martedì 29 dicembre 2015

Il diritto alla speranza

Poco meno di una ventina di giorni fa Debora Serracchiani, dal palco della Leopolda, ha affermato: «Chi a sinistra del Pd dice che lo spazio c'è solo fuori dal nostro partito si assumerà la responsabilità di lasciare spazio ai populismi». Credo che questa, mentre l’anno vecchio se ne sta andando, sia una frase perfetta per capire cosa si vorrebbe avere da quello nuovo. Anzi, per meglio dire, cosa si vorrebbe avere in restituzione da quello nuovo: quel diritto alla speranza che, praticamente con l’unica eccezione legata a Prodi, ci è stato sempre più sottratto dai governi che si sono succeduti da Craxi fino a Renzi. 

Debora Serracchiani in pratica vuole dirci che nel nostro futuro o ci sarà ancora il PD, o le alternative possono essere soltanto la destra antieuropea, xenofoba e razzista di Salvini con Berlusconi e Meloni come ruote di scorta, o la democrazia illiberale, autocratica e antieuropea di Grillo. È la cancellazione, insomma, di ogni speranza di miglioramento.

Per essere sincero, non escludo di poter votare, pur con molti sforzi, per il meno peggio e per il non populista in situazioni di ballottaggio, ma non è nemmeno detto che nelle macerie che ci circondano possa essere individuato un meno “peggio” e un non populista. Perché, se vogliamo dirla tutta, populista è anche chi fa finta di essere di sinistra e si proclama tale, ma fa cose di destra, salva le banche e affossa i risparmiatori, aiuta gli industriali e non i lavoratori, continua a cercare risorse nei soliti modi senza andare mai a colpire i grandi patrimoni, ma preferendo risparmiare sui malati e continuando a definire “sprechi da evitare” quelli che in realtà sono furti da punire.

Sono tutti punti sui quali tenterò di tornare nei prossimi giorni. Per oggi vorrei soltanto augurare a questo Paese che qualcosa possa cambiare e sia in grado di offrirci un ventaglio di scelte più ampio, che possa portare a un cambiamento, che possa ridare tridimensionalità a quei valori di sinistra di cui molti si riempiono la bocca, ma che si guardano bene dal mettere in pratica.

E contemporaneamente vorrei anche sottolineare che la speranza, se si vuole che possa tornare a essere un diritto, ancor prima deve essere un dovere. Se si pensa davvero, insomma, che qualcosa possa e debba cambiare in meglio, che si possa riprendere a sperare, allora è necessario impegnarsi su quello che ognuno sa fare meglio, ma anche sulle cose che si devono ancora imparare. Tutto questo, ovviamente, se si è davvero convinti che la propria dignità sia importante.

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mercoledì 16 dicembre 2015

Maggioranza e giustizia

La vicenda delle quattro banche salvate con i soldi dei truffati dalle banche stesse sarebbe già gravissima di per sé, ma i corollari finiscono per mettere in luce aspetti ancora più preoccupanti per il futuro di questo nostro Paese.
 
Già sarebbe sufficiente a lasciare esterrefatti la constatazione che un ministro, Maria Elena Boschi, creda di essere perfettamente a posto limitandosi a non essere presente al Consiglio dei ministri in cui si votano le iniziative di salvataggio per la Banca Etruria con la quale la sua famiglia è fortemente connessa. Lascia con la bocca aperta anche perché non si era mai finito di criticare Berlusconi che aveva avuto lo stesso comportamento quando si decidevano azioni che favorivano le imprese della sua famiglia.

Ma ancor più grave mi appare la frase pronunciata dalla medesima ministra davanti alla notizia che contro di lei sarà presentata una mozione di sfiducia. «Discuteremo – ha replicato – voteremo in aula e poi vedremo chi ha la maggioranza». E lo dice con la sfrontata tranquillità di chi sa di godere in partenza, a prescindere dallo scontato andamento del dibattito parlamentare, di un’ampia maggioranza. Ma una delle caratteristiche fondamentali della democrazia, rispetto ai regimi autocratici, consiste nel fatto che avere la maggioranza significa che si può decidere, ma non necessariamente che si è anche nel giusto. E, infatti, il voto può punire proprio il fatto di sbagliare nelle decisioni.

Nella fattispecie, è evidente che alla ministra Boschi, ma anche al suo presidente Renzi, importa ben poco di uscire da questa vicenda a testa alta dal punto di vista etico, mentre interessa molto di restare al suo posto.

Tutto questo appare ancora più grave se viene visto in prospettiva generale perché sottolinea per l’ennesima volta che per il Parlamento esiste soltanto la maggioranza, mentre non esiste la giustizia che nulla mai c’entra nella sentenza, di condanna, o di assoluzione che sia. Ed è evidente che un simile contesto è anche determinante nel contribuire a creare quella terribile situazione che è stata ottimamente descritta qualche settimana fa al Centro Balducci dal Procuratore della Repubblica de L’Aquila, Fausto Cardella, che ha detto: «Il problema più grave è che in Italia ormai sembra essere diventato indistinto il confine tra il bene e il male; tra l’onesto e il disonesto».

In questo quadro desolante spicca poi il fatto che in un Paese condotto da un governo che si autodefinisce di centrosinistra i cittadini siano sempre più sottomessi a quello che una volta veniva definito “capitale” e che oggi, nell’ansia di camuffamento del vocabolario, si preferisce chiamare “i mercati”.

Ed è evidente anche che a molti interessa dire – come dimostrano le parole dell’ossequiente e fidissimo Nardella – che non ha più senso parlare di destra e di sinistra. Perché una vera sinistra cose simili le combatterebbe con tutte le sue forze.


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lunedì 7 dicembre 2015

Italia, coraggio!

Dall’indistinto e velleitario brusio che contraddistingue la cosiddetta politica italiana in questi ultimi mesi, si staccano soltanto voci stridenti e insensate, come quella del ministro del Lavoro Poletti, che nella sua cupidigia di servilismo nei confronti di chi ha davvero il potere, sembra dimenticare che il cottimo nei lavori dipendenti è stato praticamente cancellato molti anni fa per la sua evidente iniquità.

Ora, però, merita mettere in rilievo una frase pronunciata da Luigi Zanda, presidente dei senatori PD, a una signora non più iscritta al partito, durante la manifestazione indetta da Renzi – “Italia, coraggio!” – a Campo de' Fiori, a Roma. Il senatore, da un po’ di tempo ferreamente renziano, ha detto alla signora, che affermava che non avrebbe più votato per il PD: «Non dia retta solo alla pancia, usi anche la sua testa».

Dobbiamo essergli grati perché poche frasi avrebbero potuto spiegare meglio lo spirito del PD renziano.

«Non dia retta solo alla pancia» è la prima parte della frase, quella più emblematica perché non parla né di cuore, né di cervello. Zanda non considera possibile che qualcuno possa essere in disaccordo con Renzi perché non approva razionalmente quello che sta facendo, o in quanto è ancora legato ai vecchi valori della sinistra di cui il renzismo sta facendo strame. Per lui soltanto la pancia può essere coinvolta con un irriflesso momento di antipatia non ragionato e non sofferto; non è neppure sfiorato dal dubbio che l’allontanamento di tantissimi iscritti e di ancor più simpatizzanti, possa essere dovuta al fatto che coloro che se ne vanno non si riconoscono più in questo PD. Il partito – ragiona Zanda – è al governo: come si fa a non esserne contenti a prescindere da cosa Renzi faccia a palazzo Chigi?

Ma anche la seconda parte della frase merita di essere ripresa con attenzione: «Usi anche la sua testa». A prescindere dal fatto che pronunciare questa frase nel PD di oggi è un evidente ossimoro, a cosa può servire la testa – si chiede implicitamente il senatore – se non per apprezzare il fatto che attualmente il PD è al potere.

Ed è qui che si spiega benissimo la diaspora che sta riducendo drasticamente sezioni e iscritti. La differenza tra chi resta e chi se ne va, eccezion fatta per alcuni, convinti che ci sia ancora spazio per cambiare il PD dall’interno, consiste nella scelta di cosa sia più importante: la vittoria elettorale, o la fedeltà ai propri valori? Il bene dell’economia, oppure il bene, non soltanto economico, dei cittadini; di tutti i cittadini?
 

Dicono che chi contesta Renzi continuerà a perdere. È possibile. Ma provate a guardare cosa accade quando la cosiddetta sinistra vince rinunciando a se stessa. In Francia, per fare l’esempio più vicino in termini di spazio e di tempo, il socialista Hollande – già in netta crisi prima dei fatti di Parigi e non perché fallimentare nel campo della sicurezza, bensì in quello delle politiche sociali – è sprofondato al terzo posto, mentre il primo partito è il Fronte nazionale di estrema destra. E a questo punto quel che rimane della sinistra si dividerà in due: una parte continuerà a sognare e a lottare, mentre l’altra cercherà nuovi trucchetti per vincere. Io non ho dubbi su quale delle due parti scegliere.

Sul titolo dato da Renzi alla sua manifestazione, però, siamo perfettamente d’accordo: “Italia, coraggio!”. Ce ne vuole davvero.

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sabato 7 novembre 2015

Modernizzazione e modernità

Si può tranquillamente immaginare Bruno Vespa che sorride e si stropiccia le mani mentre Renzi gli dice che «Il ponte sullo stretto di Messina si farà, ma pensiamo prima alle emergenze». Di primo acchito si potrebbe pensare che l’attuale presidente del Consiglio pro tempore voglia proprio riuscire a fare tutto quello che Berlusconi aveva immaginato, ma fortunatamente non era riuscito a concretizzare; anche le cose più assurde, inutili, ultracostose e, pure per questo, pericolose anche in senso sociale. Poi ci si sofferma sulla seconda parte della frase – «Pensiamo prima alle emergenze» – e ci si rende conto che le emergenze in questo Paese non finiranno mai (la stessa città di Messina è senz’acqua da decine di giorni) e che, quindi, mai il ponte sullo stretto sarà realizzato.

Lo stesso Delrio fornisce un parziale elenco di emergenze che fanno capire quanto lontano possa essere quell’opera faraonica: «La crisi idrica a Messina; la soluzione di problemi infrastrutturali, come terminare la Salerno – Reggio Calabria, la linea alta velocità e alta capacità Napoli – Bari – Taranto – Lecce, la Messina - Catania - Palermo, rendere i nostri porti competitivi per il Mediterraneo e l’Europa. E mi limito soltanto alle necessità per il Sud».

