alla conclusione questa vergogna Renzi.
Ricordo che alcuni anni fa ho scritto che il partigiano Enzo Biagi sui monti dell’Appennino emiliano aveva compreso l’enorme valore del “diritto di resistenza” e ne aveva fatto tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della sua vita personale e professionale. E continuavo dicendo che il 25 aprile non poteva appartenere contemporaneamente a Enzo Biagi e a chi lo aveva fatto cacciare dalla Rai con un editto dalla Bulgaria. Perché la Resistenza non è di tutti.
Oggi non posso non ricordare che i padri costituenti erano per la maggior parte donne e uomini che avevano partecipato in prima persona alla Resistenza, mentre chi li accusa di aver sbagliato è uno che è riuscito ad arrampicarsi dove è ora senza neppure essere stato mai eletto.
Forse, a pensarci bene, un errore i padri costituenti lo hanno davvero commesso: quello di aver lasciato aperto un pertugio istituzionale nel quale Renzi è riuscito a infilarsi senza essere mai stato mandato lì dagli italiani. Ma anche in questo caso la Resistenza continua a non essere di tutti.
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Vorrei che avessero il buon gusto di non farlo perché hanno detto che una delle motivazioni che li hanno spinti è che i padri costituenti hanno commesso degli “errori costituzionali”. E lo hanno detto per giustificare lo scempio che stanno tentando di fare della nostra Costituzione, per distruggerne gli equilibri istituzionali, anche se sanno benissimo che non di “errori” costituzionali si è trattato, ma di scelte politiche e sociali razionali e che la Carta fondamentale adottata ha consentito di raggiungere una democrazia solida, la pace interna, un perimetro politico ben chiaro per contenere lo scontro tra i partiti e, se permettete, anche il raggiungimento di un benessere materiale che – sarà casuale – ha cominciato a scemare proprio quando l’impianto istituzionale entrato in vigore il primo gennaio 1948 ha cominciato a subire i poderosi colpi di chi voleva accentrare il potere nelle mani dell’esecutivo a scapito di tutti gli altri poteri, compreso quello del popolo, cioè la democrazia. Praticamente, procedendo sulla medesima strada, ha cominciato a camminare Craxi, ha continuato Berlusconi e spera di portare alla conclusione questa vergogna Renzi.
Ricordo che alcuni anni fa ho scritto che il partigiano Enzo Biagi sui monti dell’Appennino emiliano aveva compreso l’enorme valore del “diritto di resistenza” e ne aveva fatto tesoro tanto da elaborarlo in “dovere di resistenza” in ogni giornata della sua vita personale e professionale. E continuavo dicendo che il 25 aprile non poteva appartenere contemporaneamente a Enzo Biagi e a chi lo aveva fatto cacciare dalla Rai con un editto dalla Bulgaria. Perché la Resistenza non è di tutti.
Oggi non posso non ricordare che i padri costituenti erano per la maggior parte donne e uomini che avevano partecipato in prima persona alla Resistenza, mentre chi li accusa di aver sbagliato è uno che è riuscito ad arrampicarsi dove è ora senza neppure essere stato mai eletto.
Forse, a pensarci bene, un errore i padri costituenti lo hanno davvero commesso: quello di aver lasciato aperto un pertugio istituzionale nel quale Renzi è riuscito a infilarsi senza essere mai stato mandato lì dagli italiani. Ma anche in questo caso la Resistenza continua a non essere di tutti.
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martedì 19 aprile 2016
Democrazia e demagogia
Renzi, dopo aver
intestato a suo favore, oltre che i voti di coloro che hanno votato sì e
il numero di quelli che hanno scelto di seguire il suo consiglio di
rinunciare al diritto-dovere del voto, anche quelli di tutti gli altri
che non sono andati alle urne (i morti negli ultimi giorni, gli
ammalati, quelli all’estero e quelli che ormai non vanno più a votare),
ha detto tronfiamente: «La demagogia non paga». C'è da credergli perché,
in fatto di demagogia, ben pochi sono più esperti di lui.
