venerdì 31 ottobre 2014

Il punto di vista



Colpisce molto non soltanto che dopo gli scontri di Roma della Polizia contro operai di Terni, con cinque manifestanti costretti a ricorrere alle cure ospedaliere, il ministro degli Interni Angelino Alfano solidarizzi con tutti, ma che addirittura inviti il sindacato a controllare insieme a lui i cortei. Ora, a prescindere dal fatto che ogni manganellata data a chi manifesta con disperazione, ma pacificamente, finisce per far tornare alla memoria il G8 di Genova, e che il sindacato non ha ne forze dell’ordine, né manganelli, la cosa che più colpisce è l’ipocrisia di questa posizione teoricamente equidistante.

Non è vero che tutti siano vittime. Forse si tratta di un eccesso di difesa da parte di chi non aveva i nervi saldi, ma sta di fatto che qualcuno – soprattutto a livello di comando – ha sbagliato e che è giusto che gli errori, anche senza successive punizioni, siano messi in rilievo perché, come sempre, è soltanto la giustizia che può allontanare quelle tensioni sociali paventate e che si tenta di esorcizzare nascondendo le responsabilità e tentando di dire siamo tutti buoni e tutti abbiamo ragione.

Ho smesso già da molto giovane l’illusione di poter essere simpatico a tutti e che tutti potessero essere simpatici a me. E non per altezzosa misantropia, ma perché l’unico modo per accettare tutto e tutti è quello di rinunciare a pensare, ad avere un proprio punto di vista, a prendere parte, a essere se stessi. Talvolta può essere scomodo, ma questa scomodità tocca a tutti: pensate a Papa Francesco che è costretto a specificare che lui non è comunista, ma che si limita a seguire i dettami del Vangelo.

Essere tutti dalla stessa parte è politicamente e socialmente molto pericoloso e anche questa idea è una delle cose che non riesco proprio a digerire tra i progetti di Matteo Renzi che vorrebbe aprire le porte del PD a tutti, dimenticando qualsiasi valore, perché la cosa importante non è far avanzare i propri principi e le proprie idee, ma vincere le elezioni e vincere sempre più nettamente. E se per questo bisogna spostarsi su posizioni distantissime da quelle di partenza, allora pazienza. Forse perché le idee di partenza tanto solide proprio non erano.

Renzi ora parla di “Partito nazionale” usando un aggettivo che storicamente non ha una buona fama, visto che era ripreso nel  Partito nazionale fascista e nel Partito nazionalsocialista tedesco. È sempre questione di punti di vista, ma quello che osservo dal mio, mi fa rabbrividire.

domenica 26 ottobre 2014

Le parole e i silenzi

Come sempre in politica le differenze sostanziali tra due posizioni sono segnate dalle parole, ma anche dai silenzi; e tra piazza San Giovanni e la Leopolda queste differenze sono state tantissime, anche se i silenzi hanno trovato posto più a Firenze che a Roma.


Confesso subito, per chi già non lo avesse intuito, che le mie maggiori simpatie vanno decisamente verso la piazza della Cgil, ma non credo che alcune mie considerazioni siano influenzate e falsate da queste mie simpatie.


Più che arrabbiarmi, infatti, resto male se sento che Matteo Renzi, segretario del maggior partito di centrosinistra, afferma che «Qui parla la gente che ha creato posti di lavoro», come se il benessere delle aziende, e quindi l’esistenza dei posti di lavoro,non dipendesse anche, e forse soprattutto, da chi vi lavora.

Resto male e comincio ad arrabbiarmi, invece, quando lo sento dire che «Ci confronteremo, ma poi andremo avanti, non è pensabile che una piazza blocchi paese», perché la sua frase, tradotta dal politichese, significa: «Va bene: perderemo un po’ di tempo ad ascoltare questi rompiscatole, ma, qualunque cosa dicano i rappresentanti dei lavoratori, andremo avanti lo stesso perché siamo noi ad avere in mano la verità».

