lunedì 24 novembre 2014

Una banca spalancata e indifesa

È come se qualcuno avesse lasciato una banca con la porta aperta, senza guardie giurate in servizio e anche con la cassaforte spalancata. A un certo punto è entrato qualcuno che si è impossessato di quello che nella banca c’era e se n’è andato per la sua strada. È evidente che chi ha lasciato le sue ricchezze indifese è, a essere buoni, uno sprovveduto, ma è altrettanto evidente che chi di quelle ricchezze si è impossessato è colpevole di furto, o, almeno, di appropriazione indebita.
Fuor di metafora e passando a parlare di politica, dove non ci sono reati penalmente perseguibili, e le parole hanno da sempre un valore relativo, è evidente a tutti che la sinistra ha trascurato i propri valori e non li ha difesi adeguatamente preferendo sprecare energie in baruffe interne, continue scissioni e meschini calcoli elettorali quasi sempre rivelatisi clamorosamente sbagliati. Ma è altrettanto evidente che Matteo Renzi di questa situazione si è approfittato sottraendo alla sinistra linguaggio, simbologia e partito.

Linguaggio perché ormai lui e i suoi hanno camuffato un bel po’ di parole sottraendone, per i tanti distratti, il vero significato. Così “sinistra”, nel suo linguaggio, non è più quella determinazione politica sui valori della quale per più di un secolo tutti sono stati d’accordo, ma soltanto la caratteristica di chi vuole cambiare tutto e velocemente; se in meglio o in peggio, è secondario. Simbologia in quanto i valori di riferimento non sono più gli stessi e comunque sono subordinati alla possibilità che i diritti delle persone, se in contrasto con gli appetiti delle aziende, debbano essere attenuati, se non cancellati, per il timore di tener lontani eventuali investitori. Partito perché molti di coloro che da sempre hanno votato a sinistra non sentono più di poter votare a cuor leggero per il PDin quanto lo avvertono come un partito che, per molti versi, ha abbandonato la sinistra.

Le elezioni di ieri lo indicano chiaramente, anche se Renzi continua a strombazzare che il PD ha vinto in entrambe le regioni e che soltanto questo ha importanza. Non è vero e il campanello d’allarme dovrebbe suonare, anche per lui, fortissimo. Perché il risultato percentuale non può non essere traguardato combinandolo con il pazzesco crollo dell’affluenza alle urne. In Emilia Romagna, dove una volta andavano a votare quasi tutti e dove la sinistra otteneva quasi sempre la maggioranza assoluta, l’affluenza è stata del 37,7 per cento e questo dato va combinato con il 44,52 per cento del voto di lista ottenuto del PD. Questo vuol dire che soltanto il 16,78 per cento degli aventi diritto al voto se l’è sentita di spendersi per il sedicente centrosinistra. Quello che i dirigenti del PD dovrebbero chiedersi, è quanti elettori non se la sono più sentita di votare per quel partito e che, visto che altre scelte accettabili non vedevano, hanno deciso di restare a casa.

E questo non è un pessimo segnale soltanto per il PD, ma per l’intera democrazia che dovrebbe chiedersi soprattutto perché i cittadini non sentono più di partecipare alle scelte che poi faranno dirigere questo Paese. Del resto, l’uso della democrazia tirata in ballo soltanto se si sa già in partenza di poter avere a disposizione più voti degli avversari non è certamente un atteggiamento che possa far riavvicinare il popolo della sinistra a chi governa.

sabato 22 novembre 2014

I valori non sono solo parole

Nella lettera di risposta da parte del presidente del Consiglio a “Repubblica” che ne metteva fortemente in dubbio la sua collocazione politica, Renzi sostiene di essere di sinistra e di agire in tal senso. Ebbene, questa lettera chiarifica molte cose, nel senso che non può più essere messa in dubbio né la netta cesura tra dichiarazioni e fatti, né la sua capacità di usare le parole non per rispettarne il loro significato, ma per usarle – soprattutto nelle aggettivazioni – come specchi deformanti che abbiano la capacità di catturare e riflettere un bagliore distraendo dal buio del contesto.

È vero: bisogna dargli atto che nel Parlamento europeo oggi il PD è «dentro la famiglia socialista», ma questo è avvenuto per «scelte strategiche» che sembrano riguardare più la sua personale collocazione iniziale in seno a un partito giustamente sospettoso, che la politica effettiva del partito stesso.

Dice che non «c’è un uomo solo al comando», ma come altrimenti si potrebbe spiegare la pochezza di un consiglio dei ministri che, tranne poche eccezioni, sembra fatto apposta per non aver la forza di tirare fuori le proprie idee e i propri eventuali dissensi? Quella del Pd sarà anche una «una sfida plurale», ma sta di fatto che ogni dichiarazione programmatica esce sempre e soltanto da una sola bocca e che da quella stessa bocca esce anche ogni reprimenda contro chi non è d’accordo.

