sabato 31 dicembre 2016

Il concetto e l’abuso

La Corte Costituzionale non ha ancora deciso sull’ammissibilità, o meno, dei referendum sul Jobs Act, ma da parte degli affezionati sostenitori della legge renziana sul lavoro, è già cominciata la campagna referendaria soprattutto sul tema dei voucher che sono balzati in primo piano con il loro inarrestabile moltiplicarsi e che, in pratica, hanno legalizzato la precarietà, mentre non sono riusciti a sconfiggere, ma probabilmente neppure a ridurre, il lavoro nero.

Ora l’attività dei sostenitori del Jobs Act, Ichino in testa, è tutta concentrata a nel far appuntare l’attenzione generale soltanto sugli incontestabili abusi commessi dai cosiddetti datori di lavoro, sottintendendo, in pratica, che soltanto gli abusi vanno messi in discussione, mentre il voucher sarebbe un’ottima soluzione per regolamentare il lavoro. Ma non è questo il punto perché gli abusi devono essere perseguiti dalle forze dell’ordine e valutati dalla magistratura, mentre è proprio il concetto di voucher – così com’è concepito nella legislazione vigente – che deve essere sottoposto al giudizio degli elettori.

E allora ricordiamo cosa sono questi voucher che sono stati introdotti, come strumento di lavoro occasionale, nel 2003 dal secondo governo Berlusconi e poi sono stati inquadrati per la prima volta dalla Legge Biagi e successivamente limitati nell’utilizzo dal secondo governo Prodi nel 2008. Il quarto governo Berlusconi ne ha esteso l’utilizzo a tutti i soggetti nel 2010 e poco tempo dopo vi è stata una loro totale liberalizzazione di utilizzo con il governo Monti, liberalizzazione ulteriormente rafforzata dal Governo Renzi che ha innalzato i limiti da 5.000 a 7.000 euro annui e ha eliminato dalla legge la dicitura «di natura meramente occasionale» che era l’essenza del buono lavoro. Attualmente, il valore del voucher è di 10 euro di cui 7,50 vanno, netti, al prestatore d’opera, mentre il resto sono contributi Inps e Inail.

Ora, da settembre, per tentare di frenare evasione ed elusione, è obbligatorio l'invio di un SMS all'Inps da parte del committente almeno un'ora prima della prestazione per tentare di impedire usi fraudolenti, come pagare con voucher solo una piccola parte del compenso e il resto corrisponderlo in nero.

Entrando nel merito della loro legittimità, dunque, sono da mettere in rilievo almeno due cose.

La prima riguarda il fatto che un simile tipo di lavoro sta stravolgendo i diritti delle persone perché il lavoratore viene assimilato a una merce che si può acquistare velocemente dal tabacchino e che può essere abbandonata senza alcuna fatica appena non serve più. Una specie di affinamento e di ammodernamento della schiavitù: “schiavitù 2.0” direbbero quelli che amano farsi vedere moderni usando locuzioni diventate luoghi comuni. Ma in realtà questa, per certi versi, è addirittura peggio della vecchia schiavitù perché una volta il padrone assicurava comunque vitto, alloggio e una certa cura che mirava a mantenere la validità e, quindi, il valore di un proprio patrimonio. Oggi il datore di lavoro occasionale non deve avere responsabilità di sorta e cibo, tetto e cura sono a pieno carico di chi, con i voucher, deve tentare di sopravvivere: non per nulla sono 11 milioni – e sono in continua crescita – gli italiani che, nel campo della salute, hanno dovuto rinunciare alla prevenzione, o addirittura alla cura.

La seconda constatazione riguarda il fatto che i 7,50 euro di corresponsione oraria sono uguali per tutti: per i laureati assunti a termine per realizzare il business plan di una piccola azienda, come per la persona incaricata di raccattare le foglie secche in un parco. E questa aberrante idea di parificare tutto al livello più basso possibile è stata partorita proprio da coloro che per decenni si sono riempiti - e si riempiono - la bocca con la parola “meritocrazia”. E poi si lamentano, stupiti, se i giovani tendono sempre più a emigrare; oppure cercano di negare questa realtà parlando di «mitizzazione della fuga dei cervelli».
Insomma, non è che, eliminando l’abuso, il concetto di voucher possa diventare accettabile. Rimane sempre una negazione del significato di lavoro come fonte di dignità personale e una deincentivazione alla crescita culturale e professionale individuale.


Anche sotto questo punto di vista, tantissimi auguri a tutti. Ne avremo davvero bisogno.

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sabato 24 dicembre 2016

Due regali di Natale

A chi si chiede – di solito accompagnando le parole con una smorfia di spocchioso scherno – cosa faranno “da grandi” i comitati per il NO, quelli ribattezzati da Renzi “un’accozzaglia”, vogliamo dare, come regali di Natale, due risposte.

La prima tende a dire cosa non saranno. Siamo ben coscienti, infatti, che le varie anime di coloro che hanno barrato la casella NO sulla scheda referendaria hanno avuto in comune soltanto la determinazione a opporsi a uno stravolgimento della Costituzione per non rischiare che l’Italia potesse finire in mani di persone che, liberate da obblighi e fastidi, fossero tentate di imprimere una svolta autoritaria, o quantomeno poco democratica, alla Repubblica. Quindi, i Comitati non hanno alcuna ambizione di formare nuovi partiti, e neppure di appoggiare aprioristicamente qualsiasi schieramento senza aver prima valutato la sua aderenza alla Carta fondamentale.

La seconda risposta, invece, desidera tratteggiare quello che, almeno per molti di noi, puntano a essere. Per spiegarlo bene mi sembra utile partire da una sentenza della Corte Costituzionale che si è pronunciata in merito a una controversia, tra Regione Abruzzo e Provincia di Pescara, sul servizio di trasporto scolastico dei disabili, riconoscendo come questo sia un diritto inviolabile e da garantire senza condizionamenti finanziari. Le parole esatte del dispositivo che spiega la decisione sono: «È la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione». Rileggete queste parole con attenzione perché sono fondamentali se si intende davvero imporre una svolta alla politica italiana richiamandola al fatto che il suo principale obbiettivo deve essere il bene dei cittadini e che, quindi, l’economia passa in secondo piano rispetto ai diritti: esattamente il contrario di quello che quasi sempre è accaduto in questi ultimi decenni.

Durante la campagna referendaria più volte avevo ricordato che a poco valeva l’assicurazione di Boschi, Renzi, Napolitano e dei loro fedeli, che i primi 12 articoli, quelli dei Principi fondamentali, sarebbero rimasti inalterati perché, se questo era vero nella forma, così non era nella sostanza, visto che quantomeno l’articolo 5, quello dedicato alle autonomie veniva quasi totalmente svuotato dalle modifiche proposte nei vari articoli del Titolo V.

Per far capire come fosse possibile lasciare inalterata la forma, ma mutare la sostanza, ricordavo cos’era successo nell’aprile 2012, quando era stata approvata a larghissima maggioranza la riforma dell’articolo 81che ha introdotto in Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio. E chiedevo se davvero, cambiando l’ordine di priorità e di importanza, la nuova stesura dell’81 non era andato a cambiare la sostanza dell’articolo 2, dove recita «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» e quella dell’articolo 3, almeno nei passi in cui dice che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.»? E dicevo anche: “Provate a chiedere se per loro non è cambiato niente a quegli undici milioni di italiani – dato Censis – che hanno rinunciato alla prevenzione sanitaria, o addirittura a curarsi, perché non hanno i soldi sufficienti per farlo visto che i risparmi sulla sanità per raggiungere il pareggio di bilancio sono diventati più importanti della loro salute”.

E la stessa cosa può avvenire anche senza neppure toccare la Costituzione, ma operando su leggi ordinarie. Qualcuno può forse negare che il Jobs Act, va a incidere pesantemente sulla sostanza degli articoli 1,2, 3 e 4 della Costituzione? E che i referendum voluti dalla Cgil tendano proprio a lenire queste ferite inferte alla Costituzione?


Ebbene, il compito dei Comitati, almeno secondo molti di noi, sarà proprio quello di sforzarsi per impedire che leggi come il Jobs Act, a prescindere da chi le proponga, possano andare a vanificare subdolamente la nostra Carta fondamentale nella disattenzione, se non nel disinteresse, di un Parlamento che troppo spesso valuta le leggi da approvare, o da rigettare, secondo motivazioni legate all’utilità propria, o del proprio partito, invece che in dipendenza di quelle legate al bene del popolo.

Si potrà dire che non si possono mettere in secondo piano le leggi dell’economia e che un simile obbiettivo rientra tra le utopie più che tra i progetti. Ebbene, per prima cosa, la Costituzione Italiana è fondata su un tipo di economia “funzionale”: cioè l’economia e le finanze pubbliche devono essere funzionali al raggiungimento degli obiettivi che la società stessa definisce prioritari. Tenendo ben presente che non è che sia il denaro a essere scomparso, ma il lavoro, perché il denaro si è spostato quasi tutto nelle mani di pochissimi che, per la maggior parte, preferiscono tenerlo fermo a far fruttare finanziariamente piuttosto che investirlo creando, appunto, lavoro e benessere per tutti.

Inoltre, la storia dimostra che il termine utopia più che indicare un luogo che non esiste, definisce soltanto un posto che non è stato raggiunto ancora.

Quindi questi sono i due regali di Natale che non credo saranno graditi a tutti: nessun nuovo partito, ma una serie di gruppi di rompiscatole che non vogliono aspettare più che le leggi anticostituzionali si dimostrino tali per intervenire, ma che intendono farsi sentire, pur nei limitati modi consentiti dal nostro ordinamento, a dibattito parlamentare in corso per far avvertire, come succedeva quando vigeva ancora il sistema elettorale proporzionale, il proprio peso sul gradimento politico che poi troverà consistenza reale nella prossima occasione di voto.

Comunque, al di là del gradimento o meno di questi due regali, buon Natale a tutti quelli che sono di buona volontà.


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giovedì 22 dicembre 2016

Le varie inadeguatezze

Sono totalmente condivisibili le insistenti richieste di dimissioni indirizzate a Poletti, sedicente ministro del Lavoro, non soltanto da le opposizioni, ma anche da due parti interne al PD: dai giovani di molte regioni e dalla sinistra del partito che, almeno per una volta, sembra essere concorde. Quello che meno convince, invece, sono le motivazioni con le quali queste dimissioni sono chieste. 5stelle, Lega e Sinistra assortita le chiedono per “inadeguatezza” del ministro; i giovani PD perché si sono sentiti feriti dalle sue parole; la sinistra interna al PD, più pragmatica degli altri, non specifica motivazioni che ai più, visto quello che Poletti ha detto e fatto, appaiono del tutto superflue, ma chiedono un pur impossibile scambio: lasciamo il ministro al suo posto se, in cambio, il governo cancella i voucher.

