Da un'introduzione tenuta il 15 settembre 2006 nell'ex Chiesa di San Francesco di Pordenone, alla presenza della regista Roberta Bigiarelli
Io, qui, a undici anni di
distanza da quell’orrendo mattatoio, non voglio parlarvi del massacro di Srebrenica.
Di quello sapete sicuramente già molto e altre cose le apprenderete da Souvenir
Srebrenica, il film di Luca Rosini e di Roberta Bigiarelli che vedrete
tra un po’. In questa mia chiacchierata preferisco soffermarmi su come quel
massacro ha influito – se ha influito – sulla nostra coscienza. Preferisco fare
così anche perché di questo nome strano e inquietante – Srebrenica – crediamo
di sapere tutto mentre in realtà non sappiamo niente, o, forse, pensiamo di non
sapere niente e invece sappiamo già quasi tutto.
La quantificazione dei
morti e dei cosiddetti scomparsi oscilla tra 7.800 e oltre 10 mila, ma, oltre
una certa cifra, ci importa davvero di sapere esattamente quante sono le
vittime? Conoscere un numero sicuro e preciso darebbe un diverso peso alla
strage, al genocidio?
Non possediamo un’idea
certa della causa occasionale che ha portato le truppe serbe ad attaccare con
ferocia un enclave protetto. Ma non mi interessa neppure citare le ipotesi che
sono state fatte perché nessuna causa – occasionale o meno – può giustificare
neppure un omicidio; figuriamoci una strage, un genocidio.
Non conosciamo
esattamente le cause del perché – oltre che per il timore per la propria vita –
i caschi blu olandesi – teorica forza di interposizione – non abbiano nemmeno
tentato di fermare gli aggressori; perché si siano lasciati mettere in
disparte, mentre la responsabilità – pur pesantissima – era loro; né perché gli
aerei non siano intervenuti finché non è stato troppo tardi. Ma sappiamo
benissimo che l’Onu, dopo quella volta, ha perduto ogni residuo di credibilità
perché è stata dimostrata la sua impotenza derivata dal fatto che è soltanto
un’arena di scontri tra potenti con i loro muscolari diritti di veto.
Non sappiamo – a parte
che per una dozzina di comandanti in primo piano – quanti e quali siano stati i
responsabili della strage, ma sappiamo che nella quasi totalità sono ancora
liberi e che molto probabilmente resteranno liberi per sempre perché, come
accadde non soltanto in Sud America per i nazisti, nella loro latitanza sono
celati e difesi da governi e popolazioni che evidentemente condividono le loro
idee malate.
Non ci rendiamo conto di
come vivranno il resto della loro esistenza i superstiti di quel genocidio, delle
altre stragi balcaniche, dei campi di concentramento e di sterminio dell’ex
Jugoslavia, ma siamo perfettamente consci che le loro ferite interiori andranno
in eredità ai loro discendenti alimentando una spirale di odio che nessuno si
sogna ancora davvero di spezzare. Lord Byron ha
scritto: «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è
ancora dolore».
Non
abbiamo idea del perché tutt’a un tratto la religione, l’etnia, la razza, siano
diventate tanto importanti per molte persone che negli anni prima della strage
di Srebrenica sembravano cittadini tranquilli e integerrimi, ma sappiamo
perfettamente che per anni la propaganda aliofoba è andata avanti senza che
nessuno si opponesse e che ha perfettamente ragione Italo Svelo quando, nella Coscienza
di Zeno, scrive: «Si arriva all’omicidio per odio, o per amore; alla
propaganda dell’assassinio solo per malvagità». E questo dovrebbe far pensare
molto anche noi, far pensare a questa nostra Italia dove sono legali e sono
stati addirittura al governo partiti che hanno l’anticostituzionalità – non
l’incostituzionalità, attenzione, ma l’anticostituzionalità – nel loro genoma.
Dovrebbe farci domandare che Paese è quello in cui, riferendosi alla strage di
Nassiriya, all’attentato contro la caserma italiana, si è continuato a parlare
sempre e soltanto di 19 morti – gli italiani – e non di 30 – le vittime in
totale – tra cui alcuni erano bambini? Forse che anche da noi i non italiani
non hanno la stessa dignità degli italiani doc? E che Paese è quello che ha
accuratamente cercato di dimenticare – e soprattutto di far dimenticare – che
durante la Seconda guerra mondiale anche in Italia quelle che erano considerate
persone di qualità inferiore, erano imprigionate in campi di concentramento
come quelli – tanto per fermarsi alla nostra regione – di Gonars e di Varmo,
dove i morti furono centinaia per fame, freddo, malattie; anche per violenze?
Per
tornare a Srebrenica cominciamo con un verbo che è stato molto usato dai
collegi di difesa al tribunale internazionale dell’Aia, ma la cui etimologia è
un insulto all’intelligenza: il verbo è “giustiziare” che sbandiera in sé il
concetto di giustizia, ma che, proprio perché pone fine a una vita, dalla
giustizia nettamente si separa anche quando la condanna a morte è imposta da un
tribunale regolare. E il cui contrasto diventa ancor più stridente se questo
verbo è usato per non adoperare quello più vero: “assassinare”. È successo ad Auschwitz,
è successo a Srebrenica. Hanno tentato di farla passare per giustizia, sia pur
sommaria, ma giustizia non è, perché si basa su metodi sbrigativi, dimentichi
di ogni diritto, fuori da qualsiasi procedura di legge. Quindi, se è vero, come
disse François Mauriac, che nulla «v’è di più orrendo al mondo che la giustizia
separata dalla carità», questo è ancora peggio perché siamo di fronte a una
giustizia separata anche dalla stessa giustizia.