Tutto tranquillo, dunque? Forse dal punto di vista pratico, ma da quello politico, invece, le preoccupazioni ci sono e, anzi, continuano ad aumentare. Non soltanto per la somiglianza sempre più spinta con i concetti di Berlusconi, ma proprio per il modo di fare politica, di puntare sul sensazionalismo promettendo (o, in questo caso, minacciando) più che facendo, per poi dire, però, che la propria politica è quella del fare: proprio come diceva il declinato ex cavaliere.

Se ci fate caso entrambi hanno parlato spessissimo di modernizzazione, ma, ammesso che lo sia, è una modernizzazione senza modernità. Anzi, alla resa dei conti ci si trova di fronte a una modernizzazione fatta di regresso civile, sociale e democratico, diffuso e preoccupante che, a onor del vero, sta investendo gran parte dell’Europa con momenti di ripulsa nei confronti dei migranti, punte di razzismo, commissariamenti per motivi economici di intere nazioni e delle loro democrazie, spiccato disinteresse nei fatti delle sempre più diffuse situazioni di sofferenza dei cittadini.
 

Come molti suoi colleghi europei, insomma, Renzi è perfettamente in linea con il pensiero espresso a suo tempo dai ricchissimi contabili delle agenzie di rating che, con grande efficacia, hanno diffuso il dubbio che i Parlamenti liberamente eletti e le procedure democratiche non fossero in grado di garantire decisioni tempestive in campo economico, come se queste decisioni dovessero essere quasi automatiche e non attentamente valutate e soppesate perché poi incidono drammaticamente sulla vita delle persone.

Tutto questo ha portato a una progressiva crescita della disuguaglianza economica e a un’escalation delle ambizioni politiche dei più ricchi e già potenti per conquistare ulteriore potere e altre ricchezze, esibendo creden¬ziali tecnocratiche quasi sempre false, o attraverso una retorica populista, oppure ancora cercando sistemi per ottenere più facilmente consensi plebiscitari. In definitiva mettendo in campo comportamenti che hanno messo in pericolo il sistema della democrazia che ormai è una parola di cui ci si riempie la bocca quando fa comodo, ma che in realtà è considerata – come tante altre volte nella storia – come un lusso insostenibile.

Noi avremmo bisogno di uomini che lavorino proprio per difendere questa democrazia - e quindi i cittadini di questo Paese - e non il proprio potere usando fuochi artificiali che puntino a distrarre gli elettori dai tanti veri problemi che li angustiano attraendo, nel contempo, alcuni dei nostalgici dell'ometto di Arcore.

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venerdì 6 novembre 2015

I vecchi difetti

È ormai stucchevole insistere sul raccapriccio che coglie qualsiasi persona di sinistra nel vedere le scelte politiche volute da Renzi: talvolta può ancora capitare di farlo, ma soltanto per rimarcare certi apici di sfrontato leaderismo e incredibile faccia tosta nel dirsi di sinistra da parte sua, o di ottuso servilismo da parte dei suoi fedelissimi. Per il resto, la triste strada che attende il PD sembra abbastanza delineata: un progressivo abbandono da parte degli iscritti ancora di sinistra, e un contemporaneo afflusso di esponenti del centro e del centrodestra affascinati sia dal potere del capo, sia dal fatto che è riuscito a far passare cose che Berlusconi avrebbe fortemente voluto, ma che non aveva mai ottenuto di far approvare. Insomma, non una dissoluzione, ma una totale trasformazione in qualcosa che magari potrebbe anche mantenere il vecchio nome, ma sarebbe in realtà quell’orrenda ammucchiata del Partito della Nazione che porterebbe alla fine di quella democrazia disegnata dai nostri padri costituenti e per la quale milioni di italiani si sono battuti in circostanze diverse; più o meno pericolose, ma che sempre hanno richiesto impegno e fatica.
 
Adesso se ne sono andati dal PD i deputati D’Attorre, Galli e Folino che, per «mancanza di dialettica interna», hanno raggiunto Fassina, Gregori, Mineo, Civati, Cofferati e altri ancora, mentre restano dentro Bersani che ribadisce la sua determinazione a cambiare il partito dall'interno, Cuperlo, Speranza e molti ulteriori dissidenti che, però, sempre meno possono sperare di riuscire a impossessarsi del timone di una barca la cui rotta tende sempre più a destra.

E a questo punto credo sia più importante guardare a cosa sta succedendo nella sinistra, quella al di là del PD dove fin da subito baluginano i vecchi difetti che da sempre ne hanno tarpato le ali. D’Attorre, infatti, ha annunciato una manifestazione per proclamare la nascita di un nuovo gruppo parlamentare formato da fuoriusciti dem e da esponenti di Sel. «Sarà – dice – una vasta formazione di sinistra plurale e aperta. Sarà un’altra idea dell’Italia. Metteremo in campo una nuova proposta politica». E immediatamente Pippo Civati sente il bisogno di smarcarsi, di provare a fare qualcos’altro, magari dopo aver sondato le intenzioni di Marino.

Potremmo limitarci a stigmatizzate il fondatore di Possibile, ma non faremmo altro che perpetuare un antico difetto di tutti coloro che, abituati a ragionare in base ai propri principi etici, sociali e politici, hanno una forte difficoltà a scendere già in partenza a compromessi con altri che, pur essendo per la maggior parte delle prospettive molto vicini, si differenziano su alcuni punti che diventano altrettanti spunti di incomprensione, di scontro e di allontanamento.


È una critica, ma anche una sincera autocritica. Lo sforzo che si dovrebbe fare a sinistra è quello, infatti, di ridurre al minimo possibile i punti di inconciliabilità tra vicini e provo a muovermi su questa strada indicando quelli che per me, aldilà della legalità, della giustizia sociale, dell’etica in economia e del ripudio di ogni forma di aliofobia, sono momenti assolutamente necessari.

Il primo è quello di una democrazia interna che sia davvero reale e che, quindi, comporti che nessuno, dopo aver partecipato a una discussione, possa affermare: «D’accordo, ma comunque si deve fare quello che dico io». Il secondo è l’apertura, fino a confronto avvenuto e a delusione comprovata, al dialogo costruttivo e al tentativo di alleanza con ogni altro movimento, partito, o associazione di sinistra. Il terzo è un comportamento privo di cadute di stile, come quella purtroppo firmata da un personaggio pur coerente e intelligente come Corradino Mineo con quel suo inaccettabile «lui sa che io so». Il quarto è l’onestà politica che si estrinseca sia in una coerenza di comportamento, sia nella certezza che al momento del voto non si tenterà di confluire nel partito probabilmente vincente tradendo il lavoro di altri che veramente a sinistra vogliono stare. Su altri punti da prendere in considerazione credo si possa trovare un pur faticoso accordo.

Forse qualcuno potrebbe chiedersi perché darsi tanti fastidi per continuare a cercare un’unità delle sinistre che nei fatti appare molto improbabile, se non impossibile. Secondo me vale la pena di farlo non soltanto per rimettere un po’ in sesto la situazione italiana, ma perché è sempre più chiaro che Francis Fukuyama aveva preso un terribile abbaglio quando, nel 1989, subito dopo la caduta del Muro, aveva parlato di «fine della storia» dando per scontata una progressiva convergenza tra le civiltà e i sistemi politici. La realtà, invece, parla di un’era popolata di conflitti tra la solidarietà e l’intolleranza, tra l’emancipazione e l’asservimento, tra la laicità e il fondamentalismo, tra la ricchezza sfacciata e la morte per fame o per malattie curabili.

E sarebbe sbagliato guardare a queste terribili e sanguinose contrapposizioni soltanto dove le cronache del mondo ce le fanno vedere perché è lì che acquisiscono i caratteri più terribili e cruenti; in realtà le stesse contrapposizioni stanno prendendo sempre più corpo anche in Italia e se non si arriverà al più presto a una classe politica decisa a cercare il bene del Paese e di chi ci vive e non soltanto il perpetuarsi del proprio successo elettorale, i frutti potrebbero tornare a essere terribilmente avvelenati.

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giovedì 29 ottobre 2015

Il trattino

Pare incredibile come un piccolissimo segno grafico – un trattino – possa diventare protagonista del dibattito politico. Eppure era già successo quanto il Friuli – Venezia Giulia è diventato Friuli Venezia Giulia e molti si erano assurdamente illusi che la cancellazione di una lineetta potesse corrispondere alla cancellazioni delle differenze e delle diffidenze esistenti tra due storicamente diverse.
Ora si discute se inserire nuovamente il trattino tra le parole “centro” e “sinistra”, oppure se lasciare le due parole unite tra loro, sottintendendo che quel piccolo segno lascia pensare a un’alleanza, mentre la sua assenza fa presupporre un’unione. Per la restaurazione del trattino si esprimono il prodiano Franco Monaco e il deputato pd Carlo Galli; a guardare con orrore alla sua restaurazione è Arturo Parisi che afferma che non avrebbe senso dividersi per poi allearsi; in pratica, ricreando l’Ulivo dopo che si è fatta tanta fatica per costruire il PD. Come se la fatica fatta per realizzare una cosa sbagliata potesse renderla automaticamente giusta.

Per fortuna, mentre alcuni discutono se tenere o meno il trattino, altri si danno da fare. Sono stati presentati svariati ricorsi contro l’Italicum alle Corti d’appello con lo scopo di finire in breve davanti alla Consulta a denunciare l’incostituzionalità di una legge che non ha tenuto conto dei principi affermati dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza che ha cancellato il Porcellum. E sono stati presentati in Cassazione anche due quesiti referendari, mentre si sta già cominciando a lavorare per il referendum nel quale si conta di affossare la cancellazione del Senato.

E intanto, mentre anche Corradino Mineo è uscito dal gruppo PD al Senato, in previsione delle importanti amministrative di primavera si comincia già a tentare di costruire una nuova realtà di sinistra che difficilmente potrebbe già puntare a vincere, ma che ha lo scopo di raggruppare tutti gli insoddisfatti del PD – molti dei quali altrimenti non andrebbero neppure a votare – per far capire al PD che la sua svolta a destra non è accettata e che soltanto tornando a guardare socialmente e politicamente a sinistra e non distruggendo il nostro patrimonio costituzionale questo partito potrà avere ancora un futuro.

Alle preoccupazioni di Parisi che spera che il PD non subisca scissioni, si può tranquillamente rispondere che con l’Ulivo vinceva Prodi che realizzava cose di sinistra. Con il PD vince Renzi che realizza cose di destra. Non si tratta soltanto della presenza, o meno, di un trattino, ma di vera e propria sostanza politica e sociale. Per dirla con un linguaggio caro a Bersani, di una ditta totalmente diversa da quella di una volta.