Obbiettivamente il termine “inadeguatezza” sembra quello che meglio si attaglia alla situazione, ma bisognerebbe specificare che in questo caso si va ben oltre l’inadeguatezza politica per entrare nel campo dell’inadeguatezza personale. E, infatti nessuno si sogna di accettare le parole di molti notabili renziani tra i quali, quantomeno per ragioni geografiche, oltre che per l’importanza degli incarichi da loro rivestiti, merita ricordare le quasi concordanti prese di posizione, per quanto evidentemente dovute e sofferte, di Serracchiani e Rosato: «Il ministro Poletti si è scusato per una frase infelice. Il caso si esaurisce qui».

In realtà, però, sanno benissimo anche loro che ben difficilmente il caso potrà esaurirsi qui e non soltanto per il finanziamento pubblico di mezzo milione di euro che, in un periodo di vacche magrissime per l’editoria, il governo ha concesso al periodico diretto dal figlio del ministro: di quello, eventualmente, si occuperà la magistratura.

Il viluppo politico dal quale ben difficilmente Poletti potrà districarsi consiste nel fatto che il sedicente ministro del Lavoro ha espresso, con parole sue, concetti che già erano stati espressi da altri esponenti del governo appena passato e di quello attuale, ammesso che siano davvero due cose diverse. E, quindi, per evitare di affondare, con ogni probabilità questo governo sarà costretto a gettare a mare il proprio improvvido ministro ormai rivelatosi anche ai più ciechi come una pericolosa zavorra.

Pochi giorni fa aveva espresso pubblicamente il concetto che le elezioni anticipate dovevano essere fissate al più presto perché soltanto così si sarebbe potuto disinnescare il referendum richiesto dalla Cgil su tre aspetti del Jobs Act che con ogni probabilità si trasformerebbe in un’ennesima figuraccia (ricordiamoci anche la legge Madia) per la politica renziana e che svuoterebbe di senso quella legge che si era vantata di essere sul lavoro, ma che in realtà mira a regolamentare soltanto la precarietà. Ebbene: il concetto del tentar di neutralizzare il referendum con il ricorso alle urne, poi messo in chiaro da Poletti, era già abbondantemente circolato a palazzo Chigi in precedenza, tanto da trovare posto in numerosi articoli politici su varie testate italiane e internazionali, come pura ipotesi politica. Poletti, insomma, come di solito fa, si è limitato a ufficializzare cose istituzionalmente sconvenienti che, invece dovevano restare segrete e che lui ha sentito soltanto perché non poteva non essere dove quelle cose venivano dette.

Stessa cornice anche per la famigerata frase pronunciata a proposito della cosiddetta “fuga dei cervelli”: «Conosco gente – ha detto Poletti – che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi». Altra frase totalmente priva di diplomazia, però anche difficilmente incasellabile a sinistra in quanto dimentica che la fuga all’estero non riguarda soltanto “i cervelli”, ma anche tantissimi cittadini - magari non baciati dal genio, ma comunque dotati di cervello - che hanno dovuto emigrare con il solo obbiettivo di sopravvivere economicamente. Una frase, comunque, che contiene un concetto altrui che Poletti si è limitato a infiocchettare da par suo. Un paio di mesi fa, infatti, era stato l’allora primo ministro, Matteo Renzi, a puntare il dito contro la «retorica della fuga dei cervelli», durante un intervento in Toscana, poco prima di partire per la cena negli Stati Uniti con il presidente Barack Obama, specificando anche che «Bisogna aprirsi alla competizione internazionale; trovare il modo di essere attrattivi». Sollecitazione alla quale aveva risposto subito il sottosegretario Scalfarotto con un’altra alzata d’ingegno nella quale invitava le aziende internazionali a sfruttare il fatto che gli ingegneri italiani costano meno dei loro colleghi.

Secondo me l’inadeguatezza di cui si parla esiste, ma non riguarda soltanto il sedicente ministro Poletti, ma un’intera classe politica sedicente di centrosinistra.

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giovedì 15 dicembre 2016

Il rosso e il rossore

In questo governo – come, del resto, in quello precedente – non manca soltanto il rosso, inteso come ormai negletto colore emblematico della sinistra, ma manca anche quel rossore che è la tipica reazione somatica che svela la vergogna. E non perché siano i vasi capillari delle guance dei ministri a essere insensibili agli stimoli di un cervello che entra in crisi perché si rende conto di aver fatto qualcosa che non andava, ma in quanto è proprio la vergogna a mancare.

«O vergogna, dov’è il tuo rossore?», faceva dire ad Amleto William Shakespeare. E, a dire il vero, il rossore sulle guance di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro (che fatica definirlo così) appare. Ma, in realtà appare sempre, tanto che si può tranquillamente dire che dipenderà da altri fattori fisici, ma non certamente dalla vergogna. Anche perché quel colore non si è rafforzato nemmeno di una minuscola sfumatura quando – come gli succede spesso – si è lasciato scappare quello che pensa davvero: «Mi sembra che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto, quindi prima del referendum sul Jobs act. E se si vota prima del referendum – ha detto riferendosi alla consultazione popolare contro l’attuale legislazione sul lavoro – il problema non si pone. Diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul Jobs Act sarebbe rinviato».

Infatti se le Camere venissero sciolte, com’è previsto dalla legge che regola l’istituto referendario, la consultazione sarebbe rinviata a 365 giorni dopo le elezioni, per evitare una sovrapposizione delle campagne elettorali. In caso contrario la Corte costituzionale, che l’11 gennaio si esprimerà sull’ammissibilità dei quesiti, potrebbe fissare la data del voto tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Poi, in serata – sempre come spesso gli succede – Poletti ha tentato maldestramente di rettificare: «Le mie affermazioni non sono altro che l’ovvia constatazione che, qualora si andasse a elezioni politiche anticipate, la legge prevede il rinvio del referendum. È un’ipotesi che non ho invocato io». E, alla fine, quando si è reso conto che la sua posizione è indifendibile, ha tentato di disinnescare un problema per il governo Gentiloni assumendosi ogni responsabilità: «Le mie frasi sono una scivolata personale».

Ma è davvero difficile accettare questa tesi perché questo governo Gentiloni è troppo simile a quello precedente per lasciar ipotizzare che possa pensarla in maniera diversa su quel capolavoro di fabbrica di ulteriori disparità sociali che Renzi ha orgogliosamente annoverato tra i suoi più scintillanti successi e contro il quale la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Ed è anche difficile credere che potrebbe avere successo una nuova campagna per non far andare i cittadini alle urne, come hanno sciaguratamente fatto Renzi e buona parte del PD in occasione del referendum sulle trivelle.

Questa volta i quesiti referendari puntano a cancellare la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi la possibilità di licenziamento senza giusta causa; ad abrogare le disposizioni che limitano la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante, in caso di violazioni nei confronti del lavoratore; e a eliminare quei voucher che hanno reintrodotto una forma di schiavitù in cui il lavoratore lo puoi comprare al tabacchino proprio per il tempo che ti serve, o anche meno, visto che puoi far apparire e far valere i voucher soltanto nel momento in cui sembra pericoloso continuare a far lavorare donne e uomini – chiamiamoli sempre così, perché il termine “lavoratori” ormai è diventato disumanizzante – in nero.

Poletti, però, ha avuto involontariamente il merito di aver riportato in primo piano gli argomenti “lavoro” e “referendum” che le polemiche sul trapasso dal Renzi al Renzi bis avevano relegato in secondo, o terzo piano. E ha fatto capire almeno due cose: la prima è che il PD renziano ha paura di una nuova debacle referendaria e che, quindi, non ha interesse a far finire la legislatura, ma, anzi, di farla concludere al più presto; la seconda consiste nel fatto che Renzi e i suoi non pensano minimamente di correggere – e potrebbero farlo in breve, almeno su alcuni punti – una legge che non ha neppure una caratteristica del pensiero di sinistra, perché di sinistra quel governo (questo governo) non è.

Davanti a queste considerazioni potrebbe sembrare che quel rossore mancante sia soltanto un dettaglio secondario nel quadro generale. E, invece, credo sia un aspetto importantissimo perché un rossore, come un pianto, non cancellano gli errori eventualmente fatti in precedenza, ma assicurano una certa dose di quell’umanità che è comunque necessaria per discutere da posizioni diverse con la speranza di incontrarsi in un qualche punto mediano della strada. Se manca anche il rossore, ci si rende conto che ci si trova soltanto di fronte a una specie di automa, a qualcuno che ritiene che il suo unico scopo – senza mai sforzarsi di pensare in proprio – sia quello di arrivare dove gli hanno detto che si doveva arrivare. E che magari, a sconfitta avvenuta, tenterà di togliersi dalle spalle le proprie responsabilità ripetendo quella frase che troppe volte ha ammorbato l’aria che respira questa umanità: «Non ho fatto altro che obbedire agli ordini».

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martedì 13 dicembre 2016

Quel fastidioso suffragio universale

È un fatto acclarato che i Comitati del No non legati a partiti politici avevano come obbiettivo fondamentale la difesa della Costituzione e non la caduta del governo Renzi. E, quindi, una volta raggiunto lo scopo costitutivo, avrebbe potuto essere logico attendersi una loro quasi totale indifferenza davanti alle dimissioni di Renzi e all’ingresso a Palazzo Chigi di Gentiloni.

Questo, però, vista la composizione del nuovo esecutivo, non può accadere per vari motivi: la conferma di tredici ministri del governo uscente, l’ingresso premiante dell’obbediente Finocchiaro nella posizione che sovrintenderà alle nuove leggi elettorali, la conferma dell’inguardabile (e non dal punto di vista estetico) Poletti al Lavoro, la salita a un ministero resuscitato del fedelissimo Lotti, il passaggio agli Esteri di Alfano, noto anche per il fatto che non conosce pochissime parole di inglese, lo spostamento al sottosegretariato di Palazzo Chigi della Boschi, madre putativa dell’orribile riforma bocciata con lei, e che, invece di essere messa almeno temporaneamente in disparte, ha assunto il compito di braccio destro, o di controllora (al femminile si dice così?), di Gentiloni. Sono questi – e non sono tutti – i motivi che fanno pensare che più che di un governo Gentiloni, si tratti di un Renzi bis in cui il burattinaio per il momento preferisce non mostrare la faccia per dedicarsi, invece, principalmente alla cura del partito dal quale, poi, sperare di riprendere la scalata al potere che conta.