Lasciamo pur perdere che a vincere non sono stati tanto i lavoratori, come ha detto Renzi, ma le aziende petrolifere che pagano cifre irrisorie allo Stato italiano anche perché devono fare un dispendioso lavoro di lobby – e non uso termini peggiori – nei confronti di chi può influenzare il governo, e soffermiamoci, invece, per un momento, sul significato di questa parola – demagogia – che, come democrazia, deriva dal greco, ma che con quella ha un significato inconciliabile, se non opposto. Mentre la democrazia, infatti, si identifica con la sovranità del popolo, la demagogia ha accezione fortemente negativa ed è la degenerazione della democrazia, l’arte di accattivarsi il favore del popolo con regalie, o con promesse di miglioramenti sociali ed economici difficilmente realizzabili, o realizzati in favore di alcuni e a scapito di altri. Esattamente quello che il governo ha fatto con la nuova legge sul lavoro (Jobs Act è un termine di gusto renziano che tende a travisare, almeno parzialmente, il senso di quello di cui si parla), con le regalie da 80, o da 500 euro, fatte a determinate categorie escludendo le altre e così via.
Sarebbe stupido dire che non si è rimasti delusi dal fatto che nel referendum di domenica non sia stato raggiunto il quorum, ma la delusione non deriva tanto dal fallimento del referendum, né dall’inqualificabile comportamento di personaggi come Renzi e Napolitano: ce lo aspettavamo in tutti questi casi. La delusione deriva, invece, anche se pure questa ce l’aspettavamo dalla scarsa resistenza di molti della dissidenza interna al PD. Se c’era un momento in cui andarsene sbattendo la porta, era proprio questo, mentre due personaggi, su cui lascio a voi il giudizio, sostenevano che non andare a votare è prova di democrazia.
Però ora viene il bello perché demagogia e democrazia dovranno affrontarsi in maniera più equilibrata, senza che nessuno possa appropriarsi del numero dei morti, dei malati, di coloro che sono assenti e di quelli che non vogliono più votare, o non sanno cosa scegliere. Ieri mattina è stato depositato in Cassazione il quesito per chiedere il referendum sulla cosiddetta “riforma costituzionale” Renzi-Boschi e Alfiero Grandi, vicepresidente del Comitato ha detto: «Le decisioni in materia costituzionale riguardano tutti i cittadini e la volontà popolare deve entrare subito in campo. È una riforma da respingere perché sottrae potere al popolo accentrandolo nelle mani del presidente del Consiglio».
Ma sono anche molte altre le considerazioni da fare e da domani in poi l’impegno maggiore sarà proprio quello di prendere in esame dettagliatamente i vari aspetti della questione, sollecitando il dibattito, perché tacere in frangenti simili equivale a essere complici di Renzi e dell’ulteriore diminuzione della democrazia in Italia.
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Lasciamo pur perdere che a vincere non sono stati tanto i lavoratori, come ha detto Renzi, ma le aziende petrolifere che pagano cifre irrisorie allo Stato italiano anche perché devono fare un dispendioso lavoro di lobby – e non uso termini peggiori – nei confronti di chi può influenzare il governo, e soffermiamoci, invece, per un momento, sul significato di questa parola – demagogia – che, come democrazia, deriva dal greco, ma che con quella ha un significato inconciliabile, se non opposto. Mentre la democrazia, infatti, si identifica con la sovranità del popolo, la demagogia ha accezione fortemente negativa ed è la degenerazione della democrazia, l’arte di accattivarsi il favore del popolo con regalie, o con promesse di miglioramenti sociali ed economici difficilmente realizzabili, o realizzati in favore di alcuni e a scapito di altri. Esattamente quello che il governo ha fatto con la nuova legge sul lavoro (Jobs Act è un termine di gusto renziano che tende a travisare, almeno parzialmente, il senso di quello di cui si parla), con le regalie da 80, o da 500 euro, fatte a determinate categorie escludendo le altre e così via.
Sarebbe stupido dire che non si è rimasti delusi dal fatto che nel referendum di domenica non sia stato raggiunto il quorum, ma la delusione non deriva tanto dal fallimento del referendum, né dall’inqualificabile comportamento di personaggi come Renzi e Napolitano: ce lo aspettavamo in tutti questi casi. La delusione deriva, invece, anche se pure questa ce l’aspettavamo dalla scarsa resistenza di molti della dissidenza interna al PD. Se c’era un momento in cui andarsene sbattendo la porta, era proprio questo, mentre due personaggi, su cui lascio a voi il giudizio, sostenevano che non andare a votare è prova di democrazia.
Però ora viene il bello perché demagogia e democrazia dovranno affrontarsi in maniera più equilibrata, senza che nessuno possa appropriarsi del numero dei morti, dei malati, di coloro che sono assenti e di quelli che non vogliono più votare, o non sanno cosa scegliere. Ieri mattina è stato depositato in Cassazione il quesito per chiedere il referendum sulla cosiddetta “riforma costituzionale” Renzi-Boschi e Alfiero Grandi, vicepresidente del Comitato ha detto: «Le decisioni in materia costituzionale riguardano tutti i cittadini e la volontà popolare deve entrare subito in campo. È una riforma da respingere perché sottrae potere al popolo accentrandolo nelle mani del presidente del Consiglio».