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domenica 18 ottobre 2015

Giusto e ingiusto

A Udine il presidente del consiglio pro tempore, Matteo Renzi, ha detto che «abbassare le tasse non è né di destra, né di sinistra: è giusto». Ed è rimasto lì ad aspettare gli applausi che doverosamente spettano a ogni frase a effetto. Teoricamente tutti potrebbero limitarsi ad applaudire e ad annuire davanti alle acrobazie oratorie dell’ottimista toscano e poi passare a pensare a come spendere i tanti euro che rimarranno loro in più in tasca.
Ma i meno distratti non possono non ricordare che in un libretto che Renzi vuole cambiare a tutti i costi in alcune sue parti – e soprattutto nello spirito – e che si chiama “Costituzione”, si precisa, all'articolo 53, che «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e che «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». E, quindi, che tagliare, sia le tasse di poche centinaia di euro ai meno abbienti, sia quelle di alcune migliaia di euro ai più ricchi non soltanto non è giusto, ma finisce per realizzare una progressività al contrario.

Dalla frase di Renzi, comunque, deriva, lapalissianamente, che aumentare le tasse non è né di destra, né di sinistra: è sbagliato. E, allora, proviamo a non dimenticare che, nei vari sistemi per recuperare i soldi della mancata tassazione della prima casa, c’è pure quello di inserire nel reddito – e, quindi da tassare – anche la cosiddetta “indennità di accompagnamento” che va ad aiutare a provvedere alle esigenze di chi non è più in grado di camminare, o di provvedere ai comuni atti della vita a causa di un’invalidità al 100 per cento.
È vero che, non essendo legata al reddito, l’accompagnatoria potrebbe riceverla anche Berlusconi, ma sta di fatto che finora andava ad alleviare le condizioni di vita di migliaia di famiglie che soltanto così potevano assistere, o far assistere, un loro congiunto davvero invalido. Ora questa novità crea una serie di disastri non soltanto economici, ma soprattutto umani: intanto, visto che è tassata, diminuisce; poi, facendo aumentare il reddito, può non soltanto rischiare di far scattare nuove aliquote, ma, soprattutto, di togliere ai “beneficiari” il diritto ad altri aiuti e abbattimenti.

Ma anche in questo caso, della progressività costituzionale e, quindi, obbligatoria nella contribuzione ai bisogni dello Stato tra poveri e ricchi, nell’attuale governo nessuno sembra fare la minima attenzione. 

Il fatto è che quando Renzi dice che una cosa «non è né di destra, né di sinistra, ma giusta», dimostra di sapere benissimo cos’è di destra, ma di avere soltanto vaghissime idee di cosa sia di sinistra. E che, quindi, anche il suo concetto di giusto ne risulta piuttosto nebuloso.

Un’ultima cosa: probabilmente per il fatto che sono sempre andato a votare alle primarie del PD, e, quindi, da quel partito sono considerato “simpatizzante”, questa mattina presto ho ricevuto una mail firmata dai vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani e dal tesoriere Francesco Bonifazi, nel quale mi si chiede di abbonarmi all’Unità perché « è un patrimonio di tutto il Paese, ma è soprattutto un nostro pezzo di storia di cui avere cura». E poi si aggiunge che «ogni suggerimento, critica, idea è non solo benvenuta, ma preziosa per fare un altro passo avanti». Un suggerimento lo regalo volentieri: abbiate davvero cura di quella testata e tornate a fare un giornale e non più un illeggibile foglio di propaganda e di idolatria del capo e allora volentieri potrei anche pensare, se non di abbonarmi, almeno di tornare a leggerlo.

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giovedì 15 ottobre 2015

Chi fa più male?


«Portare dai 1.000 ai 3.000 euro la soglia di utilizzo del contante farà crescere evasione e sommerso». La reazione di Bersani è immediata, ma, probabilmente per non far danno alla “ditta”, per il momento tutto si esaurisce lì.
Cuperlo, sempre attento a non perdere il suo aplomb, dopo aver rivendicato il suo ruolo nella mediazione che ha portato all'intesa con Renzi sul nuovo Senato, afferma: «Siamo leali, ma coerenti».

Michele Gotor non molla neppure per un momento il suo cipiglio, ma annuncia il ritiro degli emendamenti alla parte della riforma del Senato che regola l'elezione del presidente della Repubblica e dice: «Ci va bene il testo così com'è, impedisce che la maggioranza possa scegliere il presidente da sola». Poi, sul soccorso portato a Renzi da Verdini, aggiunge: « I vertici del Pd dicono che l'ingresso dei verdiniani in maggioranza è fantapolitica, ma io credo che, se ci saranno rischi per la tenuta del governo, il tema si porrà».

Speranza, l’unico ossimoro formato da una sola parola, prende posizione sul dopo­Marino: «Per non consegnare Roma alla destra o ai 5Stelle, non ci vogliono diktat del Pd dall'alto, vanno fatte le primarie». Probabilmente con la stessa decisione con cui aveva affermato che «i senatori devono essere eletti direttamente dai cittadini».

È una domanda difficile da porre, e da porsi, e sulla quale meditare a lungo prima di dare una risposta, tanto da motivare un silenzio mai così lungo; ma alla fine appare inevitabile: al centrosinistra, inteso non soltanto come somma di ideologie, ma anche come possibilità politica di portare avanti i suoi ideali distintivi, stanno facendo più male Renzi e i suoi ubbidienti accoliti, oppure Bersani, Cuperlo, Gotor, Speranza e i loro scompaginati compagni, ovviamente non nel senso comunista del termine, ma semplicemente in quello che vuole indicare coloro che credono di fare un tratto di strada insieme?

È una domanda pesante per chi ha sempre avuto grande fiducia in Bersani, ma è anche inevitabile perché a essere responsabili dell’indebolimento della nostra democrazia non sono soltanto quelli che, con fredda determinazione, decidono di farlo perché vogliono un sistema politico e, quindi, sociale, nel quale il potere si coaguli nelle mani di pochi, se non soltanto di uno, ma anche quelli che non fanno il possibile per opporsi. Magari indebolendo Renzi con azioni credibili che facciano preventivare un’uscita in massa dal Pd non soltanto da parte dei suoi elettori tradizionali, ma anche da parte di coloro che si illudono di rappresentarli.

Si dirà: ma loro stanno facendo opposizione dall’interno. E fino a qualche tempo fa questa tesi non mi convinceva, ma neppure me la sentivo di considerarla totalmente sbagliata. Il problema è che adesso ha mostrato indiscutibilmente la corda. Per bene che vada, la minoranza interna del PD riesce a ottenere qualche briciola di accomodamento negli aspetti meno importanti delle decisioni portate avanti da Renzi che non ha usato un cavallo di Troia per distruggere il PD, inteso come partito di centrosinistra, bensì è stato lui stesso il cavallo di Troia che ora sta aprendo le porte della cittadella per far entrare tutti coloro che riterranno per loro utile entrare nel nuovo Partito della nazione, che è l’obbiettivo vero del comportamento tutt’altro che democratico dell’ex sindaco di Firenze e dei suoi fiancheggiatori che addirittura hanno dichiarato apertamente che il presidente del Senato avrebbe dovuto mostrare gratitudine al PD – tra l’altro, comunque a un altro PD – per essere stato eletto.

Ora soltanto il referendum popolare potrà bloccare la sciagurata riforma del Senato che per oltre il 99 per cento è rimasta identica a come Renzi la voleva. Nulla potrà impedire che gli evasori e gli elusori possano tornare a esultare per l’allargamento delle maglie della rete che avrebbe dovuto pescarli. A Roma non ci sarà più un sindaco approssimativo, ma sicuramente autonomo e deciso a combattere Mafia capitale, e potrà tornare a spadroneggiare il PD che, nella sua veste romana, fa davvero rabbrividire. Intanto davanti all’ingresso sempre più massiccio di gente di destra in un teorico partito di centrosinistra, si sprecheranno i mugugni, ma ci si fermerà lì. E poi, quando sarà chiaro che restare nel PD di Renzi è senza speranza per chi ragiona a sinistra, sarà decisamente tardi per creare un polo di sinistra che possa nuovamente far sentire il suo peso su una politica italiana che di idee di sinistra non sente parlare più da tempo.

E, allora, è più che giustificata la domanda: fanno più male al centrosinistra Renzi e i suoi obbedienti accoliti, oppure gli scompaginati oppositori a parole, ma molto raramente a fatti politici concreti?

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sabato 19 settembre 2015

La volta buona

Talvolta l’entusiasmo può tradire. Dopo la chiusura di tre ore, a inizio giornata, di Colosseo, Foro Romano e Palatino, Terme di Diocleziano e Ostia Antica, il ministro della Cultura, il dem (ma perché non si cambiano nome?) Dario Franceschini se ne è uscito con la frase: «Ora basta, la misura è colma», proponendo anche di inserire «i Musei tra i servizi pubblici essenziali». E immediatamente Renzi ha twittato: «Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia. Oggi decreto legge #Colosseo#lavoltabuona».
Vi inviterei a lasciar pur perdere il fatto che la cultura, in Italia, è sempre stata ostaggio soltanto della politica che non l’ha mai sostenuta, ma, anzi l’ha affamata anche e soprattutto perché la cultura fa pensare e questa politica ha fame di voti senza motivazioni perché altrimenti le percentuali dei votanti si ridurrebbero ancora più drasticamente di così.

Lascerei pur perdere anche lo scontato tono spregiativo di «quei sindacalisti», ma vi inviterei a soffermare la vostra attenzione sul secondo hashtag: «#lavoltabuona» che lascia trasparire un entusiasmo e quasi un sospiro di sollievo che questa volta si potrebbe tradurre più o meno così: «Finalmente l’hanno fatta grossa e mi hanno dato la possibilità di intervenire contro di loro».

Ma l’hanno fatta davvero grossa i lavoratori sulle cui motivazioni sia Franceschini (che è stato addirittura per otto mesi segretario nazionale del PD), sia Renzi non hanno ritenuto di spendere una parola?

Vediamo. Intanto l’assemblea era stata richiesta in maniera legittima e nei termini di legge con l’anticipo di una settimana e, a quel punto, l’avviso del ritardo dell’apertura doveva essere eseguito non dalle rappresentanze sindacali – che pure l’hanno fatto con un comunicato stampa (che, inevitabilmente, non ha trovato il minimo spazio sugli organi di informazione) – ma dall’ente gestore dei siti archeologici che, in questo caso, non è il Comune, ma lo Stato.