Questa immagine è presentata e sostenuta anche da giornali che, dopo aver difeso acriticamente e fino all’inverosimile Renzi e la sua riforma costituzionale, ora tentano di rifarsi un verginità critica non apprezzando il governo Gentiloni.

Nessun motivo, dunque, da parte dei componenti dei Comitati del No, per storcere il naso, visto che Renzi è praticamente rimasto al suo posto? Non è così e i motivi si trovano proprio nell’evidenza che Renzi, così facendo, ben lontano dall’ammettere di aver sbagliato e perduto, ha voluto soltanto riaffermare muscolarmente il proprio potere. E lo ha fatto pensando soltanto al mondo politico; non certamente ai cittadini, la maggior parte dei quali ha votato contro il suo progetto, ma dei quali non si è curato e non si cura minimamente. Il suo discorso, non esplicitato a parole, ma nei fatti, potrebbe essere condensato, più o meno, così: «Va bene, potrebbe sembrare che io abbia perso e, per non perdere la faccia, fingo di andarmene. Ma voi sapete benissimo che le leve del comando restano saldamente in mano mia».

È un discorso tutto interno a quel mondo politico che Renzi dichiarava di voler cancellare con la rottamazione e che trova un esempio emblematico in Rosato che, una volta rimasto fuori dal governo, si è sentito in dovere di dichiararsi a favore di un veloce ritorno alle urne. Ma è anche e soprattutto la constatazione che l’ex sindaco di Firenze dimostra ancora una volta di tenere in gran conto il voto dei cittadini, ma soltanto se gli è favorevole; altrimenti fa finta che non ci sia neppure stato. Ed è questo che continua a preoccupare e che deve far rimanere con le antenne alzate tutti coloro che hanno operato e votato per difendere la Costituzione.
 

Il modo di comportarsi di Renzi, infatti, non può non richiamare alla memoria le parole pronunciate da Napolitano, uno dei suoi due anziani padri putativi, dopo le elezioni presidenziali statunitensi: «La vittoria di Trump è fra gli eventi più sconvolgenti della storia della democrazia europea e americana, e del suffragio universale che non è sempre stata una storia di avanzamento, ma è stato anche foriero di grandissime conseguenze negative per il mondo». Parole poi riprese, messe a fuoco e sintetizzate da Fabrizio Rondolino: «Il suffragio universale – ha detto il pasdaran del PD renzista – comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale».

Sono parole che fanno rabbrividire e che vanno nello stesso senso in cui andava la riforma che abbiamo avversato e bocciato: quello di togliere occasioni al popolo per far sentire la propria voce e di limitare anche l’attività dei delegati dal popolo per privilegiare, invece, i voleri del capo.

È vero che talvolta il suffragio universale porta a risultati che possono essere considerato pericolosi, ma la causa non è certamente del suffragio universale e della democrazia, bensì del fatto che troppo spesso la gente si avvicina alle urne con sufficienza, o del tutto impreparata. E la colpa non è solo della gente, ma soprattutto della politica che ormai tenta di parlare ai cittadini soltanto in occasione del voto, mentre per tutti gli anni che intercorrono tra un’elezione e l’altra, cerca addirittura di sviare l’attenzione, di non far pensare, perché ogni pensiero cosciente può dar vita a una fastidiosa obiezione, o, addirittura, a un’intollerabile opposizione. E così saltano tutti confronti e i dibattiti, intesi come occasione di crescita reciproca e non di palcoscenico in cui mettere in mostra soltanto i propri slogan.

Ed è evidente che allora il posto lasciato così a lungo vacante dalla politica volontariamente assente, finisce per essere occupato da altre entità: una televisione che per la grandissima parte distrae e assopisce qualunque impulso sociale, le mafie, i poteri forti, o, anche, più semplicemente, gli egoismi e le asocialità.

Eppure la storia ha dimostrato ad abundantiam che se consegni la tua vita in mano a chi è delegato a decidere da solo per te, prima o poi quel qualcuno abuserà della sua delega. E potrà anche farlo in maniera drammatica. La mente corre a nomi come Mussolini, Hitler, Stalin, ma la lista tra cui scegliere un esempio, pur se talvolta meno altisonante, è purtroppo drammaticamente lunghissima.

Quindi, come già è stato detto, la vittoria nel referendum non è un punto di arrivo, ma di partenza. Non per creare nuove realtà politiche, ma per sorvegliare e stimolare quelle esistenti. Sprecare il patrimonio accumulato in questi lunghi mesi di efficace opposizione dal basso sarebbe commettere un peccato sociale e politico probabilmente non inferiore a quelli commessi da Renzi.

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sabato 10 dicembre 2016

Alleanze, obbiettivi e rancori

Al fatto che in Italia tutto sia un po’ più complicato del normale ormai dovremmo essere abituati, ma – è inutile negarlo – ogni volta restiamo un po’ sorpresi.

Prendiamo, per esempio, il referendum: si poteva votare Sì, oppure No e, quindi, oggi ci dovrebbero essere soltanto un vincitore e un perdente. Invece i vincitori si moltiplicano: al di là di quelli – che non sono pochi – che hanno votato No perché ritenevano che non si dovesse rinunciare a una fetta di democrazia, hanno voluto mettere cappello sul risultato i grillini, i leghisti, i berlusconiani e, in generale, quelli di destra.

Gli sconfitti, invece, tendono a mimetizzarsi se è vero che anche Renzi – indiscutibilmente quello che tutto ha scommesso e tutto ha perduto – è arrivato a teorizzare che, tutto sommato, il suo è stato quasi un successo perché tenta di intestarsi l’intero gruppo del 40 per cento degli italiani che hanno votato Sì.

E, sull’onda di questo tentativo di gioco delle tre carte destinato agli elettori più distratti, o più vogliosi di farsi convincere, fa finta di dimenticarsi che per mesi è andato avanti a dire che, in caso di sconfitta, non si sarebbe limitato a dare le dimissioni, ma avrebbe abbandonato per sempre la politica. Cosa che, ovviamente, ora si guarda bene dal fare.

Tra i perdenti, però ci sono quelli che magari non lo ammettono esplicitamente, ma fanno vedere quanto male ci sono rimasti mettendo in campo un livore inverosimile contro coloro che, in linea teorica, tra i vincenti per loro dovrebbero essere politicamente più vicini: quelli che hanno cancellato la riforma Boschi–Renzi–Napolitano da sinistra.

Tutti conosciamo qualcuno tra questi rancorosi pronti ad accusare il No di tutte le disgrazie che capiteranno in Italia nel prossimo mezzo secolo, ma certi meritano davvero una citazione particolare. Michele Serra, per esempio, è uno dei più animosi: accusa “la sinistra a sinistra di Renzi” di saper dire soltanto “No, no, no”, e addirittura di opporsi a Pisapia che si dice disponibile a impegnarsi per la creazione di una nuova forza di sinistra che poi possa allearsi con Renzi per rinnovare le troppo brevi glorie dell’Ulivo.

Per prima cosa sarebbe da precisare, rispolverando una definizione brutta e sbagliata che fa tornare la mente agli anni di piombo, che Renzi non è “un compagno che ha sbagliato”. Intanto perché in lui non c’è nulla di terroristico, ma poi perché non è un “compagno”, visto che non ha alcuna connotazione di sinistra, e perché non “ha sbagliato”, visto che quella riforma fortunatamente abortita lui l’ha pensata, scritta e voluta con fredda determinazione.

Allora, per prima cosa, quella “sinistra a sinistra di Renzi”, o configura, vista la reale posizione di Renzi, quasi come una sterminata prateria, o tende a far pensare che di pensieri di sinistra in Italia ce ne siano rimasti davvero pochissimi; e così non è. Lo dico perché Renzi, anche se afferma di essere uomo di sinistra, in realtà non lo è affatto. Basta pensare alle cose che ha realizzato: il Jobs Act che reintroduce una sorta di schiavismo in cui il lavoratore può essere facilmente acquistato con i voucher al tabacchino e facilmente licenziato con l’unico disturbo di una piccola mancia; lo Sblocca Italia con la sua libertà di cementificare ovunque; la Buona Scuola che non pensa più alla cultura e nemmeno all’istruzione, ma soltanto alle richieste del “mercato”; le tante regalie che, al di là degli scopi elettoralistici, non riducono neppure di un ette le terribili disparità sociali esistenti nel nostro Paese, ma configurano soltanto come un’elemosina per di più fatta con i soldi altrui. E si potrebbe andare ancora avanti.

E allora Serra dovrebbe anche tener conto che nessuno a sinistra rifiuta a priori quell’alleanza con il maggiore partito teoricamente di centrosinistra, ma la rifiuta con Renzi. Perché di Renzi non è che non si fidi – e ne avrebbe già tutte le ragioni – ma perché lo conosce già anche troppo bene.

Si dirà che il PD ha tutto il diritto di scegliersi il segretario che vuole; ed è assolutamente giusto. Ma se il PD sceglie un segretario – e, quindi, una linea politica – che privilegia la governabilità rispetto alla rappresentatività, che vede la democrazia come un fastidio da limitare, se non si riesce a eliminare, perché finisce per cancellare le scelte dei vertici del sistema, che si impegna allo spasimo per favorire banche e mercati e non per cancellare, o almeno diminuire, le diseguaglianze, allora non si capisce proprio perché la sinistra dovrebbe portare voti e forza a un’entità politica che ha obbiettivi diametralmente opposti ai suoi.

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lunedì 5 dicembre 2016

La storia siamo ancora noi

Ebbene sì, lo confesso: ho esultato.

Perché l’Italia continua a essere una Repubblica parlamentare e non è diventata presidenziale. Perché ancora una volta il povero e fragile Davide batte il ricchissimo e potente Golia. Perché è stato dimostrato che sperare si può sempre. Perché molta gente è tornata ad accostarsi alle urne e appare evidente che per buona parte si è trattato di quella gente di sinistra che ormai non riteneva più che qualcuno potesse rappresentarla e che forse ora non considererà concluso il suo compito. Perché il buon senso si è rivelato superiore al potentissimo schieramento mediatico messo in campo da Renzi e dai suoi. Perché la gente ha dimostrato ancora una volta che, se sta attenta, sa distinguere benissimo tra informazione e pubblicità. Perché molti tra quelli che hanno cambiato bandiera perché pensavano di vincere non avranno più il coraggio di appuntarsi medaglie di coerenza, mentre, se questo coraggio di ripresentarsi per cariche politiche o amministrative ce l’avranno ancora, saremo noi a sforzarci di ricordare a tutti come si sono rivelati.