Sono decisamente arrabbiato, poi, quando sento Davide Serra – il finanziere proprietario del Fondo Algebris creato nel paradiso fiscale delle Cayman e grande fiancheggiatore anche economico di Matteo Renzi – che sostiene a piena voce che apprezza il cosiddetto “Job Act” ma lo avrebbe voluto più deciso e sbilanciato perché, secondo lui, il diritto di sciopero va limitato in quanto «Dico che è un diritto; cerchiamo di capire che è un costo».

Intanto sembrano parole pronunciate intorno alla metà dell’800 da un illuminato latifondista della Confederazione quando in America si discuteva se dare la libertà agli schiavi: un loro diritto, ma sicuramente anche un costo “insostenibile” per i produttori di cotone e affini. Però sono anche parole di una persona che sicuramente si è laureata con il massimo dei voti alla Bocconi, che ha avuto enorme successo nel suo lavoro, ma che evidentemente non ha mai trovato il tempo per sfogliare con attenzione la nostra Costituzione che nell’articolo 1 afferma bizzarramente che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, che nel 39 statuisce che «L’organizzazione sindacale è libera» e «Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge» e nel 40 sottolinea che «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». E le leggi lo regolamentano soltanto per motivazioni di pubblico interesse e limitatamente ai soli servizi pubblici essenziali. Cioè quando i diritti collettivi di alcuni possono andare a ledere i diritti collettivi di tanti. E tra i diritti collettivi – credo che in questi tristissimi tempi vada sottolineato – non è mai annoverato quello di tagliare i diritti altrui per poter spendere di meno.


Resto nuovamente malissimo quando sento che alle parole di Serra a Firenze risponde un generale silenzio interrotto soltanto dalle parole di Graziano Del Rio («Io non la penso come lui») e di Debora Serracchiani («Non è uno dei problemi del Paese»). Credo davvero che nel PD le parole di Serra meriterebbero un «Non può dire cose del genere e restare tra di noi» e che sono proprio queste parole uno dei problemi del Paese.

sabato 18 ottobre 2014

La comandabilità

Potrà sembrare bizzarro, ma mi sto convincendo sempre di più che, al netto delle pur importanti contingenze internazionali, una delle maggiori cause della nostra crisi economica risiede nella perdita di democrazia del nostro Paese.

Cerco di spiegarmi specificando subito che di questo non attribuisco colpe soltanto a Renzi che non ha creato questa situazione, ma che la sta portando avanti e cerca di perfezionarla dando sempre più sostanza a un tipo di regime che di democratico porta quasi soltanto il nome. È da molti anni, infatti, che – con le brevi eccezioni degli esecutivi presieduti da Prodi – non si governa più, ma si comanda; che si tenta di limitare sempre più il momento democratico al solo esercizio del voto, mentre è sempre più marginalizzata la vera essenza della democrazia e cioè la discussione e la faticosa ricerca della soluzione migliore, ma anche più equilibrata, che possa aiutare più gente possibile e danneggiarne il meno possibile.

Perché la base della democrazia ha ben presente il concetto laico che nessuno possiede la verità assoluta e che, quindi, chi ha il maggior numero di voti riesce sicuramente a imporre le proprie leggi, ma anche che il possesso di una maggioranza non corrisponde al dono dell’infallibilità e che chi vince non sempre ha ragione. E infatti la democrazia prevede il cambiamento.

Da molto tempo, invece, vediamo che, o per motivazioni politiche, o per supposte necessità “tecniche”, si procede a strappi, senza aprirsi a consultazioni e discussioni, a meno che non si sappia che, o per totale assenza di obiezioni da parte di parlamentari-dipendenti, o per numeri di voti già certi a prescindere dalla discussione prima dell’inizio della discussione stessa, che il risultato sarà assolutamente scontato e aderente alla volontà del presidente del Consiglio in carica pro tempore.

E tutto questo non procura soltanto un danno diretto nel promulgare leggi che hanno in sé una quantità di errori inevitabili quando qualcuno, in nome della propria supposto infallibilità, rifiuta di confrontarsi con coloro che hanno opinioni diverse, ma soprattutto si innesca un disastro a lungo termine perché nella testa dei cittadini entra inevitabilmente il concetto che le discussioni sono inutili, che esporre le proprie idee non porta neppure all’apertura di una discussione, che è del tutto inutile partecipare e che, quindi, parafrasando il celebre «libertà è partecipazione» di Giorgio Gaber, siamo sempre meno liberi.