Poi quelle che una volta – quando il termine non risultava così antipatico agli inquilini di palazzo Chigi – si chiamavano “rivendicazioni” non sono cose da poco perché nell’assemblea, che dicono essere stata molto affollata, si è parlato del mancato pagamento, da nove mesi in qua, delle indennità di turnazione e delle prestazioni per le centinaia di aperture straordinarie (dal primo maggio a quelle notturne) che – in omaggio ai contratti modellati sulla “produttività” – avrebbero dovuto costituire circa il 30% del salario; e si è discusso anche della mancata apertura di una trattativa per il rinnovo del contratto dei lavoratori pubblici bloccato per la parte economica da molti anni. Più una serie di altre questioni più specificatamente attinenti al lavoro e alla sicurezza.

Più tardi, l’ineffabile Franceschini, entrando a palazzo Chigi per la riunione del Consiglio dei ministri dove avrebbe chiesto un decreto ad hoc, ha affermato che «Nessuno vuole limitare il diritto dei lavoratori» a fare assemblee o scioperi, aggiungendo, però che «Servono delle regole chiare». Forse sarebbe stato più esatto dire che le regole chiare esistono già da molti anni, ma che al capo di questo governo quelle regole non piacciono e vuole cambiarle.
Intendiamoci: è assolutamente giusto rispettare (e non soltanto perché portano i soldi dei biglietti d’ingresso) i turisti che fanno lunghi viaggi per venire a vedere le nostre bellezze artistiche e storiche, ma sarebbe anche giusto che lo Stato pagasse nella maniera adeguata – ma almeno in quella pattuita – coloro che lavorano per lui. L’avesse fatto, oggi non si starebbe a discutere di questa assemblea perché probabilmente non sarebbe mai stata convocata.

«La volta buona», dice Renzi, perché vi vede l’occasione per continuare nella sua opera antisindacale e, quindi, per togliere un’altra fetta di diritti democratici ai cittadini di questo Paese. Sarebbe il caso che pensassimo più spesso a quanti italiani hanno sacrificato la loro vita durante la Resistenza e durante gli anni di piombo per realizzare il sogno di una repubblica davvero democratica e che ci domandassimo come abbiamo fatto a permettere di tradire così tanto quei sacrifici? Come abbiamo fatto a disattendere così tanto quelle speranze? Com’è possibile che questo nostro popolo italiano, così sensibile nel reagire alle invasioni del proprio territorio e delle proprietà individuali, sia così insensibile davanti alle invasioni dei diritti e alla loro conculcazione?


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giovedì 17 settembre 2015

Se il razzismo non è più reato

Confesso che ogni tanto mi viene il dubbio di trovarmi a criticare il PD di Renzi con una frequenza forse eccessiva; ma francamente la crescente lontananza da un partito per il quale ho quasi sempre votato sta diventando tale che mi sembra di essere addirittura fin troppo tenero e distratto nei suoi confronti. Non per quello che fa perché ogni leader di partito – in un’epoca in cui i partiti si sono ridotti a diventare semplici comitati elettorali – ha il diritto di fare ciò in cui crede, ma perché dice di farlo in nome della sinistra, mentre la sua forza elettorale è data in buona parte dal fatto che i tanti non più elettori del PD sono stati sostituiti da ex elettori berlusconiani soddisfatti del fatto che finalmente Renzi sta realizzando le cose di destra che Berlusconi non era stato capace di fare Oggi, però, il mio disappunto è dato da qualcosa che travalica le decisioni che potremmo definire “politiche” per entrare nel campo di quelle di coscienza. E anche qui le distanze stanno diventando abissali visto che è stato determinante il PD a salvare Roberto Calderoli dal processo di diffamazione con l’aggravante di istigazione al razzismo nei confronti dell'ex ministro Cécile Kyenge. Con il voto di una consistente parte dei senatori del PD l’aggravante è stata negata e, così, viene a cadere anche il processo per diffamazione che, da sola, avrebbe avuto bisogno di una denuncia di parte che non era mai stata presentata in quanto, con l’aggravante, si sarebbe dovuto procedere d’ufficio. È un voto che sdogana il razzismo, che fa sapere che, se si è parlamentari, ci si può fare un baffo non soltanto delle leggi, ma anche della Costituzione, si possono diseducare i giovani e offrire alibi ai beceri e ai violenti. E il perdono della Kyenge a Calderoli c'è stato (nella foto il momento delle scuse), ma soltanto a livello personale; non certamente - perché impossibile - sul piano istituzionale.

Merita ricordare le parole pronunciate da Calderoli nel luglio del 2013 riferendosi all’allora ministro Kyenge alla quale ora, ferita sanguinosamente da alcuni suoi colleghi di un partito nel quale non ha ancora deciso se restare, non rimane che rivolgersi alla Corte europea: «Ogni tanto – aveva sproloquiato il leghista –smanettando con internet, apro il sito del governo e quando vedo venire fuori la Kyenge io resto secco. Io sono anche un amante degli animali, per l'amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, io resto ancora sconvolto».
Ebbene in queste frasi alcuni esponenti del PD non hanno rilevato gli estremi del razzismo. E nei loro confronti non è intervenuto il padrone del PD, Matteo Renzi, che pretende di cancellare la libertà di coscienza e l’autonomia di mandato dei suoi parlamentari quando si tratta di votare qualcosa che fa comodo a lui, ma che, pur riempiendosi la bocca di belle parole nei comizi che possono portare consensi, lascia perfettamente liberi quegli stessi parlamentari di sfregiare gli articoli della nostra Costituzione – almeno il 2 e il 3, per brevità – se la cosa non lo tocca direttamente.
E, bontà mia, mi rifiuto di credere che abbia potuto raggiungere un tale grado di abiezione – come hanno sospettato alcuni – da scambiare la non autorizzazione a procedere con il ritiro degli oltre mezzo milione di emendamenti presentati da Calderoli sulla riforma del Senato.
Il centrosinistra che ricordo io era molto attento a queste cose di semplice umanità, mentre era il centrodestra, quand’era in maggioranza, a permettere che i razzisti se la cavassero senza danni. Ma probabilmente sto sbagliando a usare il tempo imperfetto: sarebbe più giusto usare il presente. Perché il centrodestra non “era”, ma “è” la maggioranza.

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mercoledì 16 settembre 2015

Cosa preferiamo perdere?


La prima scena si svolge in Inghilterra dove la straripante vittoria, alle primarie, di Jeremy Corbyn, esponente della vera sinistra del Partito Laburista inglese, provoca due immediate e opposte reazioni: la corsa alla reiscrizione al Labour di migliaia di ex tesserati delusi dal progressivo spostarsi a destra del partito che da alcuni milioni di iscritti era passato a qualche centinaio di migliaia, e le previsioni catastrofiche per i destini elettorali di Corbyn da parte di Tony Blair, da altri esponenti di punta del Labour e da politologi assortiti. Sulle prime non c'è molto da dire se non che siamo convinti che questo succederebbe anche in Italia se il PD tornasse a essere un partito di centrosinistra. Le seconde, invece, meritano una certa attenzione perché dimostrano che se la sinistra sembra svegliarsi sono in molti a preoccuparsi della cosa.

La seconda scena avviene nelle stanze in cui la maggioranza del PD afferma di voler trovare un accordo unitario con la minoranza sulla spinosa questione delle riforme costituzionali legate al destino del Senato. La senatrice della minoranza dem, Doris Lo Moro abbandona il vertice e parla di «binario morto», specificando di non voler più partecipare alle riunioni con governo e capigruppo perché «non si sta discutendo di nulla». Non solo non si è toccato l'articolo 2 ma nemmeno l'articolo 1 sulle funzioni del nuovo Senato. A stretto giro risponde l’altera Maria Elena Boschi: «Non siamo preoccupati per i numeri» e «Sono emerse differenze all'interno della stessa minoranza Pd». E poi, ossequiente si accoda l’ineffabile Ettore Rosato: «Denis Verdini – aggiunge con incredibile eleganza – ha già votato questa riforma». Intanto Renzi fa esercitare delle pressioni su Grasso che ricordano molto quelle che Berlusconi effettuava a suo tempo ritenendo se stesso molto più importante delle leggi, dei regolamenti, della democrazia. Proprio come Renzi.

Sono due scene da considerare assolutamente insieme perché hanno il merito di riportare in primo piano una domanda che da troppi anni è stata accuratamente evitata, a livello individuale e collettivo, dalla politica e, purtroppo, soprattutto dagli elettori: «Posso accettare più facilmente di perdere le elezioni, o di perdere i miei ideali e, con essi, la mia identità?».
Una domanda che corrisponde, più o meno, a quella che ci pone davanti al bivio in cui decidere se lasciarsi supinamente cambiare dal mondo, oppure, anche se le probabilità di successo non sono tantissime, se tentare di far cambiare quello stesso mondo che non ci piace troppo. Se lasciarsi annullare dalla presunta forza altrui, o lottare con la forza propria.

Perché è la prima ipotesi che le persone di sinistra e di centrosinistra stanno rischiando oggi. Alcuni preferiscono uscire dal PD e condurre la propria battaglia dal di fuori; altri preferiscono farlo dal di dentro; ed entrambe le scelte vanno rispettate, purché non ci sia rassegnazione. Sono scelte divergenti nella parte decisionale, ma partono dal medesimo presupposto che proprio in Blair trova un esempio storico indiscutibile: Blair è stato primo ministro britannico per dieci anni (gli stessi a cui punta Renzi); ha vinto, ma ha tradito le radici del suo partito realizzando politiche di destra e, così facendo, lo ha desertificato. Ora non è detto che Corbyn possa vincere al prossimo appuntamento elettorale (come Syriza in Grecia e, in parte, Podemos in Spagna), ma ha regalato di nuovo alla Gran Bretagna un vero dibattito democratico che prende finalmente il posto di un monologo neoliberista; anche se il “neo–” probabilmente è di più. Renzi sta imitando il suo maestro, ma forse noi, ammaestrati dal passato, potremmo evitare il disastro inglese.

E magari dovremmo anche renderci conto che la sconfitta della sinistra è cominciata con l’accettazione del sistema maggioritario (non è un’accusa ad altri, perché anch’io allora ho votato in maniera sbagliata) che avrebbe dovuto essere rifiutato non perché contrario agli interessi della sinistra, ma perché contrario agli ideali della sinistra che ha sempre voluto che tutti, non solo i potenti, avessero voce, ma anche peso, in capitolo.


