giovedì 23 luglio 2015

E se parlassimo di democrazia?

Seguite con attenzione gli ultimi passi del progetto cosiddetto politico di Matteo Renzi.
Prima mossa: definire un “Patto con gli italiani” nel quale il presidente del Consiglio pro tempore dice: «Se voi voterete le riforme esattamente come le voglio, mi impegno, a cose fatte, a ridurre le tasse». E già qui un paio di considerazioni sono inevitabili. La prima riguarda l’assonanza con il “Contratto con gli italiani” di berlusconiana memoria; ma in realtà quello di oggi è decisamente peggiore perché, mentre Berlusconi giocava quasi soltanto sulla creduloneria degli italiani, Renzi usa, senza la minima remora, l’antica e sempre efficace arma del ricatto. La seconda è che Renzi, anche per la sede in cui lo dice, in realtà non si rivolge agli italiani, che dovrebbero tornare al voto soltanto nel 2018, ma ai parlamentari del PD che sono chiamati a votare nei prossimi mesi le sue cosiddette riforme.

Seconda mossa: chiedere alla Commissione parlamentare antimafia di posticipare la valutazione delle relazioni degli ispettori e del prefetto Gabrielli sulla questione di Mafia capitale; posticiparla rispetto alle decisioni del governo sull’eventuale commissariamento del Comune retto dal sindaco Marino. E anche qui una considerazione appare scontata: Renzi pensa che il potere esecutivo debba essere superiore a quello del Parlamento e, quindi, non accetta indicazioni da un organismo preposto alla valutazione di fatti legati alla malavita organizzata, ma, anzi, vuole mettere in difficoltà la Commissione presieduta dall’antipatica e testarda Bindi che poi sceglie una bizantina via di mezzo, evitando che qualsiasi decisione potesse prendere in futuro, in accordo o in contrasto con quella già presa dal governo, finisse per essere accusata di acquiescenza, oppure di finalità politiche di opposizione.

Terza mossa, non annunciata direttamente da Renzi, ma fatta annunciare, tramite il solito ventriloquio, dai suoi fidi, tra cui ora spicca il nuovo capogruppo alla Camera, l’obbedientissimo Ettore Rosato che, più o meno, ha detto: «Prima si discute nei gruppi parlamentari e nel partito; poi la minoranza deve adeguarsi e votare come vuole la maggioranza, altrimenti ci saranno sanzioni fino all’espulsione». E poi, da comico consumato qual è (forse addirittura anche a Renzi sarebbe scappato da ridere), aggiunge che non si tratta di benzina gettata sul fuoco dello scontro interno, ma della «seconda parte dell’offerta fatta alla minoranza per lavorare insieme al meglio. È un gesto di grande disponibilità». E anche qui il ricatto appare evidente, pur se mascherato dietro un’apparente democrazia che potrebbe anche essere reale se deputati e senatori fossero eletti e non nominati. Ma nominati sono e sanno anche che il loro futuro da parlamentari, magari con un'unica camera reale, dipenderà dalle nomine future, da parte dei vertici del partito, sia direttamente in Parlamento, sia nelle liste elettorali.

Ora si potrebbe discutere a lungo sulla scarsa attendibilità economica e realizzabilità delle promesse fatte (tagli a Imu e Tasi nel 2016, tagli all’Ires nel 2017, tagli all’Irpef nel 2018) e, quindi, di un patto che vede uno sbilanciamento totale a favore di uno solo dei teorici contraenti, ma non è su questo che ritengo sia importante appuntare la nostra attenzione, bensì sul fatto che se uno – a maggior ragione se è il presidente del Consiglio – è palesemente infastidito dalle regole democratiche anche all’interno del proprio gruppo, perché mai dovrebbe applicarle e difenderle all’esterno di quel gruppo, in questo caso nell’intero Paese?

Scrivo da tempo che è vero che una crisi economica è durissima e che ci vogliono tanti sacrifici e alcuni anni per uscirne, ma che una crisi democratica è infinitamente più grave, che i prezzi personali e sociali da pagare per riconquistare la democrazia perduta sono molto più pesanti e che il periodo in cui bisogna lottare per riconquistare quanto si è perso – la storia lo insegna – possono abbracciare anche più di una generazione. Non serve nemmeno pensare al fascismo, al nazismo, al comunismo sovietico, al franchismo, ai tanti regimi militari: basta pensare alla Grecia di oggi che, dopo aver sofferto per strappare il governo ai colonnelli, si è lasciata trasportare dai miraggi economici di un governo di socialisti e di uomini di destra, tanto da diventare ostaggio dei poteri economici e ora, nonostante i voti per Tsipras e il referendum che ha urlato un chiaro «No!», si trova a dover fare quello che vogliono gli altri, non la fantomatica Europa, ma la finanza e i poteri economici. Denaro in cambio di democrazia, che è lo scambio più squallido e scandaloso perché è ancora più pesante, ampio e coinvolgente per altri, di quello di denaro in cambio del proprio corpo.