E potrei proseguire a lungo sui perché ho esultato, ma preferisco soffermarmi sui motivi per i quali la gioia non può essere completa e priva di ombre. Sono pensoso perché Renzi ha lasciato un Paese spaccato verticalmente in due e – almeno in questo è riuscito a vincere – una sinistra in frantumi e da ricostruire. Sono pensoso perché i tentativi di appropriarsi di una vittoria popolare sono tantissimi e sono già partiti subito dopo il voto.

Ma pensoso non vuol dire preoccupato, o addirittura privo di speranze. Anzi. I mercati – chiamiamoli pure così – fanno già vedere quanto poco hanno gradito che l’obbediente Renzi non sia più al suo posto, anche se – Costituzione insegna – sarà il Presidente della Repubblica a decidere come cercare un nuovo governo. Però ci sono quasi venti milioni di italiani che hanno già fatto sapere con chiarezza che tengono più conto della democrazia che delle loro minacce.

Nella notte Luciano Favaro, per festeggiare, ha diffuso il testo di “La storia Siamo noi, bella Ciao”, una canzone di Francesco De Gregori che ho spesso citato in questi dodici lunghissimi mesi di campagna referendaria. Un testo che desidero riproporvi:

La storia siamo noi, nessuno si senta offeso
Siamo noi questo prato di aghi sotto al cielo.
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.
La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare,
Questo rumore che rompe il silenzio,
questo silenzio così duro da masticare.
E poi ti dicono: “Tutti sono uguali,
Tutti rubano alla stessa maniera”
Ma è solo un modo per convincerti
A restare chiuso dentro casa quando viene la sera;
Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone
La storia entra dentro le stanze, le brucia,
La storia dà torto e dà ragione.
La storia siamo noi.
Siamo noi che scriviamo le lettere
Siamo noi che abbiamo tutto da vincere e tutto da perdere.
E poi la gente (Perché è la gente che fa la storia)
Quando si tratta di scegliere e di andare
Te la ritrovi tutta con gli occhi aperti
Che sanno benissimo cosa fare:
Quelli che hanno letto milioni di libri
E quelli che non sanno nemmeno parlare;
Ed è per questo che la storia dà i brividi,
Perché nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
Siamo noi, bella ciao, che partiamo
La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano.
La storia siamo noi, Siamo noi questo piatto di grano.


Ripeto quello che ho già scritto e detto tantissime volte: a me del destino politico di Renzi interessava poco o nulla. Mi importava, invece, molto del destino democratico di mia figlia, di mia nipote, dei loro coetanei e di tutti gli italiani. Non è che questo destino ieri sia stato scritto e che ora possiamo vivere tranquilli, ma è certo che ieri è stata cancellata una possibile uscita traumatica dalla strada tracciata da coloro che per la Costituzione sono morti. 

Ora dovremo continuare a vigilare e a operare – ognuno secondo le sue capacità – perché la democrazia, come la stessa vita, va difesa, salvaguardata e fatta sviluppare giorno per giorno da tutti. Senza demiurghi al comando.


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venerdì 2 dicembre 2016

Le buone compagnie

Sembrerà strano, ma non ho mai sentito dare del fascista a Togliatti, né del comunista ad Almirante. Eppure per decenni hanno votato nella stessa maniera contro le proposte politiche della DC. Quindi, secondo il modo di ragionare di Renzi e degli esponenti del Sì, avrebbero dovuto far parte di qualcosa di simile a quell’“accozzaglia” che, nella loro visione delle cose, esiste tra coloro che votano No. “Accozzaglia” che non esisterebbe, invece, al loro interno perché evidentemente – contenti loro – si sentono molto vicini a personaggi come Verdini e De Luca.

E un’“accozzaglia”, sempre dal loro punto di vista, sarebbe stata, a rigor di (loro) logica, anche la Resistenza visto che contro i nazifascisti hanno combattuto insieme monarchici e comunisti, liberali e socialisti, popolari e repubblicani, militari e pacifisti.

Appare davvero impossibile che la loro capacità di ragionamento sia talmente bassa da considerare reale quest’accusa di frequentare cattive compagnie. E, quindi, questo mantra, che si sente ripetere da Renzi e dai suoi sempre più frequentemente man mano si avvicina il momento del voto e appare chiaro che proprio “nel merito” il No ha molte argomentazioni migliori rispetto al Sì, non può che essere catalogato tra le frasi destinate a tentare di far presa sulle fasce più distratte dell’elettorato. Sotto la propaganda, niente.

Come giustamente scrive Zagrebelsky, rispondendo a Scalfari, «l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che entrambi gli schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione di una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente».

C’è ben poco da aggiungere a queste parole, se non il fatto che, al tirar delle somme, gli unici che sono “entrati nel merito” sono stati proprio quelli del No, mentre quelli del Sì si sono aggrappati a vuoti slogan, a timori di governi non renziani e di ritorsioni economiche dall’estero. Oltre che, naturalmente, ad elargizioni ai genitori dei neonati, ai diciottenni, che casualmente sono al loro primo voto, ai pensionati, a un’attenzione mai prima neppure sfiorata per gli italiani all’estero, e alla miracolosa chiusura alla vigilia del voto di contratti nazionali di categoria che non soltanto non si chiudevano da tantissimi anni, ma che addirittura erano osteggiati perché si volevano privilegiare i contratti di secondo livello.

Credo che, a poche ore dal voto, più che alle cattive compagnie sia il caso di guardare alle buone compagnie. E mi riferisco a tutte le persone con le quali ho avuto il privilegio di lavorare in questi lunghissimi mesi di campagna referendaria in un Comitato che è nato dal basso, tra gente che sente in sé ideali di sinistra, senza alcun apporto iniziale di qualche esponente politico; che è stato composto soltanto da cittadini che si rifiutavano – e si rifiutano ancora – di diventare sudditi; che non hanno nessuna ambizione di arrivare a cariche politiche, ma che si muovono soltanto perché sentono che è loro dovere farlo; perché hanno elaborato il concetto che, se spesso sentiamo parlare di “diritto di resistenza”, dovremmo parlare, invece, di “dovere di resistenza”; pacifica, democratica e civile, ma sempre resistenza. E, infatti, non si riesce a capire perché siamo tanto pronti a reagire alle invasioni dei nostri territori – di una nazione, o di un privato cittadino che siano – e siamo tanto insensibili davanti alle invasioni dei nostri diritti.

Credo sia in caso di guardare alle buone compagnie anche e soprattutto perché ritengo assolutamente giusto quello che scrive anche Pierpaolo Suber nel suo profilo Facebok quando ricorda che, qualunque sarà il risultato referendario, questo paese si troverà spaccato e dovrà trovare le risorse etiche, culturali e civili per ricostruire un dialogo democratico che è stato violentemente spezzato con modalità che sono sostenute da ambizioni personali e non dalla ricerca del bene del Paese. E saranno quelle buone compagnie le uniche in grado di lavorare per riunificare il Paese perché sono convinti che il bene del Paese è superiore al proprio tornaconto personale.

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mercoledì 30 novembre 2016

Quel PD che fa finta di non conoscere se stesso

Alla vigilia di questo referendum costituzionale non si può non ricordare che questa non è la prima volta che una riforma costituzionale viene approvata in Parlamento a colpi di maggioranza. È già successo nel 2001 con la sciagurata decisione di far approvare, con margini risicatissimi, la riforma del Titolo V, quello che tratta dei rapporti tra lo Stato e le autonomie locali, comuni, province e regioni. Ed è accaduto di nuovo nel 2006 con un altro sciagurato tentativo, questa volta del Centrodestra che voleva tramutare – un po’ proprio come oggi, ma quella volta esplicitamente – la Repubblica da parlamentare a presidenziale.

Dopo quei due colpi di mano il Centrosinistra sembrò pentirsi di aver dato il via, per primo nella storia della Repubblica, ai colpi di mano costituzionali, e ammise pubblicamente di avere sbagliato e di aver imparato la lezione, tanto che, alla sua nascita, il Partito Democratico decise di darsi, come punto di riferimento costante, un Manifesto dei Valori (ancora assolutamente vigente e facilmente consultabile sul sito dello stesso PD) in cui si legge che «La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale».

Sono parole chiarissime, profonde e ispirate, che recuperavano concetti di una maggiore tutela necessaria per l’articolo 138; concetti che, tra l’altro, erano già esplicitati molto prima, nel febbraio del 1995, quando dal Centrosinistra fu presentato un disegno di legge costituzionale che introduceva l’obbligo dei due terzi di voti per ogni revisione costituzionale, e che prevedeva che il referendum si potesse chiedere sempre, e che fosse «indetto per ciascuna delle disposizioni sottoposta a revisione, o per gruppi di disposizioni tra loro collegate per identità di materia». Merita ricordare anche che tra i firmatari di quel disegno di legge figuravano anche Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella che essendo, allora nella minoranza, sentivano l’esigenza democratica di impedire alla maggioranza di mettere le mani sulla Costituzione.

Segnalo questa cosa non tanto per dire che il PD di Renzi sottoscrive una cosa e poi ne fa un’altra, ma per affermare due realtà incontrovertibili. La prima: il PD continua a avere in sé alti valori democratici a livello di principio, ma i suoi vertici, o non hanno letto le carte costitutive del loro partito, oppure non se ne curano minimamente. La seconda è che tantissimi italiani hanno scelto di votare per il PD anche in virtù di questi forti impegni democratici e istituzionali, ripetuti speso anche da sindaci, come quello di Udine, Honsell, a ogni 25 aprile, e che oggi quegli stessi italiani si sentono truffati perché oggi il loro voto è utilizzato da un partito che evidentemente non è più quello che si è presentato alle ultime elezioni politiche, e che quel loro voto è stato utilizzato per tentare di massacrare quella stessa Costituzione che molti dei suoi elettori volevano difendere. Viene da chiedere a Renzi, Serrachiani, Guerrini e tanti altri fedelissimi dell’attuale presidente del Consiglio e segretario del partito – in entrambi i casi pro tempore – se non ritengono che i voti perduti nelle recenti amministrative possano essere collegati proprio al tradimento degli impegni più importanti.