So che a molti sembrerà una bestemmia, ma sono terribilmente pentito di aver votato per il maggioritario nel referendum sul sistema elettorale che ha abolito quel metodo proporzionale che faceva diventare importanti anche le variazioni dello 0,5 per cento e che, quindi, rendeva molto più sensibili ai bisogni e alle opinioni della gente i vari partiti che potevano diventare o meno determinanti nella composizioni dei governi che si susseguivano a ritmi forse un po’ troppo veloci, ma che, comunque, erano capaci di portare l’Italia fuori dal disastro della guerra, di dare vita al boom economico e di portare l’intero Paese a un grado di benessere prima inimmaginabile.

Quella volta pensare e discutere era considerato un pregio e non un fastidioso difetto. Oggi anche la Boldrini, come i suoi predecessori di oltre due decenni lamenta il fatto che nel Parlamento non si parlamenti più, ma soltanto si ratifichi, a colpi di fiducia su decreti governativi ciò che si decide altrove. Oggi le Regioni protestano perché i pretesi tagli delle tasse sono, in realtà, o spostamenti delle tasse dallo Stato centrale alle amministrazioni decentrate, oppure corrispondono a forti tagli dei servizi e, dunque, a maggiori spese per i cittadini.

È da decenni che si sente parlare della necessità di governi stabili, ma, in realtà, più che la governabilità viene rincorsa – scusate il neologismo – la comandabilità.

martedì 14 ottobre 2014

Renzi, la sinistra e Lupi

Matteo Renzi torna tronfio dall’incontro con la Confindustria di Bergamo e afferma di aver presentato «una manovra di sinistra» e che «se questo discorso l’avesse fatto qualcun altro, la Cgil avrebbe applaudito».
Ad ascoltare Renzi spesso si resta sorpresi, ma questa volta non posso evitare di chiedermi se sia possibile che mi sia sbagliato tanto nel criticare il suo operato ritenendolo assolutamente squilibrato a destra? È sicuramente possibile perché non possiedo il dono dell’infallibilità di cui lui si ritiene, invece, dotato. Ma a questo punto diventa obbligatorio analizzare un po’ meglio il suo programma.
Abbassare l’Irap può essere considerato di sinistra? Probabilmente sì, ma visto che era anche tra i desideri di Berlusconi e Monti, oltre che in quelli di Prodi e Letta, può essere considerato anche di destra. O, forse, è soltanto una necessità economica a prescindere da chi sia al governo. Poi sicuramente conviene alle imprese; soltanto sperabilmente ai lavoratori.
Anche l’idea di togliere l’obbligo di versare i contributi per i primi tre anni di lavoro per gli assunti a tempo indeterminato sembra una bella idea, anche se pure i predecessori di Renzi avevano messo in progetto alcune ipotesi simili. Ma due sono le obiezioni ed entrambe minacciano molto di più la felicità del dipendente piuttosto che quella del datore di lavoro.
La prima si riassume in una domanda: chi mai assumerà qualcuno, se non avrà lavoro da far fare a un nuovo assunto? Della seconda ho già scritto recentemente e considera il fatto che tre anni senza contributi da versare con contratti a tutele crescenti e che nei primi anni saranno debolissime, e con la quasi totale cancellazione dell’articolo 18, se non in casi estremi, potrebbe far accelerare la già triste giostra dei turnover aziendali anche se nominalmente nessuno – tranne i lavoratori e i sindacati – parlerà più di precariato, ma soltanto di necessità aziendali contingenti.