Questo è un momento politico molto importante perché le mosse di Renzi sono l’ennesima – e forse definitiva – conferma che coloro che vorrebbero far cambiare il PD dall’interno, facendolo tornare su una via che almeno parzialmente torni a guardare a sinistra, devono cancellare ogni speranza di farcela, se non rassegnandosi a raccogliere le macerie che inevitabilmente lo stesso Renzi lascerà dopo aver distrutto scientemente la maggiore massa gravitazionale politica del centrosinistra italiano.

Molti speravano che le evidenti disaffezioni, come le uscite di esponenti di primo piano, o l’enorme quantità di persone di centrosinistra che hanno preferito non andare a votare in Emilia Romagna perché non se la sentivano più di votare questo PD, o le sconfitte incassate nell’ultima tornata delle amministrative per le medesime motivazioni, potessero far cambiare idea a Renzi. Ora devono ricredersi sulla speranza che questi avvenimenti possano spingere il presidente del Consiglio pro tempore a tentare di recuperare i voti persi a sinistra, perché a Renzi della sinistra non interessa minimamente, se non per camuffarsi citandola di tanto in tanto. Anzi alla sinistra è forse addirittura allergico, o quantomeno intollerante. Lui preferisce continuare a tentare di recuperare voti a destra e le cose che fa e quelle che promette non lasciano dubbi su questa sua strategia. Come molti dubbi non possono essere lasciati dal silenzio assordante da lui osservato nel suo lunghissimo comizio milanese su argomenti come la lotta all’evasione, o la questione morale nella rigorosità della scelta dei candidati anche con regole serie per le primarie.

Ora le carte sono quasi tutte in tavola e non può più bastare una critica, pur serrata, alle azioni di Renzi, dei suoi fidi e di coloro che fidi fanno finta di essere per timore di essere estromessi dalle stanze dove ci si sente importanti. Adesso serve elaborare di nuovo programmi e proposte di sinistra e farle sentire alla gente. E serve riprendere a dire “No!” mettendo in gioco se stessi , sapendo bene che se non ci si oppone a qualcosa di sbagliato se ne può diventare automaticamente complici.

Tutto questo significa anche che non funziona più il vecchio sistema di sperare di vincere contando sul fatto che la gente finisca per votare il meno peggio. La sconfitta ligure, ma anche altri recenti risultati, non lasciano dubbi sul fatto che l’andazzo è cambiato. E che inevitabilmente cambierà anche per coloro che sperano di cavarsela operando localmente in maniera diversa da come si comportano a livello nazionale. Perché in ballo sempre più c’è la democrazia che non può funzionare soltanto, come l’economia, geograficamente, a macchie di leopardo.

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lunedì 13 luglio 2015

La parola chiave è “fiducia”

Forse poteva finire anche peggio, ma comunque è finita – ammesso che sia davvero finita – decisamente male. Perché assieme alla Grecia è praticamente morta anche l’Europa, almeno come sogno politico elaborato a Ventotene mentre le dittature erano politiche e militari, e non ancora, come quelle di oggi, economiche e finanziarie.
 
Il punto chiave di questa situazione, ripetuto ossessivamente nelle trattative, risiede sicuramente nella parola “fiducia” e, infatti, la dichiarazione finale del Vertice europeo comincia così: «Il Vertice euro sottolinea l’assoluta necessità di ricostruire la fiducia con le autorità greche quale presupposto per un possibile futuro accordo su un nuovo programma del meccanismo europeo di stabilità».

Fiducia, insomma, da riconquistare da parte dei greci. Ma c’è un altro capitolo ancora più importante: come faranno la Germania, i suoi vassalli, e tutti coloro che per debolezza non si sono opposti davvero strenuamente, a riconquistare la fiducia di quegli europei che ancora sognavano un’Europa davvero in grado di creare un’Unione?