Quindi vorrei aggiungere alle motivazioni per barrare il No sulla scheda elettorale anche il fatto che questo voto non vale soltanto per oggi, ma anche per il futuro. Con la vittoria del No, infatti, si contribuirebbe ad abbattere quel concetto aberrante, ma ormai dato quasi per assodato che ogni maggioranza ha il diritto di farsi la sua Costituzione. Ripeto: lo ha fatto il centrosinistra nel 2001, lo ha fatto il centrodestra nel 2006, ma è stato sconfessato dal referendum; lo stanno facendo nel 2016 Renzi con quella parte di partito che preferisce la fedeltà al capo piuttosto che ai valori fondanti e speriamo che anche questa volta il popolo rifiuti di farsi togliere democrazia.

Perché, come ha dimostrato la Costituente nei sui lavori del 1946 e del 1947, la Costituzione, oltre a limitare i poteri di chi ne ha di più e a difendere chi ne ha di meno, è e deve essere di tutti: per riprendere concetti ormai evaporati, dai monarchici ai comunisti, dai liberali ai socialisti, dai credenti ai laici; non può mai essere di una parte soltanto. E soprattutto non può essere fatta da coloro che hanno già più potere degli altri, ma ne vogliono ancora di più. Magari rassicurandoci: «State sereni: non ne approfitteremo».

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sabato 26 novembre 2016

Qualcuno ha già votato

Il fatto che la Corte Costituzionale spesso finisca per considerare costituzionalmente illegittime alcune leggi e alcune riforme rientra sicuramente nella normalità, come altrettanto normale è che le reazioni di coloro che si sentono dare torto siano abbastanza critiche. Ma questa volta, con la bocciatura di parte della riforma Madia sulla Pubblica Amministrazione, si esce dalla consuetudinarietà, sia per il tipo di decisione della Corte, sia per le reazioni dei delusi.

E partiamo proprio da questi ultimi. Anzi, dal loro capo, Matteo Renzi, che ha reagito rabbiosamente: «È una vittoria dei burocrati», ha sibilato. E – anche se da un organo istituzionale ci sarebbe da attendersi quel rispetto più volte da lui affermato in campagna referendaria nei confronti di un organo di garanzia – c’è da capirlo, nella sua stizza, perché nelle motivazioni della sentenza della Suprema Corte si legge che la riforma Madia lede l’autonomia delle Regioni. E che lo fa in quattro punti cruciali: dirigenti, società partecipate, servizi pubblici locali, organizzazioni del lavoro.

C’è da capirlo nel suo dispetto perché quella stessa Corte Costituzionale, che aveva deciso di rimandare la propria decisione sulla costituzionalità dell’Italicum per non influenzare il voto al referendum, questa volta ha deciso di intervenire in maniera pesante su argomenti che sono consustanziali, più che contigui, al complesso del Titolo V, quello che si occupa, appunto, dei rapporti tra Stato e Regioni e che è una delle fonti di maggiori novità e più forti critiche per la riforma costituzionale. E questo non può non voler dire qualcosa in quanto la Corte, senza neppur dover mettere in evidenza la sua scelta, avrebbe potuto rinviare tranquillamente la decisione di un paio di settimane.

E, a quel punto, con la vittoria del No, non avrebbe avuto problemi a dire le medesime cose che ha detto ieri. Con la vittoria del sì, invece, la Corte avrebbe potuto addirittura evitare qualsiasi giudizio in quanto si sarebbe trovata a dover ragionare su una Costituzione diversa; perché – è bene ricordarlo – la Consulta deve esprimersi sulla Costituzione vigente, mentre non può esprimersi su progetti futuri.

Quindi, se ha deciso di esprimersi subito, con la Costituzione ancora in vigore, questo evidentemente vuol dire qualcosa. E, pur rendendomi conto che le mie opinioni, i miei ragionamenti e le mie conclusioni devono limitarsi a essere catalogate come ipotesi, senza possibilità di conferma certa vista la consolidata riservatezza dei giudici, mi sembrano talmente logiche che mi appare doveroso condividere queste conclusioni con voi.

Se la Corte ha voluto esprimersi subito, questo significa che intende far capire che, almeno per il Titolo V, la riforma costituzionale Boschi–Renzi–Napolitano non è da lei apprezzata.

In pratica, almeno secondo me, un primo voto sulla riforma è stato già dato, con una decina di giorni di anticipo sul referendum, da un’istituzione di grande peso. Ed è un voto negativo.

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giovedì 24 novembre 2016

La buona educazione

Il tema della buona educazione è stato da me toccato una sola volta durante questa lunghissima campagna referendaria: quando ho annotato che, nel dibattito televisivo tra loro, con la sua indefettibile presenza era diventata una pesante palla al piede per chi (Zagrebelsky) ne aveva fatto una pratica quotidiana, mentre con la sua totale assenza era stata una potente arma propagandistica nelle mani di chi (Renzi) forse ne aveva sentito parlare in gioventù, ma poi ne aveva eliminato qualsiasi traccia perché avrebbe potuto fare da freno in alcune sue attività.

Ora, visto che le offese sono diventate il pane quotidiano di Renzi, ma anche di Grillo e di una parte del fronte del No che si colloca nel centrodestra, ritengo giusto far rimarcare la differenza del Fronte del No che da sempre cerca di entrare nel merito, visto che Renzi e i suoi navigano a slogan; ma anche ribadire certe verità che, probabilmente per un eccesso di fair play, sono state accennate all’inizio e poi sono rimaste soltanto sullo sfondo.

Prima questione: la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum. Ebbene, visto che la riforma Renzi-Boschi–Napolitano è stata approvata a colpi di maggioranza, diventa importante il fatto che questa maggioranza sia abusiva e illegittima. Visto che la Corte ha ritenuto fondato il parere di chi vedeva «una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica» nelle attuali Camere in quanto quella legge ha costruito una maggioranza diversa rispetto al verdetto del voto popolare. La Corte ha aggiunto che le Camere potevano comunque restare in carica per il principio di continuità dello Stato, ma il principio di continuità si riferisce a normale amministrazione e alla redazione di una nuova legge elettorale, non al fatto che si possa usare il margine garantito da una maggioranza incostituzionale per cambiare la Costituzione. Se il Porcellum non ci fosse stato, il PD non avrebbe oltre 350 deputati, ma sarebbe abbondantemente al di sotto dei 200 e molto probabilmente Renzi non si sarebbe lasciato tentare di scalare un posto di potere con una maggioranza inesistente.


Ma, pensando a quelli del PD che voteranno come vuole Renzi, vorrei invitarli ad andare a rileggersi quel “Manifesto dei Valori” che è ancora vigente ed è consultabile e scaricabile dal sito internet dello stesso Pd. Quel manifesto risentiva ancora della vergogna di cui si era macchiato il Centrosinistra quanto, nel 2001, aveva approvato a colpi di maggioranza la riforma costituzionale del Titolo V, e, infatti, vi si legge un testo da cui trasuda, palpabile, il rimorso per quello che era stato fatto e il proponimento di non ripetere più il medesimo errore.

Il testo dice: «La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e che resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale».

Sono parole inequivocabili che, infatti, presupponevano la modifica dell’articolo 138 della Costituzione andando a recuperare una proposta già avanzata dal Centrosinistra avanzata nel 1995, quando era stato presentato un disegno di legge costituzionale che introduceva l’obbligo dei due terzi di voti per ogni revisione costituzionale, e che prevedeva che il referendum si potesse chiedere sempre, e che fosse «indetto per ciascuna delle disposizioni sottoposta a revisione, o per gruppi di disposizioni tra loro collegate per identità di materia». Tra i firmatari di quel disegno di legge figuravano anche Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, un presidente della Repubblica emerito e un Presidente della Repubblica in carica.

Forse sarà cattiva educazione ricordare certe cose, ma, visto che ora è stato il Pd a imporre una riforma costituzionale a colpi di maggioranza, più che di cattiva educazione, o di scarso fair play, parlerei di doveroso recupero di memoria democratica. Anche se può infastidire coloro che quella memoria vorrebbero seppellirla insieme a tante altre.

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giovedì 17 novembre 2016

Governicchi e governoni

Non fosse in ballo il destino democratico di un Paese, e soprattutto dei suoi abitanti, ci sarebbe da divertirsi a osservare l’arrabattarsi di Renzi che su questo referendum ha giocato tutto e che sempre più teme di perdere la sua scommessa.

Lo vediamo promettere di tutto e di più: dalla decontribuzione totale per gli assunti al Sud dove, caso strano, il No è in nettissimo vantaggio, agli 800 euro per tutti i nuovi nati, ai 500 euro a tutti diciottenni (è sempre un caso che siano proprio quelli che per la prima volta vanno alle urne), alla quattordicesima (nuova o rafforzata) per una fetta di pensionati, agli 80 euro distribuiti un po’ qua, un po’ là a varie categorie di persone.

Ma lo vediamo anche effettuare giravolte e piroette degne di un grande artista del circo. All’inizio aveva detto che se avesse vinto il No lui si sarebbe ritirato dalla politica. Poi, resosi conto, grazie alle spiegazioni di alcuni influenti amici, che la sua possibile uscita di scena aveva affascinato molta più gente di quanta ne avesse terrorizzata, era precipitosamente tornato indietro affermando che si era trattato di un suo errore e che, comunque, non solo non sarebbe uscito dalla politica, ma addirittura non si sarebbe neppure dimesso.

Ora, accortosi che quella virata di 180 gradi non ha sortito l’effetto sperato, ha bruscamente ripreso la direzione di marcia originale, evidentemente sperando che nella mente degli italiani due contraddizioni possano elidersi in maniera tanto efficace da non lasciare neppure traccia nella loro memoria. Oggi, infatti, ha detto: «Se i cittadini dicono di No e vogliono un sistema che è quello decrepito che non funziona, io non posso essere quello che si mette d'accordo con gli altri partiti per fare un governo di scopo o un governicchio».

È evidente che Renzi dice sempre quello che crede che in quel momento gli conviene di più, o, comunque, quello che gli consigliano i suoi reputatissimi consiglieri strategici di propaganda, ma, al di là della volatilità e volubilità dei concetti, nelle sue dichiarazioni ci sono sempre alcuni punti fermi che permettono di comprenderlo davvero.

In questo caso mi sembra utile soffermarci per un momento sul termine “governicchio” e su come, secondo lui, questo nascerebbe. Ne deriva la constatazione che la differenza tra “governoni” e “governicchi” non risiede nelle cose che questi sono riusciti a fare per il bene del Paese, ma nella quantità di quella che lui chiama “governabilità” – e che in realtà è decisionismo – che quel governo riesce ad avere; nella possibilità di decidere senza doversi sobbarcare la fatica, e soprattutto il fastidio, di dover discutere con altri che non hanno la medesima idea.

