sabato 7 novembre 2015

Modernizzazione e modernità

Si può tranquillamente immaginare Bruno Vespa che sorride e si stropiccia le mani mentre Renzi gli dice che «Il ponte sullo stretto di Messina si farà, ma pensiamo prima alle emergenze». Di primo acchito si potrebbe pensare che l’attuale presidente del Consiglio pro tempore voglia proprio riuscire a fare tutto quello che Berlusconi aveva immaginato, ma fortunatamente non era riuscito a concretizzare; anche le cose più assurde, inutili, ultracostose e, pure per questo, pericolose anche in senso sociale. Poi ci si sofferma sulla seconda parte della frase – «Pensiamo prima alle emergenze» – e ci si rende conto che le emergenze in questo Paese non finiranno mai (la stessa città di Messina è senz’acqua da decine di giorni) e che, quindi, mai il ponte sullo stretto sarà realizzato.

Lo stesso Delrio fornisce un parziale elenco di emergenze che fanno capire quanto lontano possa essere quell’opera faraonica: «La crisi idrica a Messina; la soluzione di problemi infrastrutturali, come terminare la Salerno – Reggio Calabria, la linea alta velocità e alta capacità Napoli – Bari – Taranto – Lecce, la Messina - Catania - Palermo, rendere i nostri porti competitivi per il Mediterraneo e l’Europa. E mi limito soltanto alle necessità per il Sud».

Tutto tranquillo, dunque? Forse dal punto di vista pratico, ma da quello politico, invece, le preoccupazioni ci sono e, anzi, continuano ad aumentare. Non soltanto per la somiglianza sempre più spinta con i concetti di Berlusconi, ma proprio per il modo di fare politica, di puntare sul sensazionalismo promettendo (o, in questo caso, minacciando) più che facendo, per poi dire, però, che la propria politica è quella del fare: proprio come diceva il declinato ex cavaliere.

Se ci fate caso entrambi hanno parlato spessissimo di modernizzazione, ma, ammesso che lo sia, è una modernizzazione senza modernità. Anzi, alla resa dei conti ci si trova di fronte a una modernizzazione fatta di regresso civile, sociale e democratico, diffuso e preoccupante che, a onor del vero, sta investendo gran parte dell’Europa con momenti di ripulsa nei confronti dei migranti, punte di razzismo, commissariamenti per motivi economici di intere nazioni e delle loro democrazie, spiccato disinteresse nei fatti delle sempre più diffuse situazioni di sofferenza dei cittadini.
 

Come molti suoi colleghi europei, insomma, Renzi è perfettamente in linea con il pensiero espresso a suo tempo dai ricchissimi contabili delle agenzie di rating che, con grande efficacia, hanno diffuso il dubbio che i Parlamenti liberamente eletti e le procedure democratiche non fossero in grado di garantire decisioni tempestive in campo economico, come se queste decisioni dovessero essere quasi automatiche e non attentamente valutate e soppesate perché poi incidono drammaticamente sulla vita delle persone.

Tutto questo ha portato a una progressiva crescita della disuguaglianza economica e a un’escalation delle ambizioni politiche dei più ricchi e già potenti per conquistare ulteriore potere e altre ricchezze, esibendo creden¬ziali tecnocratiche quasi sempre false, o attraverso una retorica populista, oppure ancora cercando sistemi per ottenere più facilmente consensi plebiscitari. In definitiva mettendo in campo comportamenti che hanno messo in pericolo il sistema della democrazia che ormai è una parola di cui ci si riempie la bocca quando fa comodo, ma che in realtà è considerata – come tante altre volte nella storia – come un lusso insostenibile.

Noi avremmo bisogno di uomini che lavorino proprio per difendere questa democrazia - e quindi i cittadini di questo Paese - e non il proprio potere usando fuochi artificiali che puntino a distrarre gli elettori dai tanti veri problemi che li angustiano attraendo, nel contempo, alcuni dei nostalgici dell'ometto di Arcore.

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venerdì 6 novembre 2015

I vecchi difetti

È ormai stucchevole insistere sul raccapriccio che coglie qualsiasi persona di sinistra nel vedere le scelte politiche volute da Renzi: talvolta può ancora capitare di farlo, ma soltanto per rimarcare certi apici di sfrontato leaderismo e incredibile faccia tosta nel dirsi di sinistra da parte sua, o di ottuso servilismo da parte dei suoi fedelissimi. Per il resto, la triste strada che attende il PD sembra abbastanza delineata: un progressivo abbandono da parte degli iscritti ancora di sinistra, e un contemporaneo afflusso di esponenti del centro e del centrodestra affascinati sia dal potere del capo, sia dal fatto che è riuscito a far passare cose che Berlusconi avrebbe fortemente voluto, ma che non aveva mai ottenuto di far approvare. Insomma, non una dissoluzione, ma una totale trasformazione in qualcosa che magari potrebbe anche mantenere il vecchio nome, ma sarebbe in realtà quell’orrenda ammucchiata del Partito della Nazione che porterebbe alla fine di quella democrazia disegnata dai nostri padri costituenti e per la quale milioni di italiani si sono battuti in circostanze diverse; più o meno pericolose, ma che sempre hanno richiesto impegno e fatica.
 