Andiamo con ordine, cominciando dalla Grecia dove la stragrande maggioranza della gente continua a ripetere che «Non hanno nemmeno il coraggio di buttarci fuori dall’euro. Vogliono solo uccidere il nostro Paese cercando di fare passare la tragedia come un suicidio». Ed è difficile dare loro torto ricordando che, se finora i tagli e l’austerità hanno fatto peggiorare drammaticamente la situazione, non si capisce perché altri tagli e altra austerità dovrebbero far migliorare la situazione.

Appare poi evidente che qualsiasi cosa sia costretto a fare Tsipras, pur godendo di grandissima popolarità, renderà ancora più profonde le divisioni nel Paese e ancora più larghe le spaccature nel partito. Senza andare a scomodare i ricordi delle Termopili, appare evidente che l’oltre 60 per cento dei greci che hanno votato “No” al referendum preferisce soccombere dignitosamente piuttosto che morire per umiliazione e inedia, ma è anche altrettanto chiaro che Germania e complici puntano sul fatto che nel Parlamento può costituirsi un’altra maggioranza, senza consistenti fette di Syriza, ma con il determinante apporto di Nea Demokratia e del Pasok, proprio i due partiti che sono i responsabili del disastro economico di Atene, ma anche quelli con cui i maggiorenti economici europei potevano fare quei grandi affari che, evidentemente, puntano a fare ancora, visto che nella dichiarazione finale-diktat del Vertice non soltanto si impongono molte privatizzazioni, ma si precisa anche che «le attività greche di valore saranno trasferite a un fondo indipendente che monetizzerà le attività attraverso privatizzazioni e altri mezzi. La monetizzazione delle attività sarà una fonte del piano di rimborso del nuovo prestito e nel corso della durata del nuovo prestito genererà un importo obiettivo complessivo pari a 50 miliardi di Euro, dei quali 25 miliardi saranno usati per il rimborso della ricapitalizzazione delle banche e altre attività, mentre il 50% di ogni euro restante (ossia il 50% di 25 miliardi di Euro) sarà usato per ridurre il debito in rapporto al PIL e il restante 50% sarà usato per gli investimenti. Tale fondo sarebbe stabilito in Grecia e gestito dalle autorità greche sotto la sorveglianza delle pertinenti istituzioni europee».

È evidente che a questi signori dei cittadini della Grecia non importa nulla. Importa dei soldi e delle privatizzazioni che aprono nuove autostrade di arricchimento per i più ricchi, magari dei Paesi cosiddetti “virtuosi”.

Patetico è il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, che tenta di negare l’umiliazione della Grecia dicendo che «In questo compromesso non ci sono né vincitori né sconfitti. Non penso che i cittadini greci siano stati umiliati, si tratta di un accordo tipicamente europeo». Se così fosse dovrebbe essere querelato per uso improprio e offensivo di un termine – “europeo” – che per milioni di cittadini del vecchio continente ha ancora un valore sacrale.

E altrettanto patetico è anche Matteo Renzi che resta costantemente fuori dalla stanza in cui si decide davvero e che ora tiene un profilo di dichiarazioni molto basso, limitandosi praticamente alla cronaca con un «È stata una nottata di grande impegno e anche di qualche tensione», ma è stato raggiunto «un accordo importante che in molti momenti della nottata non è apparso scontato». Poi dice che la Germania non è despota, forse ricordando che è stata cancellata, da una prima versione già resa pubblica, l’imposizione che l’eventuale “Sì” del Parlamento di Atene avrebbe dovuto essere sottoposto all’ulteriore accettazione dei Parlamenti della Germania, ma anche di Austria, Finlandia, Slovenia, Estonia e Olanda, i Paesi più amici della Merkel e di Scheuble. A proposito di democrazie che non hanno maggior valore di altre.

Dell’Europa che esce da questo Vertice a un europeista convinto non può importare niente: è un simulacro vuoto che di Europa porta solo il nome, che non ha né dignità sociale (i soldi ai creditori prima che la vita ai vivi), né dignità etica (con il recupero dei corrotti e dei corruttori, pur di potersi comperare la Grecia intera), né dignità politica (con l’allontanamento sempre più deciso da un concetto di parità tra nazioni che concorrono a costituire un’Unione e con l’ascolto dei voleri dei cittadini).

Oggi sembra quasi inevitabile stare vicini alla Grecia e stare lontani da questa sedicente Europa per tornare a sognarne una totalmente nuova e davvero degna di tal nome. Non sarà facile, ma è proprio in questi momenti che chi crede nella democrazia non deve dimenticare che le uniche armi possibili, ma anche potenti, sono l’espressione pubblica del proprio pensiero e il voto.