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lunedì 7 settembre 2015

Il ponte stradale di Budapest

strazioNessuna vita dovrebbe mai essere sacrificata per qualcosa. Tanto meno quella di un bambino. La foto che qui unisco è stata straziante quando ha cominciato a girare su internet, lo è ancora e continuerà per sempre a esserlo. Vorrei non averla mai vista. Ogni volta che la rivedo mi sforzo di non piangere. E non sempre ci riesco. Perché riproporla oggi? Perché forse sarà questa foto a cambiare il destino di un continente, o, addirittura, del mondo. Lasciamo pur perdere il fatto che si è parlato delle cose che qui si vedono per anni e che nulla si è mai mosso confermando il fatto che sono gli occhi e non le orecchie a mettere in moto il cervello e il cuore; le emozioni e non i ragionamenti. Ma senza questa foto oggi non assisteremmo al fatto che i governi razzisti, xenofobi, o anche soltanto isolazionisti, sono in difficoltà, se non in crisi; che anche i tanti governi indifferenti, o attenti soltanto a curare le proprie coltivazioni di voti, hanno assunto posizioni più solidali e responsabili; che un numero incredibile di gente ha deciso di non curare più soltanto il proprio orticello, ma di darsi da fare per aiutare gli altri; e non soltanto il prossimo - perché chi sta arrivando appare lontanissimo - ma chiunque ha bisogno.
Senza questa foto quello che è il Paese con il governo probabilmente in testa nella classifica del razzismo, l’Ungheria, oggi non sarebbe invasa da automobili di cittadini di uno che era considerato tra i Paesi più indifferenti, l’Austria: cittadini che attraversano il confine per andare a prendere i profughi bloccati a Budapest e per portarli verso la speranza. E se ancora oggi parliamo del "ponte aereo di Berlino", che ha permesso alla principale città tedesca di sopravvivere, pur soffocata dalla morsa sovietica, per molto più a lungo dovremo parlare del “ponte automobilistico di Budapest” che ha permesso alla civiltà dell’Europa di sopravvivere, pur soffocata dalla morsa dell’egoismo e dell’indifferenza.
E questa foto, pur senza parlare, non può non chiedere a ognuno di noi se a qualcuno può davvero importare se quel povero bambino stava scappando dalla probabile morte per guerra, o dalla morte per fame, o per malattie? Non può non chiederci se davvero qualcuno, dotato ancora di qualche briciola di sentimento umano, può credere che dei genitori rischino la vita dei figli, oltre che la propria, alla leggera, soltanto per vivere un po’ meglio. Si può forse consigliare pazienza a un genitore che vede inscheletrire e morire i propri figli anche se non trapassati da proiettili e schegge, soltanto perché quelli che sono comunque veri e propri soprusi di regimi di vario tipo non sono ufficialmente considerati tali?
È possibile che in questo strazio al quale stiamo assistendo si possa ragionare in termini quantitativi? Davanti alla lunghissima fila di disperati che chiedono di entrare per salvare se stessi e i propri cari, quando e perché si dovrebbe poter dire «Basta. Il posto è esaurito. Tu ancora puoi passare; tu, invece, devi tornartene indietro a morire. E senza protestare, senza rompere le scatole e senza tentare di entrare lo stesso.»?
Davanti a quale diritto conculcato si può dire «Tu puoi passare» e davanti a quale, invece, si chiude la porta e si dice «Tu resti fuori»? Chi è che deve stabilire qual è il limite oltre il quale si è autorizzati a non sopportare più e a cercare di andarsene, se non si ha l’animo di fare rivoluzioni? Si può forse legarlo ai voleri della maggioranza del momento del Paese di accoglienza?
In realtà, almeno in Italia, la risposta sarebbe semplice: basterebbe, infatti, affidarsi all’articolo 10 della nostra tanto pericolante Costituzione che dice «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».
E tra le libertà democratiche si sono anche quelle di mangiare, di essere in buona salute, di poter curare i propri cari e di cercare un futuro degno e dignitoso per sé e per loro.
Tutto questo costa? È vero. Ma, come sempre, le spese devono essere valutate in base a quello che, facendo quelle spese si ottiene. Quale spesa avreste potuto ritenere impossibile per evitare che questa foto potesse essere scattata perché quel piccolissimo, sfortunato protagonista potesse essere ancora vivo. Se riuscite a fissare una cifra, non ho davvero alcuna voglia di parlare con voi.
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venerdì 28 agosto 2015

L’esorcismo di Rimini

È tempestiva e assolutamente condivisibile l’analisi (e la condanna) che Guido Crainz fa, su “la Repubblica”, della frase con cui Renzi, con grave e sicuramente voluta sottovalutazione, ha parlato dell’antiberlusconismo come di un fenomeno di settarismo e, quindi, come di una delle cause per le quali l’Italia si è fermata e, anzi, è drammaticamente retrocessa socialmente ed economicamente.

Crainz parla di irresponsabilità di governo, stravolgimento delle istituzioni e di una grande quantità di altre iatture legate al nome dell’ex cavaliere e rigorosamente documentate con rimandi a libri e articoli contemporanei agli avvenimenti analizzati. Ma la cosa più importante, la dimensione reale della portata del berlusconismo, a mio avviso, è quella che Guido definisce «diseducazione civica», perché mentre molte delle altre brutture sono velocemente scolorite con il tramonto di Berlusconi, il veleno peggiore del berlusconismo continua a corrodere il nostro Paese. E non soltanto a destra. Anzi.

Non credo che la corsa alle televisioni, realizzata in piena intesa con Craxi, mirasse soltanto a ripianare una voragine spaventosa di debiti berlusconiani, ma sono convinto che nascondesse anche un ben mirato piano necessariamente sociale ancor prima che politico. Non può essere stata casuale, infatti la determinazione portata avanti, sia con i programmi di cosiddetta “informazione”, sia con quelli di evasione, di minare l’eticità comune facendo balenare dappertutto lo sfavillio di un mondo in cui le uniche cose importanti erano il benessere, la ricchezza, il divertimento a prescindere dalla condizione degli altri. O, forse, addirittura approfittandone. E parlando di eticità non intendo riferirmi, se non secondariamente, alla più che provata sessuomania dell’allora capo della destra e presidente del Consiglio, ma al suo incitamento all’elusione e all’evasione fiscale, alla condiscendenza nei confronti delle mafie, alla cooptazione degli obbedienti e all’acquisto dei disponibili, alle leggi ad personam e ancora ad altre evidenze il cui elenco sarebbe davvero lungo.

Berlusconi non ha avuto né visione politica, per la conclamata insofferenza alle regole e per il leaderismo portato avanti come pretesa soluzione dell’anti-partito e dell’anti-politica, né senso della storia, per l’incapacità di capire a cosa avrebbero portato le sue mosse, a livello nazionale e internazionale, non in un lontano futuro, ma neppure l’indomani.

È in questo senso che l'antiberlusconismo ha avuto ragione di esistere ed esiste, a piena ragione, ancora oggi. Come a piena ragione esiste ancora l’antifascismo. Poi è evidente che nella lunga vita del berlusconismo sono state molte le responsabilità accumulate da una sinistra che correva dietro e non andava avanti per la sua strada e che ancora oggi non riesce a trovare una propria capacità davvero elaborativa e propositiva.

Credo che Renzi, assieme alla pronuncia di una congerie dei suoi abituali slogan, abbia evocato l’antiberlusconismo dal palco del Meeting di Comunicazione e Liberazione di Rimini e, quindi, in un ambiente che sicuramente gli è vicino perché altrettanto sicuramente non è di sinistra, soprattutto per esorcizzare il crescere dell’ antirenzismo che si sta consolidando su alcune delle stesse basi, e soprattutto sulla paura di veder «intaccare quell’equilibrio fra i tre poteri dello Stato che è il fondamento della democrazia» nel nome apparente della “governabilità”, ma nella sostanza di un leaderismo che una volta era la mira di Berlusconi, come adesso è di Renzi.

È da tempo che scrivo che Renzi mi è politicamente estraneo come estraneo mi era Berlusconi. Ma forse la parola più esatta è “alieno” perché non in altra maniera posso definire chi pone l’antiberlusconismo sullo stesso piano del berlusconismo. Sarebbe – e non credo proprio di esagerare – come porre la Resistenza sullo stesso piano del nazifascismo, come attribuire alla Resistenza la causa delle migliaia di morti provocate in Italia dai nazisti e dai repubblichini dal 1943 alla fine della guerra.

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giovedì 20 agosto 2015

Domande scomode

È certo che il segretario della Conferenza Episcopale Italiana, Nunzio Galantino, sull’esempio di Papa Francesco, non usa giri di parole quando si trova ad affrontare temi che hanno a che fare con la dottrina sociale della Chiesa. Dopo l’intemerata contro Salvini e Grillo che ancora una volta si erano scagliati violentemente contro i profughi e che sono stati da lui definiti «piazzisti da quattro soldi che, pur di raccattare qualche voto, dicono cose straordinariamente insulse» e dopo aver sottolineato che «è il governo che è completamente assente sul tema dell’immigrazione», ha deciso di concludere - almeno per il momento - la polemica non partecipando a Pieve Tesino a un incontro su Alcide De Gasperi, ma mandando comunque il testo della sua lectio magistralis nella quale si legge che, a differenza dei tempi del politico trentino, oggi la politica è «un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi» e che «i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia».
 Alcune reazioni sono scontate: Salvini usa il consueto turpiloquio per attaccare chi lo critica; i grillini tentano di negare che monsignor Galantino intendesse riferirsi anche a Grillo che pure era stato estremamente esplicito nel suo blog; quelli di Forza Italia sono un po’ smarriti davanti a prelati che criticano i politici, mentre fino a non molto tempo fa tanti prelati erano ossequienti, mentre monsignor Fisichella, davanti a una bestemmia di Berlusconi, nel tentativo di non fargli perdere voti cattolici, diceva che, evidentemente soltanto per lui, la bestemmia andava “contestualizzata”; gli alfaniani guardano con sommo disinteresse il problema dei migranti, ma fanno finta di indignarsi a essere definiti “cooptati”.

Da valutare con attenzione sono, invece, le reazioni degli esponenti del PD obbligati a esporsi in prima persona per consentire al cattolico Renzi di mantenersi defilato in una questione che, con la Chiesa in campo, può diventare spinosa. Dal punto di vista dei voti che si rischia di perdere, ovviamente, visto che la politica non si occupa più di valori e men che meno di ideologie, ma quasi esclusivamente di campagne elettorali. Ebbene, questi i portavoce del segretario del PD non fanno una piega e, anzi, annuiscono sorridendo quando le accuse sono indirizzate a Salvini e a Grillo. Però quando le critiche si rivolgono al governo l’atteggiamento cambia e dal vicesegretario Serracchiani, per esempio, viene detto che le parole di Galantino sono «ingenerose». E già questa parola la dice lunga sulla difficoltà di barcamenarsi tra la necessità di difendersi e quella di non negare una verità troppo evidente. Infatti è vero che il PD non può usare l’aggettivo «false», ma è anche vero che non si capisce il significato di «ingenerose»: forse si intende dire che Galantino ha ragione, ma che avrebbe potuto fare finta di niente per, diciamo così, “vicinanza politica”?