Ma sono anche molte altre le considerazioni da fare e da domani in poi l’impegno maggiore sarà proprio quello di prendere in esame dettagliatamente i vari aspetti della questione, sollecitando il dibattito, perché tacere in frangenti simili equivale a essere complici di Renzi e dell’ulteriore diminuzione della democrazia in Italia.
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sabato 16 aprile 2016
È sempre diritto e dovere
Nello sport un
comportamento simile costerebbe una squalifica e, nei casi più gravi,
una radiazione per truffa. Sentire il purtroppo presidente del Consiglio
e il fortunatamente ex presidente della Repubblica mentre continuano a
raccomandare a non andare a votare, ci fa capire come la democrazia in
questo nostro Paese sia sempre più in pericolo. Dicono: lo ha già fatto
Craxi e anche altri avevano tentato di imitarlo. Perché? Con Craxi la
democrazia non è stata in pericolo? Perché? Non è stata in pericolo
anche altre volte dall'ascesa al potere di Berlusconi in poi?
È del tutto truffaldino dire che i costituenti avevano già previsto il non andare a votare come forma di espressione di voto perché anche Renzi e Napolitano sanno benissimo che negli anni Quaranta - e anche nei decenni sucessivi - le percentuali dei votanti erano stabilmente al di sopra del 90 per cento e che, quindi, un fallimento del quorum voleva significare che il popolo italiano riteneva una assoluta sciocchezza il quesito referendario. Ora il significato è cambiato perché si è constatato che in alcuni casi le stesse elezioni amministrative non sarebbero valide se anche per queste ci fosse un quorum e, dunque non di importanza del referendum più si tratta, ma di disaffezione alle urne. Invitare a non andare a votare significa voler appropriarsi di due possibilità di voto su tre e nello sport, come dicevo all'inizio,questo sarebbe comportamento antisportivo e comporterebbe la perdita della partita e una squalifica.
Quindi appropriarsi del non voto significa esattamente imbrogliare. E, se è vero che non è la prima volta che abbiamo avuto a lungo a che fare con vertici dello Stato e del governo per i quali non abbiamo forte simpatia, è anche vero che, se un presidente emerito resta tale per sempre, un presidente del Consiglio può essere mandato a casa.
Insomma, se non sapete se scegliere il sì o il no, votate scheda bianca, ma andate a votare comunque, perché, come sempre, il destino della democrazia è più importante del destino degli uomini che stanno ai suoi vertici. I costituenti, parlando del voto, lo avevano definito un diritto-dovere. Ricordatevene e andate nei seggi a ribadire che a questa nostra democrazia, anche se fragile e malata, ci teniamo ancora.
Eccome.
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È del tutto truffaldino dire che i costituenti avevano già previsto il non andare a votare come forma di espressione di voto perché anche Renzi e Napolitano sanno benissimo che negli anni Quaranta - e anche nei decenni sucessivi - le percentuali dei votanti erano stabilmente al di sopra del 90 per cento e che, quindi, un fallimento del quorum voleva significare che il popolo italiano riteneva una assoluta sciocchezza il quesito referendario. Ora il significato è cambiato perché si è constatato che in alcuni casi le stesse elezioni amministrative non sarebbero valide se anche per queste ci fosse un quorum e, dunque non di importanza del referendum più si tratta, ma di disaffezione alle urne. Invitare a non andare a votare significa voler appropriarsi di due possibilità di voto su tre e nello sport, come dicevo all'inizio,questo sarebbe comportamento antisportivo e comporterebbe la perdita della partita e una squalifica.
Quindi appropriarsi del non voto significa esattamente imbrogliare. E, se è vero che non è la prima volta che abbiamo avuto a lungo a che fare con vertici dello Stato e del governo per i quali non abbiamo forte simpatia, è anche vero che, se un presidente emerito resta tale per sempre, un presidente del Consiglio può essere mandato a casa.
Insomma, se non sapete se scegliere il sì o il no, votate scheda bianca, ma andate a votare comunque, perché, come sempre, il destino della democrazia è più importante del destino degli uomini che stanno ai suoi vertici. I costituenti, parlando del voto, lo avevano definito un diritto-dovere. Ricordatevene e andate nei seggi a ribadire che a questa nostra democrazia, anche se fragile e malata, ci teniamo ancora.
Eccome.
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