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domenica 12 luglio 2015

Lo sterco del diavolo

Nella Polonia dei gemelli Kaczyński vogliono rimettere in funzione la pena di morte, anche se i principi fondativi europei lo proibiscono? Che problema c’è, tanto riguarda i loro cittadini. Alcune nazioni vogliono mandare i propri soldati in guerra in Paesi come l’Iraq e l’Afghanistan? Facciano pure, tanto i soldati che rischieranno la vita sono i loro. L’Ungheria di Orbán intende costruire muri contro l’ingresso di migranti mentre in altre nazioni si vagheggia la possibilità di mitragliare i barconi? Tranquilli, tanto chissà quegli straccioni da dove arrivano? Uno Stato è in ritardo con i pagamenti e non riesce a restituire il debito? E no! Che esca dall’Europa perché quelli sono anche soldi nostri.
Mi rendo conto che è un riassunto molto grossolano di quello che è accaduto negli ultimi anni nella cosiddetta Unione Europea, ma mi sembra un efficace riepilogo di quella che è la filosofia portata avanti da Frau Angela Merkel e da Herr Wolfgang Schäuble nel nome della loro Germania.

Mi verrebbe da dire, partendo da un celebre passaggio di Nietzsche, da poco ricordato da Umberto Galimberti, che i greci hanno da sempre il coraggio di guardare in faccia il dolore, mentre i tedeschi hanno solo il coraggio di guardare in faccia il dolore degli altri. Ma sarebbe sbagliato: gli accusati non sono i tedeschi; sono i loro governanti e la responsabilità del popolo tedesco è invece quella – ma non è piccola cosa – di aver permesso che quei governanti salissero al potere. E su questo noi italiani non possiamo certamente ergerci a giudici visti i governi ai quali abbiamo permesso – e permettiamo – di dirigere le nostre vite.

Al di là di questo, che i popoli c’entrino davvero poco è confermato anche dal modo in cui, da politici e speculatori, viene dosata sapientemente l’alternanza di ottimismi e di docce gelate, un’alternanza che non ha molti altri scopi se non quello di provocare violente euforie e altrettanto profonde depressioni nelle borse, creando le condizioni indispensabili perché i già ricchi possano ulteriormente arricchirsi e i già poveri, anche quelli che non cedono al fascino del gioco d’azzardo truccato che nella cosiddetta finanza trova la sua più alta espressione, vengano ulteriormente impoveriti.

Siamo nelle mani di personaggi – come il terribile duo tedesco – senza scrupoli umanitari, senza accenni di solidarietà nei confronti degli ultimi, e del tutto refrattari all'idea che stanno afamando degli innocenti mentre i veri colpevoli se la stanno spassando beatamente, ma anche di altri personaggi – Renzi ne è un preclaro esempio – che tentano di sfruttare la situazione accreditandosi come saggi, potenti e grandi mediatori, mentre invece continuano a collezionare dichiarazioni ricche soltanto di sicumera e silenzi che tentano di nascondere, almeno ai più distratti, le vertiginose e repentine marce indietro e le smentite di se stessi che dovrebbero invece fare.

Papa Francesco, con quel suo rigore etico ancor prima che religioso, anche recentemente ha ricordato la definizione evangelica del denaro che è considerato “sterco del diavolo”. Ma se lo sterco può fare schifo, le colpe dell’imbrattamento del mondo e della vita, con quello stesso sterco, ricadono su chi lo maneggia scientemente, con l’unico scopo di incrementare potere e ricchezza. Però, almeno in parte, anche su chi permette che questo avvenga.

Molti in questi giorni dicono che il sogno di Spinelli, Rossi e Colorni stia andando in frantumi. Ma non è così: il sogno di quei tre splendidi visionari continua a rimanere lì, monolitico, bellissimo e intangibile. Quella che oggi si teme possa andare in frantumi non è l’Europa: è soltanto una cosa che si è impadronita di quel nome, guardandosi bene di fare propria anche la sostanza. È una specie di appropriazione indebita che ormai viene praticata abitualmente in vari frangenti: basti pensare a come alcuni si stanno appropriando del nome di sinistra, mentre fanno cose di destra.

Anche per l’Europa, come per la sinistra, il far cambiare rotta è nelle mani degli elettori. Sempre che si creda ancora nel significato originario della parola democrazia, altro termine abusato e sempre più spesso depredato della sua sostanza.