Molto più interessanti, però, sono le parole dette da Graziano Delrio, altro cattolico fortemente a disagio, dopo la lectio magistralis. Abbastanza scontato è il fatto che il ministro dichiari che bisogna stare «attenti alle analisi sulla politica animate dalla nostalgia dei tempi andati. La politica è fatta di ricambi. E questo è stato il tempo del ricambio e del cambiamento». Sulla qualità dei ricambi e dei cambiamenti, ovviamente, nemmeno una parola.

Più spericolate sono le affermazioni con le quali sostiene che Galantino alimenta l’antipolitica e che non si può dire che tutti i politici sono uguali. È possibile che a Delrio non venga in mente che l’antipolitica è creata proprio da coloro che mal si comportano nelle stanze in cui si decide e non da coloro che li criticano? Ed è possibile che non si accorga che ormai è diventato ben difficile distinguere tra i protagonisti della politica se tutti fanno praticamente le medesime cose, magari stringendo patti tra loro pur di riuscire ad arrivare dove vogliono? E che la scelta degli elettori – di quelli che continuano ad andare a votare – non è più tra “bene” e “male”, ma soltanto quella del “male minore”.

Il fatto è che le affermazioni di monsignor Galantino sono, in realtà, domande alle quali è difficilissimo rispondere in maniera credibile. Come si fa a dirsi cristiani se non si pratica la solidarietà e se tutto viene asservito alla logica del guadagno e della comodità? Come si fa a dirsi democratici se il demos non ha più nemmeno il diritto di eleggere direttamente i propri rappresentanti e se la cosa più importante diventa la governabilità che, per la sua stessa natura, aborrisce il dibattito e il confronto di idee? Come si fa a dirsi di sinistra quando si firmano e si accettano – e non soltanto in tema di lavoro - riforme praticamente uguali a quelle che erano state proposte dalla destra?

Sono domande che richiedono risposte che, se fossero date sinceramente dai fedeli e dai laici, cambierebbero profondamente il panorama sociale e politico di questo nostro Paese.


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lunedì 10 agosto 2015

Votare insieme a Razzi

Ormai dovrebbero saperlo tutti che gli slogan possono andar bene, al massimo, per qualche battuta – e anche un po’ deboluccia – durante una cena tra amici, ma che in politica ormai non soltanto non riescono più a fare presa, ma spesso finiscono addirittura per ritorcersi contro chi li pronuncia.
 
Stupisce, quindi, sentire Debora Serracchiani che, continuando imperterrita nella sua vita di vicesegretario nazionale del PD, che fortunatamente non sempre è coincidente con quella di Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, riferendosi alla sempre più forte opposizione della sinistra dem davanti allo scempio costituzionale voluto da Renzi, possa dire: «Credo che la minoranza del PD si dovrà interrogare se vuole votare insieme a Razzi».

Ora, visto che è assolutamente escluso che Debora Serracchiani sia un’imbecille senza memoria, questo non può che significare che lei stessa considera gli italiani degli imbecilli senza memoria perché – lasciando pur perdere il fatto che talvolta coloro che dicono a Razzi cosa votare possano anche casualmente fare la cosa giusta – è molto difficile pensare che gli italiani, almeno quelli di centrosinistra e di sinistra, non ricordino che è stato proprio Renzi, aiutato dai suoi vicesegretari Serracchiani e Guerrini, dal presidente Orfini, e da tutti i suoi ossequienti ministri e vassalli, a dire, subito dopo il patto del Nazareno, che il Pd doveva assolutamente votare insieme a Razzi.

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venerdì 7 agosto 2015

La barbarie del male minore

Lo si sente dire sempre più spesso, anche dopo la nuova lottizzazione effettuata d’amore e d’accordo con Forza Italia, anche dopo che la famosa “lotta all’evasione” si concretizza in nuovi sconti per gli evasori: «Chi non vuole le riforme consegna l’Italia a Grillo e a Salvini ». 

Lo dicono praticamente tutti i renziani, compresa la vicesegretaria Serracchiani che, dopo la dichiarazione eterodossa sulla votazione senatoriale che ha rifiutato la richiesta di arresto per Azzollini, ora rinsalda le fila del PDR (Partito di Renzi), pur non accodandosi anche all’altro codicillo minatorio ("Ve ne andate tutti a casa") molto amato dai fedeli del presidente del Consiglio pro tempore che, evidentemente, sente sempre più incombente quella fastidiosa mancanza di eternità legata al suo attuale ruolo. Dichiarazioni del genere, infatti, non sono altro che ammissioni di preoccupazione e debolezza mascherate da minacce che possono far breccia sia tra gli eletti, che vedono messa in forse la loro permanenza a Roma, sia tra gli elettori che possono anche spaventarsi davanti all’autarchico e ondivago procedere grillino, o alla stolida chiusura razzista, aliofoba e antieuropeista dei leghisti.

In pratica, agli elettori si dice: «Non vi piace Renzi? Ebbene, pensate a come si starebbe peggio con Grillo e Salvini». In linea di massima si può essere assolutamente d’accordo; anche perché è da troppi anni che ragioniamo così, non votando più per un partito che ci convinca davvero, ma soltanto per la persona che riteniamo meno dannosa di altre. Per il male minore, insomma. Ma credo che ormai non sia più rinviabile il momento in cui chiederci, seguendo le parole di Eyal Weizmann, «se il male minore non sia il nuovo nome della nostra barbarie».

Accettare il male minore, infatti, implica rassegnazione e l’immancabile conseguente sconfitta, per il progressivo lasciare spazio a cose, opere, pensieri detestabili, che invadono quel già non enorme territorio di bene che non ci rassegniamo a veder sparire; in pratica, a lasciare che il male minore diventi la base necessaria sulla quale poi veder edificare il male maggiore.

Davanti al caos e alle frustrazioni immediatamente seguenti il primo conflitto mondiale, i difetti del fascismo, e poi del nazismo, che si presentavano come portatori di ordine e di orgoglio nazionale, sono stati considerati il male minore; e tutti sappiamo a quali orrori abbiano portato. Ancora durante quella stessa guerra l’egualitarismo esasperato - d’arrivo e non di partenza - predicato da Lenin ha fatto considerare il comunismo dei soviet il male minore rispetto al crudele feudalesimo zarista. E anche in questo caso i risultati sono stati funesti. E potremmo continuare a lungo, vagando nel tempo e nello spazio.

Qualcuno sicuramente dirà che una simile visione delle cose è un indebita drammatizzazione della realtà, ma vi invito a riflettere soltanto su un fatto: su quale situazione democratica potrebbe essere quella nella quale saremmo costretti a vivere, se andassero in porto tutte le riforme della Costituzione volute da Renzi, quasi fossero il toccasana - e non lo sono - per risolvere qualsiasi problema economico accentrando quasi tutti i poteri nelle mani di un premier identico a quello sognato a suo tempo da Berlusconi e, forse, ancor prima anche da Craxi. In realtà i costituzionalisti - tutti tranne un paio di renziani di ferro - non nascondono i rischi, se non prevedono, addirittura, sfracelli istituzionali destinati ad avere conseguenze difficilmente riparabili su tutto il tessuto sociale italiano.

E allora, chiediamoci se davvero Renzi è il male minore. Tenendo ben presente che non si è condannati a scegliere soltanto tra il male minore e i mali peggiori (perché anche loro distruggerebbero quell’Italia, piena di difetti, ma sicuramente e disperatamente democratica, uscita dalla Costituente nel 1948).

La scelta, in realtà, per ognuno, deve tornare a essere tra quello che un cittadino considera bene e quello che considera male. Con un unico punto fermo di partenza: che la democrazia è bene e la falsa democrazia non lo è. Ma servono idee, progetti e persone. 

Sono convinto che in Italia ne esistano in abbondanza e che sarebbe ora che si facessero vive, anche senza poter contare in partenza della comicità di Grillo, della spudoratezza di Salvini, dell’inutile ricchezza di Berlusconi, o dell’autoritarismo, e non dell’autorevolezza, di Renzi. Il nostro Paese lo meriterebbe.

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giovedì 23 luglio 2015

E se parlassimo di democrazia?

Seguite con attenzione gli ultimi passi del progetto cosiddetto politico di Matteo Renzi.
Prima mossa: definire un “Patto con gli italiani” nel quale il presidente del Consiglio pro tempore dice: «Se voi voterete le riforme esattamente come le voglio, mi impegno, a cose fatte, a ridurre le tasse». E già qui un paio di considerazioni sono inevitabili. La prima riguarda l’assonanza con il “Contratto con gli italiani” di berlusconiana memoria; ma in realtà quello di oggi è decisamente peggiore perché, mentre Berlusconi giocava quasi soltanto sulla creduloneria degli italiani, Renzi usa, senza la minima remora, l’antica e sempre efficace arma del ricatto. La seconda è che Renzi, anche per la sede in cui lo dice, in realtà non si rivolge agli italiani, che dovrebbero tornare al voto soltanto nel 2018, ma ai parlamentari del PD che sono chiamati a votare nei prossimi mesi le sue cosiddette riforme.

Seconda mossa: chiedere alla Commissione parlamentare antimafia di posticipare la valutazione delle relazioni degli ispettori e del prefetto Gabrielli sulla questione di Mafia capitale; posticiparla rispetto alle decisioni del governo sull’eventuale commissariamento del Comune retto dal sindaco Marino. E anche qui una considerazione appare scontata: Renzi pensa che il potere esecutivo debba essere superiore a quello del Parlamento e, quindi, non accetta indicazioni da un organismo preposto alla valutazione di fatti legati alla malavita organizzata, ma, anzi, vuole mettere in difficoltà la Commissione presieduta dall’antipatica e testarda Bindi che poi sceglie una bizantina via di mezzo, evitando che qualsiasi decisione potesse prendere in futuro, in accordo o in contrasto con quella già presa dal governo, finisse per essere accusata di acquiescenza, oppure di finalità politiche di opposizione.