Difficile, dunque, dare credito a Renzi quando si erge a campione della sinistra nel campo del lavoro. Se possiamo permettercelo, gli suggeriamo di investirsi di questo onore e onere quando arriveranno al pettine gli enormi nodi del Decreto Lupi che, in termini di edilizia e di opere pubbliche, continua imperterrito su quella strada che la destra ha sempre voluto chiamare libertà e che, invece, ha la sostanza dell’arbitrio. Le cosiddette liberalizzazioni previste da Lupi consistono, infatti, in cancellazioni di quei controlli e di quelle garanzie che, se applicate a suo tempo, avrebbero impedito lo scempio portato a Genova, ma non solo lì, da un’acqua costretta in tante condotte forzate a cielo aperto create dalla dilagante cementificazione.
Ecco, un governo che tenta di qualificarsi con politiche che dice di essere di sinistra dovrebbe opporsi strenuamente a quella distruzione dell’ambiente che porta morti e a immense spese pubbliche non per proteggere i cittadini, ma soltanto per riparare i danni. Dicono: “Ma Lupi e di destra”. Davvero? Ve ne sietre accorti ora? E accettare i suoi vaneggiamenti è forse di un governo di centrosinistra?

venerdì 3 ottobre 2014

I giochini con le parole



Il problema è sempre quello, fin da prima che don Lorenzo Milani lo codificasse dicendo che «l'operaio conosce 300 parole, il padrone 1000; per questo lui è il padrone». E continuerà per sempre così fino a quando, con l’istruzione e con la diffusione della cultura, non saranno dotati tutti di un vocabolario di pari estensione. Innalzando le capacità dell’operaio, ovviamente, e non calando quella del padrone. Agendo, insomma, in maniera opposta a quella che sta portando avanti il nostro governo in materia di diritti, e cioè tentando di rendere tutti uguali togliendo diritti a quei pochi che li hanno già.

Adesso a sfruttare gli equivoci sulle parole ci si mette anche mister John R. Phillips, ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, che dichiara che l’Italia può farcela a uscire dalla crisi, a meno che il sistema politico italiano non resti «troppo rigido, troppo diviso tra gruppi di interessi». E qui tutti fanno cenno di sì con il capo perché il concetto di «gruppi di interesse» fa inevitabilmente venire in mente delle confraternite di potere che sono state capaci di indirizzare la politica italiana lungo la discesa che ci ha portato sull’orlo del baratro; che ha spinto, soltanto per fare un esempio, a distruggere il sistema del trasporto pubblico, e soprattutto quello ferroviario, a favore dell’industria automobilistica e di chi la possedeva.

E a nessuno viene in testa che tra i «gruppi di interesse», possono esserci anche quelle associazioni – più o meno codificate – che vorrebbero che i più poveri non morissero di fame; o che i diseredati potessero mantenere almeno un po’ di dignità; che anche i malati poveri potessero essere curati come quelli ricchi e non dovessero evitare alcuni esami perché non possono permettersi il ticket; che i ragazzi delle scuole pubbliche avessero aule decenti come quelli delle scuole private; che i cinquantenni disoccupati loro malgrado potessero ancora avere una speranza di vita; che i giovani italiani non dovessero andare all’estero per trovare uno straccio di lavoro. Sì. Anche questi sono «gruppi di interesse». Eppure sono convinto che a questi gruppi di interesse sarebbe del tutto onorevole dare una mano.

Mister John R. Phillips, insomma, dovrebbe ricordare che alcuni «gruppi di interesse» italiani sono spesso soltanto «gruppi di sopravvivenza» e, quindi, molto diversi dalle lobby statunitensi e dalle “cupole” italiane. Su una cosa della da Philipps, però sono assolutamente d’accordo: quando lui, che lo conosce da cinque anni (curioso: da ben prima che diventasse presidente del Consiglio), afferma che Matteo Renzi gli ricorda Ronald Reagan.

E, per restare a casa nostra, non mi stancherò mai di ripetere che il giochino con cui Renzi accusa la sinistra di essere conservatrice è puerile, se non del tutto stupido. Renzi, infatti, appiccica alla sinistra l’appellativo di “conservatori” riservando a se stesso e ai suoi quello di “riformatori”. Io, invece a Renzi e ai suoi appiccicherei il titolo di “restauratori”. Provate a pensarci: davanti al tentativo di reintrodurre alcune forme di schiavitù, dando per accettato che chi vuole mantenere la libertà conquistata possa essere chiamato “conservatore”, vi rivolgereste a chi questa libertà la vuole limitare chiamandolo “riformatore”, o “restauratore”?