E, a proposito, se è vero, come hanno detto Delors e Juncker per sminuire la portata del risultato del referendum greco, che nessuna democrazia ha più valore delle altre, perché questi ineffabili personaggi non ripetono ora la stessa frase quando è la Germania a entrare a gamba tesa per scompaginare le carte di una decisione di aiuto alla Grecia che gli altri Stati europei avevano praticamente già preso?

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mercoledì 8 luglio 2015

Le cicatrici sotto il cerone

Comunque dovremo essere grati ai greci perché, rimuovendo parte degli spessi strati di cerone autocelebrativo che da sempre accettiamo, ci hanno costretti a guardarci in faccia con più attenzione e a vedere quante cicatrici deturpano il volto dell'Europa.
Un punto estremamente importante, per esempio, è stato portato alla luce dalla smania di ridurre la portata politica del referendum greco. È con questo scopo, infatti, che uno dei padri dell'Europa, Jacques Delors, fortemente e giustamente preoccupato che la sua creatura possa andare in frantumi, ha affermato, riferendosi al referendum, che «la sua legittimazione democratica non è superiore alla legittimazione democratica delle istituzioni della UE». E Jaen-Claude Juncker si è affrettato a raccogliere il passaggio ampliandone la portata e dicendo che «nessuna democrazia europea ha più valore di un'altra».

In apparenza sono dichiarazione ineccepibili, ma le prime crepe - e profonde - di opportunismo politico apparirebbero evidenti già se qualcuno chiedesse a Juncker se aveva in testa il medesimo comandamento di uguaglianza quando, da premier del Lussemburgo, aveva furtivamente trasformato il suo Paese in un paradiso fiscale facendo il danno degli altri Paesi dell'Unione e, conseguentemente, delle loro democrazie.

Ma anche nelle parole di Delors c'è qualcosa che non va; e per vari motivi. Intanto la BCE, assoluta protagonista di tutte le vicende economiche europee non ha assolutamente nulla che fare con la democrazia perché è formalmente indipendente dalla politica e, quindi, svincolata dalla democrazia, ma ovviamente esposta alle pressioni dei più potenti e, quindi, ancora più evidentemente lontana dal potere popolare.

Delors, poi, non può ignorare che la democrazia europea è ancora qualcosa di largamente incompiuto. Basterebbe pensare che l'unico organo eletto direttamente dalla popolazione è il Parlamento Europeo che normalmente si occupa di quote agricole, rapporti internazionali con Paesi lontani, regolamenti interni, di formaggi da fare senza latte e di altre amenità simili. In questo momento, tanto per capirci non affronta le questioni greche (di cui si occupano i vertici dei premier e i subvertici dei ministri economici), né di problemi dei migranti (di cui parla - dire "occupa" sarebbe davvero eccessivo - la Commissione europea), né del fatto che la Tunisia, praticamente unico Stato laico e democratico del mondo arabo, e per di più affacciato sul Mediterraneo, sia attaccato e quasi assediato, anche dall'interno, dai terroristi del califfato dell'Is (di cui non parla proprio nessuno). E non è certamente casuale la scelta politica di Tsipras di deludere i premier europei non presentando immediatamente loro il piano richiesto, ma di voler rivolgere il suo discorso direttamente al Parlamento europeo, l’unica istituzione dell’UE che abbia almeno una parvenza di democrazia.

In questo quadro appare tragicamente buffo che qualcuno possa arricciare il naso sollevando dubbi di legittimità davanti al valore di un referendum che - giova ricordarlo - soltanto marginalmente si è occupato di questioni economiche e di trattati internazionali (materie consuetudinariamente, ma non molto democraticamente vietate alle consultazioni popolari), mentre in realtà ha posto un quesito sulla vita, o la morte, di un intero popolo, di un intero Paese.

Lasciate pur perdere le folkloristiche recite di Grillo che ora inneggia a Tsipras e fa finta di non vedere le differenze abissali che corrono tra il referendum greco e le consultazioni tra qualche migliaio di suoi amici, via internet e senza alcun controllo esterno, che lui pomposamente chiama «democrazia diretta». Non badate alle intemerate populistiche di Salvini secondo cui qualunque cosa accada, dal nascere del sole alle cose più complicate del mondo, succede solo per dare ragione alle sue teorie di esclusione, anche se Salvini stesso dal resto del mondo non è minimamente considerato, se non addirittura disdegnato. E, per carità di patria, dimenticate pure Renzi che prima parla superficialmente di «un derby tra dracma ed euro» e poi, con sommo sprezzo del ridicolo, si propone come mediatore per risolvere, con la profondità e lungimiranza del suo cosiddetto "pensiero", la spinosa situazione.