Se ne trae, insomma, l’idea che governicchi sono stati quelli che, con faticose discussioni e mediazioni, sono riusciti a far superare a un partito di maggioranza relativo come la Democrazia Cristiana, tanti impedimenti ideologici da far approvare la legge sul divorzio e sull’aborto, o, anche, a far passare lo Statuto dei lavoratori. Senza contare quelli che ci hanno portato dalla distruzione postbellica al boom economico.

Di governoni, invece, non ce ne sono praticamente stati; tranne il suo, ovviamente, che è sicuramente un primatista di promesse, ma che è stato capace di mantenerne ben poche, in primis quelle sulla ripresa economica. E che come suo unico indiscutibile successo può presentare – ai potentati economici, ovviamente – la distruzione dello Statuto dei lavoratori e la riduzione in moderna schiavitù di centinaia di migliaia di lavoratori che non hanno più alcun diritto, neppure quello di lamentarsi.

E questo non è un invito a votare No per far cadere il governo Renzi – del suo destino politico mi interessa poco, o nulla – ma a farlo per scongiurare l’ipotesi che la sua mentalità debordi dai limitati anni di durata di un governo alla ben più lunga durata di vigenza di una Costituzione che – merita ripeterlo – non è una legge qualunque, ma deve stabilire regole condivise e deve limitare i poteri di chi già ne ha di più degli altri. E non il contrario.

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lunedì 14 novembre 2016

La scelta dei tempi

Evidentemente abbiamo qualche problema serio nella coniugazione dei verbi; non tanto nella scelta dei modi, quanto in quella dei tempi.

Per esempio, talvolta usiamo il presente mentre dovremmo adoperare il passato. Ultimamente, infatti, abbiamo più volte sentito ripetere «La sinistra perde…» aggiungendo, poi, a seconda del caso, «… le amministrative», o «… in Francia», o, proprio in questi giorni, «… contro Trump». Ma, ammesso che la si possa chiamare sinistra, invece del presente, avremmo dovuto usare il passato – prossimo o remoto, a seconda dei gusti – perché la sinistra è davvero da tanto tempo che ha perso; e non soltanto alcune elezioni, ma soprattutto, nell’ansia di vittoria, la sua anima.

In altri casi, invece, dovremmo usare il presente e non il futuro. Dire, per esempio, «Se dovesse essere approvata la riforma costituzionale si rischierà un deriva antidemocratica» è sbagliato perché la deriva antidemocratica la stiamo già vivendo ora, anche se bisogna sottolineare che le sue radici affondano indietro nel tempo; almeno fin da quando si è consentito il passaggio e l’uso di leggi elettorali anticostituzionali.
 

È difficile, infatti, definire in altro modo quanto è successo con i quattro milioni di lettere spedite, a firma di Matteo Renzi, agli italiani all’estero per propagandare il sì al referendum costituzionale.

Mettiamo subito in chiaro che sicuramente nessuna legge sarà stata infranta, ma il messaggio di etica politica e di educazione democratica che ne esce è davvero devastante.

Cominciamo da un semplice calcolo matematico per capire quanto possa essere venuta a costare una simile spedizione. Dal sito di Poste italiane si evince che per spedire all’estero una missiva leggera (al di sotto dei 20 grammi) si deve spendere un euro per indirizzarla in Europa e nell’Africa che si affaccia sul Mediterraneo, che servono 2 euro e 20 centesimi per il resto dell’Africa, le Americhe e l’Asia, e che si arriva a 2 euro e 90 centesimi per l’Oceania. Facciamo, a essere molto buoni, una media di un euro e 50 centesimo a missiva e questo comporterebbe una spesa di 6 milioni di euro. Ma siamo ancora più buoni e diciamo anche che, vista la grande quantità di lavoro, Renzi possa avere ottenuto un forte sconto sulla cifra totale, magari rivolgendosi a qualche azienda di posta privata. Diciamo che si possa arrivare al 50 per cento di sconto? Resterebbero sempre 3 milioni di euro. Calate ancora un po’, ma più di tanto non si potrebbe davvero.

Una cifra davvero consistente che, ovviamente, non può essere uscita dalle casse dello Stato perché si tratterebbe di peculato, ma che deve essere uscita da quelle del PD, pur se, probabilmente, a nome di “Bastaunsì”, e magari sotto forma di sostanziose donazioni da parte di abbienti sostenitori di cui nulla per il momento si sa. E saremmo anche curiosi di sapere se la spesa sia stata decisa, o meno, da una direzione del partito e se la minoranza ne fosse stata al corrente.

Ma il vero problema, che getta una luce un po’ inquietante sul modo di pensare e di agire di colui che si è intestato fin da subito la proposta di riforma costituzionale, è la sua continua commistione di azioni, il suo ininterrotto approfittare del suo ruolo pubblico in ogni circostanza per fare propaganda politica spingendo verso un risultato che egli considera determinante per il proprio futuro. Nel suo sfrenato attivismo, dall’assemblea nazionale sul Mezzogiorno alle inaugurazioni di qualsiasi tipo di opera pubblica o privata, anche piccolissima, ogni occasione è buona per presentarsi con la giacca del presidente del Consiglio e approfittare della sua carica per fare una dose di propaganda che poi, inevitabilmente visto che di presidente del Consiglio si tratta, finirà sulle televisioni; nazionali, o locali, a seconda dei casi.

Ma per quanto riguarda la lettera agli italiani all’estero, la situazione è decisamente più grave e fa capire lo spirito di quella riforma che speriamo non diventi mai la nostra Costituzione: in questa lettera Renzi, sia dal punto di vista economico, sia politico, fa propaganda come segretario del PD, ma usa il piglio, la teorica autorevolezza e le parole del presidente del Consiglio.

Rispetto per la costituzionale separazione dei poteri fissata da Montesquieu proprio per evitare pericolose concentrazioni? Qui non c’è più nemmeno la separazione delle cariche.

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martedì 8 novembre 2016

La prima vittima? Il vocabolario

È già stato segnalato molte volte, ma merita ripeterlo ancora: una delle prime e più importanti vittime di questo modo scriteriato di fare politica è il vocabolario. In quella che lo storico Emilio Gentile, nel suo recente libro “Il capo e la folla”, ha definito “democrazia recitativa”, sono tantissimi i vocaboli usati a sproposito, da soli, in locuzioni, o frasi, per far intendere qualcosa che i capi vorrebbero far arrivare alla folla, ma senza che dietro al concetto, oppure allo slogan ci sia un contenuto reale, tangibile e soprattutto corrispondente alla frase stessa.

Se non si usa lo stesso vocabolario vuol dire che non ci si può più capire e, visto che il capire ciò che dice l’altro è la base fondamentale di ogni possibile dialogo e accordo, l’incomprensione reciproca rende non solo impossibile, ma addirittura inutile il confronto e si arriva alla negazione della politica e, quindi, della democrazia.

Proviamo a fermarci per un momento sulla piccata risposta di Debora Serracchiani a Pierluigi Bersani che, dopo gli attacchi alla minoranza richiesti dal capo e accettati dalla folla alla Leopolda, aveva detto che «mentre a Firenze urlavano “Fuori. Fuori”, a Monfalcone gli elettori del PD erano già andati fuori», non sentendosela di votare per la candidata PD e lasciando così campo libero alla candidata leghista per espugnare una delle più tradizionali roccaforti della sinistra. Aggiungendo poi che «c’è un pezzo del nostro mondo che se ne va e dal PD non è arrivato un minimo di riflessione e di riconoscimento di questi problemi».

Ebbene la presidente della giunta regionale così ha risposto: «Bersani non stravolga la realtà ed eviti polemiche fuori luogo».

È evidente che qui le due parti in causa parlano lingue diverse. Bersani si lamenta che alla Leopolda Renzi ha aizzato la folla contro coloro che, all’interno del partito non sono d’accordo con lui e la Serrachiani risponde che non è stato lui a urlare «Fuori. Fuori». Bersani si lamenta che il tonfo monfalconese, come quelli delle amministrative di primavera non porti subito a un’analisi autocritica del perché il PD abbia perduto tanti elettori e la Serracchiani risponde parlando di polemiche inutili. E qui c’è da capirsi: fuori luogo o inutili perché? Perché quando una bottiglia di vetro è andata in mille pezzi, nessuno potrà mai riuscire a ricomporla come non fosse successo alcunché? Oppure perché con le polemiche interne si rischia di rendere ancora più difficile l’unica cosa che a Renzi interessa davvero, e cioè la vittoria al referendum? O, invece, perché la minoranza di un partito ormai, con la democrazia recitativa, non deve permettersi di sollecitare riflessioni a una maggioranza che vuole decidere da sola e che, evidentemente, in qualcosa ha sbagliato? O, ancora, perché non essendo d’accordo con il capo, si può essere accusati di attentare all’unità (quale?) del partito?

Si dirà che neppure in altri partiti la democrazia interna sembra essere un requisito importante. Ma non capisco proprio questo mantra ripetuto spesso soprattutto dalla ministra Boschi: se gli altri sono poco democratici e si comportano male, la stessa cosa deve essere lecita per un partito che vuole farsi ritenere di centrosinistra? E, soprattutto, deve essere accettata senza battere ciglio anche da quegli elettori che di centrosinistra, o di sinistra, sono davvero?

Ho già avuto modo di dire che la cosa che sicuramente non riuscirò mai a perdonare a Renzi è il fatto che ha distrutto l’anima del PD, o, almeno, quella che si pensava avrebbe dovuto essere la sua anima quando è stato fondato. E facendo questo ha mandato scientemente in frantumi, quasi vantandosene, quel centro di gravità che è inevitabile, se si vuole creare convergenze di tipo ulivistico e, quindi condannando il centrosinistra italiano a un rincorsa che durerà parecchio tempo prima di riprendere le dimensioni che, invece, potrebbe avere di natura.

E lo ha fatto, con l’aiuto di tutti i suoi, accanendosi proprio contro quel vocabolario violato chiamando “governabilità” il decisionismo, “semplificazione” l’eliminazione di spazi per il dissenso, “tempi certi” la certezza di non avere troppi fastidi dalle opposizioni, e così via.

Proviamo, ogni volta che sentiamo frasi indigeribili, a chiedere ad alta voce a chi le pronuncia cosa vogliano dire davvero. Potrebbe già essere determinante.


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domenica 6 novembre 2016

La coscienza e la burocrazia

Nel pomeriggio di ieri, quando ho letto le dichiarazioni di Papa Francesco durante l’incontro in Vaticano con i movimenti popolari internazionali, ho provato la stessa sensazione di quando, al mare, si riemerge da una nuotata sott’acqua al limite delle nostre capacità e si torna a inspirare avidamente quell’aria che i nostri polmoni richiedono con forza.