Terza mossa, non annunciata direttamente da Renzi, ma fatta annunciare, tramite il solito ventriloquio, dai suoi fidi, tra cui ora spicca il nuovo capogruppo alla Camera, l’obbedientissimo Ettore Rosato che, più o meno, ha detto: «Prima si discute nei gruppi parlamentari e nel partito; poi la minoranza deve adeguarsi e votare come vuole la maggioranza, altrimenti ci saranno sanzioni fino all’espulsione». E poi, da comico consumato qual è (forse addirittura anche a Renzi sarebbe scappato da ridere), aggiunge che non si tratta di benzina gettata sul fuoco dello scontro interno, ma della «seconda parte dell’offerta fatta alla minoranza per lavorare insieme al meglio. È un gesto di grande disponibilità». E anche qui il ricatto appare evidente, pur se mascherato dietro un’apparente democrazia che potrebbe anche essere reale se deputati e senatori fossero eletti e non nominati. Ma nominati sono e sanno anche che il loro futuro da parlamentari, magari con un'unica camera reale, dipenderà dalle nomine future, da parte dei vertici del partito, sia direttamente in Parlamento, sia nelle liste elettorali.

Ora si potrebbe discutere a lungo sulla scarsa attendibilità economica e realizzabilità delle promesse fatte (tagli a Imu e Tasi nel 2016, tagli all’Ires nel 2017, tagli all’Irpef nel 2018) e, quindi, di un patto che vede uno sbilanciamento totale a favore di uno solo dei teorici contraenti, ma non è su questo che ritengo sia importante appuntare la nostra attenzione, bensì sul fatto che se uno – a maggior ragione se è il presidente del Consiglio – è palesemente infastidito dalle regole democratiche anche all’interno del proprio gruppo, perché mai dovrebbe applicarle e difenderle all’esterno di quel gruppo, in questo caso nell’intero Paese?

Scrivo da tempo che è vero che una crisi economica è durissima e che ci vogliono tanti sacrifici e alcuni anni per uscirne, ma che una crisi democratica è infinitamente più grave, che i prezzi personali e sociali da pagare per riconquistare la democrazia perduta sono molto più pesanti e che il periodo in cui bisogna lottare per riconquistare quanto si è perso – la storia lo insegna – possono abbracciare anche più di una generazione. Non serve nemmeno pensare al fascismo, al nazismo, al comunismo sovietico, al franchismo, ai tanti regimi militari: basta pensare alla Grecia di oggi che, dopo aver sofferto per strappare il governo ai colonnelli, si è lasciata trasportare dai miraggi economici di un governo di socialisti e di uomini di destra, tanto da diventare ostaggio dei poteri economici e ora, nonostante i voti per Tsipras e il referendum che ha urlato un chiaro «No!», si trova a dover fare quello che vogliono gli altri, non la fantomatica Europa, ma la finanza e i poteri economici. Denaro in cambio di democrazia, che è lo scambio più squallido e scandaloso perché è ancora più pesante, ampio e coinvolgente per altri, di quello di denaro in cambio del proprio corpo.

Questo è un momento politico molto importante perché le mosse di Renzi sono l’ennesima – e forse definitiva – conferma che coloro che vorrebbero far cambiare il PD dall’interno, facendolo tornare su una via che almeno parzialmente torni a guardare a sinistra, devono cancellare ogni speranza di farcela, se non rassegnandosi a raccogliere le macerie che inevitabilmente lo stesso Renzi lascerà dopo aver distrutto scientemente la maggiore massa gravitazionale politica del centrosinistra italiano.

Molti speravano che le evidenti disaffezioni, come le uscite di esponenti di primo piano, o l’enorme quantità di persone di centrosinistra che hanno preferito non andare a votare in Emilia Romagna perché non se la sentivano più di votare questo PD, o le sconfitte incassate nell’ultima tornata delle amministrative per le medesime motivazioni, potessero far cambiare idea a Renzi. Ora devono ricredersi sulla speranza che questi avvenimenti possano spingere il presidente del Consiglio pro tempore a tentare di recuperare i voti persi a sinistra, perché a Renzi della sinistra non interessa minimamente, se non per camuffarsi citandola di tanto in tanto. Anzi alla sinistra è forse addirittura allergico, o quantomeno intollerante. Lui preferisce continuare a tentare di recuperare voti a destra e le cose che fa e quelle che promette non lasciano dubbi su questa sua strategia. Come molti dubbi non possono essere lasciati dal silenzio assordante da lui osservato nel suo lunghissimo comizio milanese su argomenti come la lotta all’evasione, o la questione morale nella rigorosità della scelta dei candidati anche con regole serie per le primarie.

Ora le carte sono quasi tutte in tavola e non può più bastare una critica, pur serrata, alle azioni di Renzi, dei suoi fidi e di coloro che fidi fanno finta di essere per timore di essere estromessi dalle stanze dove ci si sente importanti. Adesso serve elaborare di nuovo programmi e proposte di sinistra e farle sentire alla gente. E serve riprendere a dire “No!” mettendo in gioco se stessi , sapendo bene che se non ci si oppone a qualcosa di sbagliato se ne può diventare automaticamente complici.

Tutto questo significa anche che non funziona più il vecchio sistema di sperare di vincere contando sul fatto che la gente finisca per votare il meno peggio. La sconfitta ligure, ma anche altri recenti risultati, non lasciano dubbi sul fatto che l’andazzo è cambiato. E che inevitabilmente cambierà anche per coloro che sperano di cavarsela operando localmente in maniera diversa da come si comportano a livello nazionale. Perché in ballo sempre più c’è la democrazia che non può funzionare soltanto, come l’economia, geograficamente, a macchie di leopardo.

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lunedì 13 luglio 2015

La parola chiave è “fiducia”

Forse poteva finire anche peggio, ma comunque è finita – ammesso che sia davvero finita – decisamente male. Perché assieme alla Grecia è praticamente morta anche l’Europa, almeno come sogno politico elaborato a Ventotene mentre le dittature erano politiche e militari, e non ancora, come quelle di oggi, economiche e finanziarie.
 
Il punto chiave di questa situazione, ripetuto ossessivamente nelle trattative, risiede sicuramente nella parola “fiducia” e, infatti, la dichiarazione finale del Vertice europeo comincia così: «Il Vertice euro sottolinea l’assoluta necessità di ricostruire la fiducia con le autorità greche quale presupposto per un possibile futuro accordo su un nuovo programma del meccanismo europeo di stabilità».

Fiducia, insomma, da riconquistare da parte dei greci. Ma c’è un altro capitolo ancora più importante: come faranno la Germania, i suoi vassalli, e tutti coloro che per debolezza non si sono opposti davvero strenuamente, a riconquistare la fiducia di quegli europei che ancora sognavano un’Europa davvero in grado di creare un’Unione?

Andiamo con ordine, cominciando dalla Grecia dove la stragrande maggioranza della gente continua a ripetere che «Non hanno nemmeno il coraggio di buttarci fuori dall’euro. Vogliono solo uccidere il nostro Paese cercando di fare passare la tragedia come un suicidio». Ed è difficile dare loro torto ricordando che, se finora i tagli e l’austerità hanno fatto peggiorare drammaticamente la situazione, non si capisce perché altri tagli e altra austerità dovrebbero far migliorare la situazione.

Appare poi evidente che qualsiasi cosa sia costretto a fare Tsipras, pur godendo di grandissima popolarità, renderà ancora più profonde le divisioni nel Paese e ancora più larghe le spaccature nel partito. Senza andare a scomodare i ricordi delle Termopili, appare evidente che l’oltre 60 per cento dei greci che hanno votato “No” al referendum preferisce soccombere dignitosamente piuttosto che morire per umiliazione e inedia, ma è anche altrettanto chiaro che Germania e complici puntano sul fatto che nel Parlamento può costituirsi un’altra maggioranza, senza consistenti fette di Syriza, ma con il determinante apporto di Nea Demokratia e del Pasok, proprio i due partiti che sono i responsabili del disastro economico di Atene, ma anche quelli con cui i maggiorenti economici europei potevano fare quei grandi affari che, evidentemente, puntano a fare ancora, visto che nella dichiarazione finale-diktat del Vertice non soltanto si impongono molte privatizzazioni, ma si precisa anche che «le attività greche di valore saranno trasferite a un fondo indipendente che monetizzerà le attività attraverso privatizzazioni e altri mezzi. La monetizzazione delle attività sarà una fonte del piano di rimborso del nuovo prestito e nel corso della durata del nuovo prestito genererà un importo obiettivo complessivo pari a 50 miliardi di Euro, dei quali 25 miliardi saranno usati per il rimborso della ricapitalizzazione delle banche e altre attività, mentre il 50% di ogni euro restante (ossia il 50% di 25 miliardi di Euro) sarà usato per ridurre il debito in rapporto al PIL e il restante 50% sarà usato per gli investimenti. Tale fondo sarebbe stabilito in Grecia e gestito dalle autorità greche sotto la sorveglianza delle pertinenti istituzioni europee».

È evidente che a questi signori dei cittadini della Grecia non importa nulla. Importa dei soldi e delle privatizzazioni che aprono nuove autostrade di arricchimento per i più ricchi, magari dei Paesi cosiddetti “virtuosi”.

Patetico è il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, che tenta di negare l’umiliazione della Grecia dicendo che «In questo compromesso non ci sono né vincitori né sconfitti. Non penso che i cittadini greci siano stati umiliati, si tratta di un accordo tipicamente europeo». Se così fosse dovrebbe essere querelato per uso improprio e offensivo di un termine – “europeo” – che per milioni di cittadini del vecchio continente ha ancora un valore sacrale.

E altrettanto patetico è anche Matteo Renzi che resta costantemente fuori dalla stanza in cui si decide davvero e che ora tiene un profilo di dichiarazioni molto basso, limitandosi praticamente alla cronaca con un «È stata una nottata di grande impegno e anche di qualche tensione», ma è stato raggiunto «un accordo importante che in molti momenti della nottata non è apparso scontato». Poi dice che la Germania non è despota, forse ricordando che è stata cancellata, da una prima versione già resa pubblica, l’imposizione che l’eventuale “Sì” del Parlamento di Atene avrebbe dovuto essere sottoposto all’ulteriore accettazione dei Parlamenti della Germania, ma anche di Austria, Finlandia, Slovenia, Estonia e Olanda, i Paesi più amici della Merkel e di Scheuble. A proposito di democrazie che non hanno maggior valore di altre.