Davanti all’accusa di una mancanza di rispetto nei confronti di una storia e di una rappresentanza, risponde: «Non è la mia intenzione, ho un profondo rispetto per il lavoro e per i lavoratori che il sindacato rappresenta». Viene da chiedersi: non fosse così, non si sarebbe limitato a non ascoltarli mai, ma li avrebbe cancellati? E continua: «Sono pronto sempre al confronto, da mesi giro l’Italia in lungo e largo, visitando aziende, stringendo le mani di chi lavora». È vero: da mesi gira per le aziende a stringere le mani agli imprenditori e, se ne stringe qualcuna a chi lavora – ammesso che non sia stato messo in ferie coatte nel giorno in cui era in visita e questo ricorda quel ventennio in cui ai dissidenti era tolta temporaneamente la libertà di movimento quando arrivava il capo del momento – si limita a stringerla. Fare politica seriamente non è stringere mani, ma ascoltare davvero i bisogni di tutti per tentare di migliorare la situazione.

Si lamenta giustamente che il sindacato non ha manifestato contro la Legge Fornero e oggi manifesta contro il Jobs Act. Ma l’errore è stato quello e non questo. E se dice che il sindacato oggi fa politica, dimostra di conoscere poco la Costituzione e anche che cos’è una democrazia compiuta in cui tutti i cittadini, individualmente o tramite rappresentanza, hanno il diritto-dovere di fare politica, di tentare di far star meglio se stessi e tutti gli altri. La democrazia non è soltanto andare a votare ogni cinque anni, anche se in una di quelle occasioni si riesce a raccogliere quasi il 41 per cento.

«Per noi – dice ancora – la sinistra è storia e valori; certo, è Berlinguer e Mandela, Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi. Ma è soprattutto un futuro su cui lavorare insieme per risolvere i problemi delle persone, per dare orizzonte e dignità, per sentirsi parte e avere orgoglio di essere non solo di sinistra, ma italiani». Mi piacerebbe molto che buona parte dei personaggi nominati da Renzi, che sono dei veri monumenti dell’umanità, ma che ho difficoltà a definire “di sinistra” e alcuni dei quali probabilmente in vita avrebbero avuto l’orticaria a sentirsi definire “di sinistra”, potessero esprimersi sulla politica di Renzi, soprattutto nel campo del lavoro e nella destrutturazione del nostro sistema democratico e costituzionale.

Vorrei ricordare che c’è anche gente di destra che onestamente pensa che le sue idee possano migliorare la situazione. Ma con la sinistra c’entrano ben poco perché sono proprio i valori cui fumosamente e fugacemente Renzi accenna di tanto in tanto a essere fortemente diversi.

venerdì 7 novembre 2014

La rabbia e il disprezzo



Ai primissimi posti della hit parade delle caratteristiche più disdicevoli di Matteo Renzi, praticamente alla pari con l’abitudine di voler far passare come “di sinistra” idee e provvedimenti indubitabilmente di destra, trova posto il suo modo di rivolgersi agli italiani come se stesse parlando a una banda di persone incapaci di discernimento.

Lo fa spesso, ma talvolta esagera davvero.

Alla Piaggio Aerospace, dopo aver dovuto ascoltare, sia pur distrattamente, le proteste di  un gruppo di lavoratori, all’esterno del nuovo stabilimento di Villanova di Albenga, che stavano protestando contro le esternalizzazioni previste dal gruppo, ha detto con incredibile faccia tosta al pubblico presente all’interno dello stabilimento – e, quindi, selezionata e plaudente – che «è normale avere idee diverse ma guai a pensare che si possa fare del mondo del lavoro il terreno dello scontro».

Bella, questa. Cioè i lavoratori dovrebbero stare zitti anche se i licenziamenti collettivi sono diventati frequentissimi; anche se, per la maggior parte, i contratti sono bloccati da anni mentre i prezzi, le tasse e le imposte continuano a crescere, mentre i servizi diminuiscono; anche se gli 80 euro toccano soltanto una piccola fascia di lavoratori e il provvedimento non si occupa minimamente di quelli che stanno ancora peggio; anche se la quasi totalità delle disposizioni della legge di stabilità si preoccupa delle aziende e non di chi vi lavora; anche se lo steso Renzi si rifiuta di parlare con i rappresentanti dei lavoratori mentre cinguetta con quelli degli imprenditori.

E poi ha detto, ma qui probabilmente non si è neppure reso conto della cinica assurdità della sua frase: «Quando si sta un un'azienda ci lega qualcosa di più che lo stipendio, ma l'idea di appartenere a una storia». Personalmente conosco tantissima gente che ha lavorato ben al di là di quanto richiesto dal contratto per ricevere lo stipendio e che si è sentita parte fondamentale della storia dell’azienda per cui ha operato con orgoglio e dedizione. E ho conosciuto anche degli imprenditori – non tutti, per fortuna – che, appena la propria azienda ha cominciato a scricchiolare ha pensato a mettere al sicuro se stessi fregandosene tranquillamente della propria azienda, della sua storia e, soprattutto, della gente che vi lavorava con quell’orgoglio di cui dicevo prima.

Renzi dovrebbe capire, prima o poi, che le uova che gli lanciano contro e sulle quali scherza esprimono sì rabbia, ma soprattutto disprezzo.