Indignatevi, invece, perché la Commissione europea decide di mandare "aiuti umanitari" fatti di cibo e medicine non a una nazione del terzo mondo, ma a un Paese che è stato la culla della civiltà europea, che è stato compromesso dall'incapacità e dalla corruzione dei suoi vecchi governanti e che è stato ridotto alla fame proprio da coloro che ora vogliono presentarsi come "salvatori" con qualche pacco di pasta in mano. Arrabbiatevi anche perché la Germania dice alla Grecia: «Parliamo pure, ma tanto a Berlino abbiamo già tutto deciso», con buona pace per la democrazia delle istituzioni europee evocate da Delors e Juncker. E indignatevi pure perché in tutto questo vortice di disastri l'unica a essere scomparsa ad alti livelli - praticamente dappertutto tranne che in Grecia - è la sinistra di cui alcuni si sono impadroniti del nome, ma il cui camuffamento, a meno che proprio non si voglia tenere gli occhi chiusi, non può resistere nemmeno per brevi periodi.


Ma su questo torneremo a breve.

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sabato 4 luglio 2015

Stesse parole, opposti significati

Mentre i greci stanno votando per decidere il loro futuro - non soltanto economico - colpisce ancora una volta molto profondamente come le medesime parole possano trovare apparentemente tutti d’accordo, ma, in realtà, facciano da paravento a significati del tutto opposti.
Prendete la frase «Il baratro si evita facendo le necessarie riforme» e mettetela in bocca a tutti gli attuali esponenti della destra che sono al potere in campo politico e/o finanziario e che la stanno ripetendo come un mantra: Angela Merkel, Mariano Rajoy, Jaen-Claude Juncker, Matteo Renzi, Christine Lagarde, Paul Thomsen, Wolfgang Scheuble, Jeroen Dijsselbloem. Per tutti questi, e anche altri, «fare le necessarie riforme» significa partire soltanto dalle considerazioni di bilancio e, quindi, tagliare occupazione, stipendi, pensioni, sanità, welfare in generale e solidarietà nei confronti dei vicini e dei lontani; e anche ridurre gli spazi di democrazia per ampliare la possibilità di decidere, da parte di chi è in quel momento al potere, rapidamente e senza intoppi derivanti da fastidiosi dibattiti.

Per coloro che pensano a sinistra, invece, il ragionamento parte andando a cercare il perché si sia arrivati a questa situazione, che è acutissima in Grecia, ma non lascia tranquille anche molte altre nazioni. E allora balza agli occhi il fatto che gli unici che vengono puniti dalle decisioni di tipo economico sono i più poveri, che sono anche quelli che della situazione attuale non possono portare alcuna colpa. Perché i disastri economici che stanno angustiando il mondo da ormai troppi anni affondano le loro radici nella corruzione di troppi sistemi economici e politici e ancor di più nella totale mancanza di regole nella quale può impunemente agire la finanza internazionale.

E allora «fare le necessarie riforme» dovrebbe significare, invece, impegnarsi a ripulire la politica, non soltanto a parole e con operazioni di facciata, ma con azioni e scelte decise. Ma dovrebbe significare ancora di più, cominciare a dare regole alla finanza internazionale, trovando una accordo tra tante nazioni che dovrebbero adattarsi a lavorare assieme, ancora meglio di come sono riuscite a lavorare assieme nella lotta contro la malavita internazionale. E dovrebbe significare anche finirla di dire che «lo chiedono i mercati» per il semplice fatto che “i mercati” non sono altro che comodi paraventi dietro i quali si nascondono “esseri umani” (se non è blasfemo usare questa definizione) che puntano soltanto ad arricchirsi, indifferenti al fatto che spesso il crescere del loro conto in banca corrisponde alla morte per fame, disperazione, malattia non curata, di migliaia di persone.

Non so se in Grecia vincerà il sì o il no. E, tutto sommato, la cosa sarà abbastanza indifferente perché a stringere il cappio attorno al collo dei greci saranno comunque sempre gli stessi potenti. So, però, che questo referendum segnerà un punto di svolta in quei desideri di democrazia e di un’Europa più politica e meno contabile che sembravano essersi definitivamente sopiti e che, invece, pur con grandi fatiche e difficoltà riusciranno a tornare al centro della scena.

Uso il futuro e non il condizionale non per cieco ottimismo, ma perché è l’unico sistema possibile per sperare in un mondo meno disumano.


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