Dell’Europa che esce da questo Vertice a un europeista convinto non può importare niente: è un simulacro vuoto che di Europa porta solo il nome, che non ha né dignità sociale (i soldi ai creditori prima che la vita ai vivi), né dignità etica (con il recupero dei corrotti e dei corruttori, pur di potersi comperare la Grecia intera), né dignità politica (con l’allontanamento sempre più deciso da un concetto di parità tra nazioni che concorrono a costituire un’Unione e con l’ascolto dei voleri dei cittadini).

Oggi sembra quasi inevitabile stare vicini alla Grecia e stare lontani da questa sedicente Europa per tornare a sognarne una totalmente nuova e davvero degna di tal nome. Non sarà facile, ma è proprio in questi momenti che chi crede nella democrazia non deve dimenticare che le uniche armi possibili, ma anche potenti, sono l’espressione pubblica del proprio pensiero e il voto.

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domenica 12 luglio 2015

Lo sterco del diavolo

Nella Polonia dei gemelli Kaczyński vogliono rimettere in funzione la pena di morte, anche se i principi fondativi europei lo proibiscono? Che problema c’è, tanto riguarda i loro cittadini. Alcune nazioni vogliono mandare i propri soldati in guerra in Paesi come l’Iraq e l’Afghanistan? Facciano pure, tanto i soldati che rischieranno la vita sono i loro. L’Ungheria di Orbán intende costruire muri contro l’ingresso di migranti mentre in altre nazioni si vagheggia la possibilità di mitragliare i barconi? Tranquilli, tanto chissà quegli straccioni da dove arrivano? Uno Stato è in ritardo con i pagamenti e non riesce a restituire il debito? E no! Che esca dall’Europa perché quelli sono anche soldi nostri.
Mi rendo conto che è un riassunto molto grossolano di quello che è accaduto negli ultimi anni nella cosiddetta Unione Europea, ma mi sembra un efficace riepilogo di quella che è la filosofia portata avanti da Frau Angela Merkel e da Herr Wolfgang Schäuble nel nome della loro Germania.

Mi verrebbe da dire, partendo da un celebre passaggio di Nietzsche, da poco ricordato da Umberto Galimberti, che i greci hanno da sempre il coraggio di guardare in faccia il dolore, mentre i tedeschi hanno solo il coraggio di guardare in faccia il dolore degli altri. Ma sarebbe sbagliato: gli accusati non sono i tedeschi; sono i loro governanti e la responsabilità del popolo tedesco è invece quella – ma non è piccola cosa – di aver permesso che quei governanti salissero al potere. E su questo noi italiani non possiamo certamente ergerci a giudici visti i governi ai quali abbiamo permesso – e permettiamo – di dirigere le nostre vite.

Al di là di questo, che i popoli c’entrino davvero poco è confermato anche dal modo in cui, da politici e speculatori, viene dosata sapientemente l’alternanza di ottimismi e di docce gelate, un’alternanza che non ha molti altri scopi se non quello di provocare violente euforie e altrettanto profonde depressioni nelle borse, creando le condizioni indispensabili perché i già ricchi possano ulteriormente arricchirsi e i già poveri, anche quelli che non cedono al fascino del gioco d’azzardo truccato che nella cosiddetta finanza trova la sua più alta espressione, vengano ulteriormente impoveriti.

Siamo nelle mani di personaggi – come il terribile duo tedesco – senza scrupoli umanitari, senza accenni di solidarietà nei confronti degli ultimi, e del tutto refrattari all'idea che stanno afamando degli innocenti mentre i veri colpevoli se la stanno spassando beatamente, ma anche di altri personaggi – Renzi ne è un preclaro esempio – che tentano di sfruttare la situazione accreditandosi come saggi, potenti e grandi mediatori, mentre invece continuano a collezionare dichiarazioni ricche soltanto di sicumera e silenzi che tentano di nascondere, almeno ai più distratti, le vertiginose e repentine marce indietro e le smentite di se stessi che dovrebbero invece fare.

Papa Francesco, con quel suo rigore etico ancor prima che religioso, anche recentemente ha ricordato la definizione evangelica del denaro che è considerato “sterco del diavolo”. Ma se lo sterco può fare schifo, le colpe dell’imbrattamento del mondo e della vita, con quello stesso sterco, ricadono su chi lo maneggia scientemente, con l’unico scopo di incrementare potere e ricchezza. Però, almeno in parte, anche su chi permette che questo avvenga.

Molti in questi giorni dicono che il sogno di Spinelli, Rossi e Colorni stia andando in frantumi. Ma non è così: il sogno di quei tre splendidi visionari continua a rimanere lì, monolitico, bellissimo e intangibile. Quella che oggi si teme possa andare in frantumi non è l’Europa: è soltanto una cosa che si è impadronita di quel nome, guardandosi bene di fare propria anche la sostanza. È una specie di appropriazione indebita che ormai viene praticata abitualmente in vari frangenti: basti pensare a come alcuni si stanno appropriando del nome di sinistra, mentre fanno cose di destra.

Anche per l’Europa, come per la sinistra, il far cambiare rotta è nelle mani degli elettori. Sempre che si creda ancora nel significato originario della parola democrazia, altro termine abusato e sempre più spesso depredato della sua sostanza.

E, a proposito, se è vero, come hanno detto Delors e Juncker per sminuire la portata del risultato del referendum greco, che nessuna democrazia ha più valore delle altre, perché questi ineffabili personaggi non ripetono ora la stessa frase quando è la Germania a entrare a gamba tesa per scompaginare le carte di una decisione di aiuto alla Grecia che gli altri Stati europei avevano praticamente già preso?

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mercoledì 8 luglio 2015

Le cicatrici sotto il cerone

Comunque dovremo essere grati ai greci perché, rimuovendo parte degli spessi strati di cerone autocelebrativo che da sempre accettiamo, ci hanno costretti a guardarci in faccia con più attenzione e a vedere quante cicatrici deturpano il volto dell'Europa.
Un punto estremamente importante, per esempio, è stato portato alla luce dalla smania di ridurre la portata politica del referendum greco. È con questo scopo, infatti, che uno dei padri dell'Europa, Jacques Delors, fortemente e giustamente preoccupato che la sua creatura possa andare in frantumi, ha affermato, riferendosi al referendum, che «la sua legittimazione democratica non è superiore alla legittimazione democratica delle istituzioni della UE». E Jaen-Claude Juncker si è affrettato a raccogliere il passaggio ampliandone la portata e dicendo che «nessuna democrazia europea ha più valore di un'altra».

In apparenza sono dichiarazione ineccepibili, ma le prime crepe - e profonde - di opportunismo politico apparirebbero evidenti già se qualcuno chiedesse a Juncker se aveva in testa il medesimo comandamento di uguaglianza quando, da premier del Lussemburgo, aveva furtivamente trasformato il suo Paese in un paradiso fiscale facendo il danno degli altri Paesi dell'Unione e, conseguentemente, delle loro democrazie.

Ma anche nelle parole di Delors c'è qualcosa che non va; e per vari motivi. Intanto la BCE, assoluta protagonista di tutte le vicende economiche europee non ha assolutamente nulla che fare con la democrazia perché è formalmente indipendente dalla politica e, quindi, svincolata dalla democrazia, ma ovviamente esposta alle pressioni dei più potenti e, quindi, ancora più evidentemente lontana dal potere popolare.

Delors, poi, non può ignorare che la democrazia europea è ancora qualcosa di largamente incompiuto. Basterebbe pensare che l'unico organo eletto direttamente dalla popolazione è il Parlamento Europeo che normalmente si occupa di quote agricole, rapporti internazionali con Paesi lontani, regolamenti interni, di formaggi da fare senza latte e di altre amenità simili. In questo momento, tanto per capirci non affronta le questioni greche (di cui si occupano i vertici dei premier e i subvertici dei ministri economici), né di problemi dei migranti (di cui parla - dire "occupa" sarebbe davvero eccessivo - la Commissione europea), né del fatto che la Tunisia, praticamente unico Stato laico e democratico del mondo arabo, e per di più affacciato sul Mediterraneo, sia attaccato e quasi assediato, anche dall'interno, dai terroristi del califfato dell'Is (di cui non parla proprio nessuno). E non è certamente casuale la scelta politica di Tsipras di deludere i premier europei non presentando immediatamente loro il piano richiesto, ma di voler rivolgere il suo discorso direttamente al Parlamento europeo, l’unica istituzione dell’UE che abbia almeno una parvenza di democrazia.

In questo quadro appare tragicamente buffo che qualcuno possa arricciare il naso sollevando dubbi di legittimità davanti al valore di un referendum che - giova ricordarlo - soltanto marginalmente si è occupato di questioni economiche e di trattati internazionali (materie consuetudinariamente, ma non molto democraticamente vietate alle consultazioni popolari), mentre in realtà ha posto un quesito sulla vita, o la morte, di un intero popolo, di un intero Paese.

Lasciate pur perdere le folkloristiche recite di Grillo che ora inneggia a Tsipras e fa finta di non vedere le differenze abissali che corrono tra il referendum greco e le consultazioni tra qualche migliaio di suoi amici, via internet e senza alcun controllo esterno, che lui pomposamente chiama «democrazia diretta». Non badate alle intemerate populistiche di Salvini secondo cui qualunque cosa accada, dal nascere del sole alle cose più complicate del mondo, succede solo per dare ragione alle sue teorie di esclusione, anche se Salvini stesso dal resto del mondo non è minimamente considerato, se non addirittura disdegnato. E, per carità di patria, dimenticate pure Renzi che prima parla superficialmente di «un derby tra dracma ed euro» e poi, con sommo sprezzo del ridicolo, si propone come mediatore per risolvere, con la profondità e lungimiranza del suo cosiddetto "pensiero", la spinosa situazione.

Indignatevi, invece, perché la Commissione europea decide di mandare "aiuti umanitari" fatti di cibo e medicine non a una nazione del terzo mondo, ma a un Paese che è stato la culla della civiltà europea, che è stato compromesso dall'incapacità e dalla corruzione dei suoi vecchi governanti e che è stato ridotto alla fame proprio da coloro che ora vogliono presentarsi come "salvatori" con qualche pacco di pasta in mano. Arrabbiatevi anche perché la Germania dice alla Grecia: «Parliamo pure, ma tanto a Berlino abbiamo già tutto deciso», con buona pace per la democrazia delle istituzioni europee evocate da Delors e Juncker. E indignatevi pure perché in tutto questo vortice di disastri l'unica a essere scomparsa ad alti livelli - praticamente dappertutto tranne che in Grecia - è la sinistra di cui alcuni si sono impadroniti del nome, ma il cui camuffamento, a meno che proprio non si voglia tenere gli occhi chiusi, non può resistere nemmeno per brevi periodi.


Ma su questo torneremo a breve.

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