Dopo mesi in cui ci si sente moralmente obbligati a lottare contro il buio incombente di una riforma costituzionale nella quale le parole d’ordine dei propugnatori sono velocità, governabilità, riduzione delle spese della politica e dei suoi attori, e assoluto rispetto dei desiderata dei cosiddetti “mercati”, il messaggio di Francesco è addirittura abbagliante, oltre che graffiante per le coscienze che ancora non si sono rinchiuse in una corazza d’acciaio.

Ricordando Lesbo, Francesco sottolinea che lì ha potuto «ascoltare da vicino la sofferenza di tante famiglie espulse dalla loro terra per motivi economici o per violenze di ogni genere. Folle esiliate a causa di un sistema socio-economico ingiusto e di guerre che non hanno cercato, che non hanno creato coloro che oggi soffrono il doloroso sradicamento dalla loro patria, ma piuttosto molti di coloro che si rifiutano di riceverli. Faccio mie – ha continuato Francesco – le parole di mio fratello l’arcivescovo Hieronymos di Grecia: “Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la bancarotta dell’umanità.”».

E il pontefice si è chiesto, «che cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo... Molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente». La paura, ha insistito Francesco, «indurisce il cuore e si trasforma in crudeltà cieca che si rifiuta di vedere il sangue, il dolore, il volto dell’altro».

E poi si è domandato cosa fare, e si è risposto: «Il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi e anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento».

E qui capisci senza esitazioni che le parole “sinistra” e “destra” hanno davvero ormai poco senso se riferite agli schieramenti sugli scranni parlamentari dei vari partiti politici, entità che continuano a chiamarsi così, ma che della loro funzione originale di cinghia di trasmissione tra il popolo e il potere hanno mantenuto ben poco, se non addirittura nulla.

Ma quelle due parole – sinistra e destra – hanno ancora un senso preciso e strepitante se dividono coloro che hanno come prima preoccupazione il bene di tutti e soprattutto di coloro che soffrono di più, da quelli che, invece, difendono il fazzoletto di terreno e l’angolino di benessere che sono riusciti a ritagliarsi e pensano ai poveri di casa e ai migranti che arrivano da lontano soltanto quando cercano giustificazioni per la loro condotta fatta di rifiuti, di barricate, di muri e dicono che lo fanno – e qui inevitabilmente ci richiamano alla memoria il lupo di Cappuccetto Rosso – «per aiutarli meglio». O aumentando di un po’ le elemosine, o per ritrasferire i problemi «a casa loro» dove i problemi sicuramente non saranno risolti, ma dove non si vedranno nemmeno più, se si avrà quel minimo di attenzione per cambiare immediatamente canale quando la televisione accenna a guerre, o a disastri umanitari.

E poi, dopo questa avida boccata di valori umani, sociali e civili, ecco che prepotentemente torna a cercare spazio la burocrazia, arriva Cuperlo firmando un documento che, secondo lui e i renziani, risolve quasi tutti i problemi e che Miguel Gotor, senatore della minoranza PD, condanna, invece, senza esitazioni: «In assenza di un impegno parlamentare irreversibile e simile a quello profuso da Renzi per varare l’Italicum (allora non istituì commissioni di partito, ma impose la fiducia al Parlamento e fece sostituire dalla Commissione Affari costituzionale dei compagni di partito che la pensavano diversamente), sarà bene adoperarsi per il successo del No. Un esito che consentirà di abrogare l’Italicum grazie alla volontà della maggioranza del popolo italiano».

Noi diciamo da tempo che, anche senza l’Italicum, la riforma costituzionale sarebbe indigeribile perché, in realtà, oltre a essere confusa, pasticciata, contraddittoria, punta anche e soprattutto a trasformare nei fatti una democrazia parlamentare in una democrazia praticamente presidenziale.

E, comunque, un’eventuale nuova legge elettorale – dice Renzi anche in presenza della firma di Cuperlo – dovrebbe comunque assicurare che la sera delle elezioni si deve sapere chi ha “vinto” – vocabolo più adatto a una partita di calcio che a un lavoro per il bene del Paese – e che la maggioranza che ne esce sia ampia e stabile.

E allora è inevitabile rispolverare un paragone espresso da Tommaso Montanari che ritengo molto descrittivo: la Costituzione è assimilabile a una pistola e l’Italicum a un proiettile. Se tolgo di mezzo il proiettile, la pistola resta sempre sul tavolo, pronta a essere armata con un nuovo proiettile e, quindi, il pericolo continua ad aleggiare sulle nostre teste. Perché il nuovo proiettile lo si può mettere anche a gennaio.

Ma, a parte questo, grazie anche ai richiami del Papa indirizzati alla coscienza di ciascuno di noi, ci appare davvero chiaro che dopo una lunghissima parentesi sott’acqua noi vogliamo riprendere a respirare democrazia e non decisionismo. Non sarà un’impresa priva di fatiche, ma non tentare di recuperare il progresso sociale sarebbe un terribile – e laicissimo – peccato di omissione.

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venerdì 4 novembre 2016

Quale semplificazione?

Una delle “parole magiche” più frequentemente usate da Renzi, Boschi e sodali per propagandare il sì alla riforma costituzionale è sempre stata “semplificazione”. Ma sempre più questa parola appare come una presa in giro perché continuano a venire a galla incongruenze, confusioni, pasticci e contraddizioni che fanno pensare, invece, ad altri concetti come “complicazione”, “conflitto istituzionale”, o, addirittura, “inapplicabilità”.

Per quanto riguarda il Senato e la sua rappresentanza, per esempio, è sfuggito quasi a tutti che, se passasse la riforma, a rigor di logica il Friuli Venezia Giulia potrebbe essere presente nel nuovo Senato con un solo senatore: quello scelto tra i sindaci, mentre potrebbe non esserci quello scelto tra i consiglieri regionali. E sarebbe un fatto davvero molto grave, oltre che assurdo, per un Senato delle autonomie che viene favoleggiato come luogo istituzionale creato proprio per rappresentare le necessità e le istanze dei territori. Meglio chiamarli così perché il concetto di autonomia in parte svaporerebbe quasi immediatamente.

Questa vera e propria perla la segnala Fabio Folisi nel suo quotidiano online “Friulisera”. E consiste nel fatto che gli estensori della riforma si sono dimenticati di verificare se, almeno nelle regioni a statuto speciale, la carica di senatore fosse compatibile, o meno, con quella di consigliere regionale. E così – sottolinea Folisi – scopriamo, leggendo l’articolo 15 dello Statuto della Regione Fvg, che: «L’ufficio di consigliere regionale è incompatibile con quello di membro di una delle Camere, di un altro Consiglio regionale, di un Consiglio provinciale, o di sindaco di un Comune con popolazione superiore a 10 mila abitanti, ovvero di membro del Parlamento europeo». La norma è chiara e incontrovertibile: parla di assoluta incompatibilità tra le due cariche che, invece, la riforma Boschi–Renzi–Napolitano vede strettamente legate.
 

Il senso con cui la norma regionale è stata scritta risiede proprio in quella complessità dei compiti affidati sia a un consigliere regionale, sia a un senatore, sia anche alle altre cariche citate nell’articolo 15, che non può permettere di lavorare bene contemporaneamente in due incarichi evidentemente e giustamente ritenuti di grande delicatezza. Oggi, invece, la riforma sembra considerarli due sinecura che possono tranquillamente convivere anche a centinaia di chilometri e ad abissi di distanza di argomenti l’uno dall’altro.

Ebbene, se passasse la riforma, il busillis iniziale sarebbe davvero divertente, se non portasse allo sconforto nel pensare ai nostri cosiddetti nuovi costituenti. Pensateci: un consigliere regionale designato a diventare senatore non potrebbe presentare le dimissioni da consigliere regionale – e queste non potrebbero essere accettate – pena l’automatica decadenza dalla nomina a senatore perché non sarebbe più senatore. Un cane che si morde la coda; un circolo vizioso irrisolvibile dal quale si potrebbe uscire elegantemente soltanto modificando lo Statuto regionale, cosa lunga e difficilissima perché, per cambiarlo, occorrerebbero le medesime trafile usate per la Costituzione e per le leggi costituzionali.

Più semplicemente, sarebbe bastato inserire nelle norme transitorie un comma nel quale si fosse specificato che, in caso di conflitto con gli statuti speciali, le regole costituzionali avrebbero avuto la prevalenza fino alla variazione degli statuti stessi tenendo conto che avrebbero dovuto essere armonizzati con la nuova Carta fondamentale.

Ma questo non è stato fatto e adesso, sempre ammesso che la riforma passi, ci si troverà davanti a una diatriba da azzeccagarbugli tra coloro che dicono che nulla è scritto e quelli che, invece, sostengono che bisogna interpretare le norme nel modo che a loro sembra più opportuno. Non sono un costituzionalista, ma ho la netta sensazione che anche questo discorso, che non riguarda soltanto il Friuli Venezia Giulia, ma anche la Sicilia, che di senatori che ne ha molti di più, e la Sardegna finirà davanti a quella Corte costituzionale che Renzi, Boschi e sodali assicuravano sarebbe rimasta quasi disoccupata.

Senza contare che la Consulta sicuramente dovrà anche confrontarsi con ricorsi presentati sulla maniera di scegliere i senatori, laddove sarà possibile farlo, soprattutto nelle regioni che manderanno a Roma soltanto un senatore–consigliere regionale. Perché i dettami vincolanti per l’elezione di secondo grado sono espressi in tre punti diversi e richiedono contemporaneamente il rispetto della proporzionalità, la parità di genere, il rispetto dell’indicazione degli elettori di primo grado. Come mettere insieme questi tre requisiti è un altro indovinello di difficilissima risoluzione.

Al di là degli inevitabili e amari sogghigni, resta il fatto che vorrebbero che abbandonassimo una Costituzione che necessità di alcuni ritocchi, ma non tanti, e che è chiara e trasparente, per abbracciarne una nuova, stravolgente il nostro concetto di democrazia, scritta davvero con i piedi da coloro che ambirebbero a passare per nuovi padri costituzionali e che è già in partenza un terreno minato che darebbe un dilagante surplus di lavoro alla Corte Costituzionale.

Semplificazione? Ma quale?