Adesso se ne sono andati dal PD i deputati D’Attorre, Galli e Folino che, per «mancanza di dialettica interna», hanno raggiunto Fassina, Gregori, Mineo, Civati, Cofferati e altri ancora, mentre restano dentro Bersani che ribadisce la sua determinazione a cambiare il partito dall'interno, Cuperlo, Speranza e molti ulteriori dissidenti che, però, sempre meno possono sperare di riuscire a impossessarsi del timone di una barca la cui rotta tende sempre più a destra.

E a questo punto credo sia più importante guardare a cosa sta succedendo nella sinistra, quella al di là del PD dove fin da subito baluginano i vecchi difetti che da sempre ne hanno tarpato le ali. D’Attorre, infatti, ha annunciato una manifestazione per proclamare la nascita di un nuovo gruppo parlamentare formato da fuoriusciti dem e da esponenti di Sel. «Sarà – dice – una vasta formazione di sinistra plurale e aperta. Sarà un’altra idea dell’Italia. Metteremo in campo una nuova proposta politica». E immediatamente Pippo Civati sente il bisogno di smarcarsi, di provare a fare qualcos’altro, magari dopo aver sondato le intenzioni di Marino.

Potremmo limitarci a stigmatizzate il fondatore di Possibile, ma non faremmo altro che perpetuare un antico difetto di tutti coloro che, abituati a ragionare in base ai propri principi etici, sociali e politici, hanno una forte difficoltà a scendere già in partenza a compromessi con altri che, pur essendo per la maggior parte delle prospettive molto vicini, si differenziano su alcuni punti che diventano altrettanti spunti di incomprensione, di scontro e di allontanamento.


È una critica, ma anche una sincera autocritica. Lo sforzo che si dovrebbe fare a sinistra è quello, infatti, di ridurre al minimo possibile i punti di inconciliabilità tra vicini e provo a muovermi su questa strada indicando quelli che per me, aldilà della legalità, della giustizia sociale, dell’etica in economia e del ripudio di ogni forma di aliofobia, sono momenti assolutamente necessari.

Il primo è quello di una democrazia interna che sia davvero reale e che, quindi, comporti che nessuno, dopo aver partecipato a una discussione, possa affermare: «D’accordo, ma comunque si deve fare quello che dico io». Il secondo è l’apertura, fino a confronto avvenuto e a delusione comprovata, al dialogo costruttivo e al tentativo di alleanza con ogni altro movimento, partito, o associazione di sinistra. Il terzo è un comportamento privo di cadute di stile, come quella purtroppo firmata da un personaggio pur coerente e intelligente come Corradino Mineo con quel suo inaccettabile «lui sa che io so». Il quarto è l’onestà politica che si estrinseca sia in una coerenza di comportamento, sia nella certezza che al momento del voto non si tenterà di confluire nel partito probabilmente vincente tradendo il lavoro di altri che veramente a sinistra vogliono stare. Su altri punti da prendere in considerazione credo si possa trovare un pur faticoso accordo.

Forse qualcuno potrebbe chiedersi perché darsi tanti fastidi per continuare a cercare un’unità delle sinistre che nei fatti appare molto improbabile, se non impossibile. Secondo me vale la pena di farlo non soltanto per rimettere un po’ in sesto la situazione italiana, ma perché è sempre più chiaro che Francis Fukuyama aveva preso un terribile abbaglio quando, nel 1989, subito dopo la caduta del Muro, aveva parlato di «fine della storia» dando per scontata una progressiva convergenza tra le civiltà e i sistemi politici. La realtà, invece, parla di un’era popolata di conflitti tra la solidarietà e l’intolleranza, tra l’emancipazione e l’asservimento, tra la laicità e il fondamentalismo, tra la ricchezza sfacciata e la morte per fame o per malattie curabili.

E sarebbe sbagliato guardare a queste terribili e sanguinose contrapposizioni soltanto dove le cronache del mondo ce le fanno vedere perché è lì che acquisiscono i caratteri più terribili e cruenti; in realtà le stesse contrapposizioni stanno prendendo sempre più corpo anche in Italia e se non si arriverà al più presto a una classe politica decisa a cercare il bene del Paese e di chi ci vive e non soltanto il perpetuarsi del proprio successo elettorale, i frutti potrebbero tornare a essere terribilmente avvelenati.

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