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sabato 29 ottobre 2016

La politica e il potere

Ieri, dopo la serata passata a Cividale con Angelo Floramo per “Ahi, serva Italia”, al rientro a casa, ho trovato mia moglie che guardava, su La7, il dibattito referendario tra Matteo Renzi e Ciriaco De Mita e il tono di voce dei due mi ha calamitato, tanto che, pur non nutrendo soverchia simpatia per nessuno dei due, ho continuato a seguirli. E adesso, se è recuperabile da qualche parte, ve ne consiglio la visione. Non perché l’aspro dibattito abbia chiarito qualche punto agli indecisi, ma in quanto ha fatto comprendere in maniera palmare le vere ragioni sul perché l’uno l’abbia voluta così e sul perché l’altro è decisissimo a votare no.
 

E il perché è semplice. Mentre il secondo, infatti, vive di politica e sente il potere come un corollario a questa sua maniacale passione. Il primo, invece, la vede in maniera opposta: vive di potere, ed è la politica per lui a essere un corollario; in pratica soltanto il fastidioso mezzo per avere il potere in mano.

La differenza la si vede nel come i due vedono il fatto che oggi, dopo un lunghissimo e ricchissimo cursus honorum, De Mita sia, a 88 anni, ancora nella mischia, visto che è sindaco di Nusco. Renzi parla di ineliminabile attaccamento alle poltrone; De Mita ribatte che è la sua testa a essere strutturata a vivere di politica e che certamente Nusco, per uno che è stato presidente del Consiglio, più volte ministro e presidente della DC, non è un posto dove un assetato di potere possa sentirsi appagato in questa sua smania. E tra le due tesi la più plausibile mi sembra la seconda.

Ma in questo dibattito – a differenza di quello sostenuto con Zagrebelsky – a far capire molte cose non sono state le argomentazione, bensì le smorfie facciali e le cose urlate. La faccia è sempre molto rivelatrice ed era molto interessante vedere quella di Renzi appena De Mita attaccava con un tono tutt’altro che educato e dimesso. Poi riusciva a somministrare alla telecamera il solito repertorio di sorrisetti e corrugamenti lungamente studiato, ma all’inizio, preso di sorpresa da tale mancanza di rispetto da parte di un quasi novantenne che rifiuta di sentirsi rottamato, la bocca e gli occhi non sono mai riusciti a celare lo sbigottimento da parte di chi è abituato a sentirsi dire praticamente sempre di sì e improvvisamente si vede messo in discussione davanti a un vasto pubblico. Sembrava volesse dire: ma questo sa davvero chi sono io? Ma come si permette? Renzi, insomma non è abituato a simili irrispettose contestazioni, non si trova bene quando il sì per lui non suona. E non comprende l’uso del no; ovviamente solo se il no è indirizzato a lui.

In un contesto totalmente privo di cortesie istituzionali e, almeno in questo, molto più equilibrato di quello con Zagrebelsky in cui era soltanto il professore a tener conto del valore dell’educazione, sono volate battute al veleno: «Ci avete rubato il presente – ha detto Renzi – adesso speriamo che non succeda lo stesso con il futuro». E anche: «Non credo che tu la abbia letta tutta questa riforma». E De Mita non è stato da meno: «Questa è una volgarità che non mi aspettavo e soprattutto detta da chi in politica le ha inventate tutte. Hai fatto un partito dove parli da solo e le tue relazioni in direzione andrebbero pubblicate per capire a cosa si è ridotta la politica. È un mestiere che vuoi gestire in maniera autoritaria». E ancora: «Io non ho rabbia per te, ho pietà, non sarò mai di quelli che cambiano partito. Sono nato e muoio democristiano. Tu non so».

Ma va rilevato anche che, De Mita, pur con tono spocchioso e insolente, ha voluto anche esprimere alcuni ragionamenti soprattutto sulla necessità di fare tesoro della storia , quindi di coltivare la memoria, nonché sul fatto che nella politica la collegialità del ragionamento è sempre un pregio, mentre la velocità eccessiva e a prescindere nel prendere le decisioni è quasi sempre un difetto.

Renzi, invece, si è limitato a fare tre cose. Ha ripetuto ossessivamente che i cittadini dovranno soltanto rispondere alle domande – legittime, ma sicuramente furbesche – del quesito referendario come se in quelle si esaurissero tutte le modifiche di forma, ma soprattutto di sostanza, che lui spera vengano apportate alla Costituzione. Ha continuato a dire che non è scritto da nessuna parte che aumenteranno i poteri del presidente del Consiglio – anche se lui, lasciandosi un po’ andare, spesso lo chiama già adesso premier – come se fosse necessario scriverlo nel momento che tutto è previsto per dargli una maggioranza assoluta, larghissima, omogenea e quindi stabile e, soprattutto, obbediente. Ha fatto capire che si era preparato allo scontro non sui temi della riforma – non sul merito, come piace dire a lui – forse perché pensava di essere inattaccabile, ma soprattutto facendosi preparare un minuzioso dossier su date, avvenimenti e tutte le cose che potevano mettere in cattiva luce l’avversario.

Non ho mai avuto alcuna simpatia per De Mita, ma devo faticosamente ammettere che il confronto tra i due me l’ha fatto quasi rimpiangere. Non per il tipo di governi che presiedeva, ma perché oltre che comandare, anche pensava; e soprattutto percepiva gli umori della nazione e ne teneva conto. Sicuramente perché intendeva mantenersi dov’era, ma anche perché erano ancora vigenti quelle leggi elettorali proporzionali che probabilmente sono l’unica chiave per capire davvero come mai in un Paese come l’Italia si sia potuto, con governi a guida democristiana e con la presenza ovviamente non silenziosa del Vaticano, far passare leggi come quelle sul divorzio e sull’aborto; o anche lo Statuto dei lavoratori che oggi un governo che Renzi dice di centrosinistra quello stesso Statuto ha praticamente demolito, e lo provano i numeri di coloro che sono realmente occupati – e non a un’ora la settimana – e l’aumento straripante dei licenziamenti senza giusta causa e comunque senza motivazione.

Poi è vero: Renzi non immagina di vedersi a fare politica fino a 88 anni, forse neanche fino a 55. La politica è fastidiosa e, se esercitata in democrazia, è anche molto faticosa. Probabilmente lui, invece, sogna di godersi tra una decina di anni i libri di storia in cui agogna non si parli più della Costituzione del 1948 che ha avuto tanti padri che soltanto di pochi ci si ricorda più il nome, ma della Costituzione del 2016 di Renzi; e di lui soltanto. Dio non voglia che questo succeda.

Alla fine della trasmissione c’era un’altra cosa che mi sono accorto di dover mettere nel conto della mia avversione nei confronti di Renzi. Ieri è riuscito quasi a farmi rimpiangere De Mita. Non vorrei che, continuando così, riuscisse a farmi rimpiangere anche Nicolazzi; o giù di lì.


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sabato 22 ottobre 2016

Entrando nei meriti

A ben vedere, il sentimento dominante in questa lunghissima e sfibrante campagna referendaria sembra essere quello della paura. Per molti una paura indotta dalle più o meno velate minacce internazionali. Per alcuni schierati con il Sì, la paura di vedere cosa potrebbe arrivare dopo Renzi. Per una certa fetta di parlamentari e iscritti al PD, la paura di parlare e di agire con decisione all’interno del proprio partito per fargli riacquistare quei valori la cui assoluta mancanza non può più essere nascosta soltanto dal fatto di non aver cambiato il nome. E tanti di coloro che sono schierati per il No sembrano aver paura di dire di aver paura che la riforma costituzionale, se approvata, metterebbe in pericolo la nostra stessa democrazia, anche al di là dell’eventuale combinato disposto con la legge elettorale; perché si rendono conto che la nuova Costituzione ha in sé un alto grado di pericolosità, a prescindere dal mantenimento, o meno, dell’Italicum.

Sul merito della riforma Boschi–Renzi–Napolitano siamo già intervenuti più volte e continueremo a farlo fino al 4 dicembre, ma mi sembra doveroso mettere in luce che il sostantivo “merito” non riguarda soltanto le parole che appaiono nei tantissimi articoli riformati e gli effetti che avranno sulla nostra vita democratica e, quindi, civile. “Merito” è anche il modo in cui a questa riforma e alla sua approvazione parlamentare si è arrivati.
In primis, la proposta di nuova Costituzione sposta il baricentro dell’equilibrio tra poteri dandone di più all’esecutivo e di meno al legislativo, non può non richiamare alla mente la teoria della separazione dei poteri fissata da Montesquieu nello “Spirito delle leggi”, quando ha elaborato e fissato il principio che ogni funzione pubblica deve essere attribuita a un potere distinto (il legislativo che elabora le leggi; l’esecutivo che fa progredire lo Stato applicando le leggi; il giudiziario che, secondo le leggi, dirime le controversie), per evitare che concentrazione di attribuzioni possano spianare la strada a forme di autoritarismo. Una separazione di estrema importanza tanto che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino nell’articolo 169, recita: «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha Costituzione».

E allora la prima tra le tante anomalie di questa riforma consiste nel fatto che è stato uno dei poteri, quello esecutivo, a proporre la riforma di un altro, quello legislativo.

Si potrebbe dire che nessuno griderebbe allo scandalo se fosse stato il Parlamento a proporre una riforma che andasse a incidere sul ventaglio dei poteri del governo; ed è vero. Ma non va dimenticato che è proprio dell’organo legislativo il compito di cambiare le leggi, Costituzione compresa; tanto che Piero Calamandrei disse che durante le discussioni sulla Costituzione e sulle leggi costituzionali, i banchi del governo avrebbero dovuto restare vuoti e che De Gasperi, durante l’intero periodo costituente non prese mai la parola da presidente del Consiglio su temi costituzionali.

E non va dimenticato neppure che, secondo la nostra Costituzione, è il Parlamento e non il governo a essere espressione della volontà popolare, tanto è vero che è il Parlamento – espressione delle democrazia rappresentativa – a decretare la caduta dei governi e che può capitare – come adesso – che il presidente del Consiglio non sia mai stato eletto dai cittadini né alla Camera, né al Senato. Il fatto, insomma, è che la Costituzione dovrebbe venire sempre prima di qualsiasi governo e di qualsiasi presidente del Consiglio.

E di “merito” si parla anche quando si va a esaminare come questa riforma sia stata approvata: non solo per la legittimità di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale, ma perché la fretta con cui è stata portata avanti la riforma è stata inqualificabile, tanto che la commissione Affari costituzionali del Senato non è riuscita neppure a concludere i suoi lavori e i membri della commissione hanno avuto i tempi di intervento contingentati fino al ridicolo: 10” su ogni emendamento. O, più esattamente, democraticamente parlando, al drammatico.

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