In
questi e altri casi non si sono emessi giudizi su avvenimenti, non si è parlato
di colpe individuali. Ci si è limitati a individuare la cosiddetta razza, o
l’etnia, o la religione, o il gusto sessuale, o la salute mentale, o la deformità
fisica. E in base a quello, soltanto a quello, si è decisa la condanna con un
semplice gesto della mano, con una generalizzazione che, evitando di far conoscere, ragionare, scegliere,
è il vero razzismo in quanto finisce per togliere agli “altri” il volto e la
vita reale, riducendoli ad astrazioni, e finendo per ammassare tutti in grandi,
ipotetiche e improbabili, categorie di popoli, di etnie, di religioni, di
gruppi linguistici, facendo finta di non sapere che anche la categoria in cui
ci si vede incasellati è sicuramente vista con disprezzo da qualcun altro e che
l’unica specie a cui si deve fare riferimento è sempre soltanto quella di
un’umanità che è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità.
E, al di là dell’orrore
destato dalle immagini, di cui Susan Sontag ha scritto mirabilmente nel suo Davanti al dolore degli altri, quello che sempre
maggiormente sconvolge è vedere che non di pazzia di pochi si è trattato, ma di
freddo metodo di molti. Nel comportamento dei carnefici in divisa, insomma,
soltanto raramente si è incontrata con nettezza quella che Zvetan Todorov ha
definito la “tentazione del bene”, cioè la convinzione di essere i depositari
della verità, unita alla determinazione di volerla imporre agli altri, anche
con la forza. È apparsa molto più evidente, invece, l’annoiata assuefazione e
la deliberata e vigliacca connivenza con i pochi e ben individuati punti di
riferimento della malvagità: quella raggelante “banalità del male” chiamata in
causa da Hannah Arendt.
Altro
che – come insegnano i monoteismi – creature simili al creatore e che non
devono e non si devono uccidere. In guerra ci si dimentica che queste pedine,
oltre a essere uomini vivi, hanno anche legami con altre persone, che ogni
morte provocherà acuto dolore anche in altri in un’orrenda ramificazione della
sofferenza che quasi passa inosservata, mimetizzata com’è in un ambito – quello
della guerra – in cui sono la morte e la ricerca del guadagno personale,
pecuniario o politico, a dominare tutti gli atti e tutti i pensieri.
Pensateci. Fino al 1914 i morti civili di una guerra erano un po’ meno
del 10 per cento sul totale delle vittime. Oggi i civili uccisi sono oltre il
90 per cento del totale. E nello stesso lasso di tempo è cambiato profondamente
anche il mondo. Nel 1914 le grandi nazioni erano, per la stragrande
maggioranza, regni, o imperi, comunque non particolarmente democratici. Oggi,
invece, ci sono quasi soltanto repubbliche e sono aumentare a dismisura i
regimi democratici. Sono due cambiamenti che difficilmente possono apparire
legati tra loro, ma che invece devono far pensare perché a mettere insieme i
concetti di guerra e democrazia si crea un corto circuito in cui le
contraddizioni sono tali e tante che queste due realtà finiscono per imbarbarirsi
a vicenda, perché a prima vista potrebbe sembrare che paradossalmente sia stata
proprio la democrazia a imbarbarire la guerra, ammesso che una guerra si possa
definire “meno barbara”, solo perché in quel conflitto si ammazzano più soldati
che civili.
Mi spiego: a un dittatore, a un re, a un regime totalitario può
interessare ben poco del numero dei propri morti – almeno fino a quando la
quantità di perdite non finisce per indebolire la stessa struttura militare –
in quanto non ha alcuna necessità di farsi rieleggere e, quindi, non teme di
perdere il consenso popolare. Del tutto diversa è la situazione di presidenti
eletti: per loro le reazioni della popolazione non sono indifferenti; anzi sono
il discrimine tra una possibile rielezione e la sconfitta elettorale. A
prescindere da ogni altra considerazione sulla guerra in Iraq, un esempio
tipico è dato da George W. Bush che all’inizio parlava di una guerra a perdite
zero per l’America. Ovviamente sapeva di mentire, ma voleva far passare il messaggio
che le truppe statunitensi sarebbero state tenute il più possibile al riparo
degli scontri a fuoco. E l’unico metodo per riuscire in una simile impresa era
quello di procedere con i cosiddetti “bombardamenti chirurgici” che bombardamenti
sono, ma chirurgici certamente no e, quindi, oggi i morti civili iracheni si
contano a decine di migliaia.
Giorgio Gaber diceva: «quella cosa che ci ostiniamo a chiamare
democrazia», perché se la democrazia fosse reale, la guerra dell’Iraq
probabilmente non sarebbe scoppiata in quanto la stragrande maggioranza dei
cittadini dei paesi occidentali si era espressa contro l’intervento. Ma in una
democrazia che ormai è rappresentativa soltanto del momento del voto, le scelte
spesso vanno contro il volere popolare. Quindi diventa sempre più urgente
risolvere il problema della mutazione delle democrazie che sempre più appaiono
come vuoti simulacri orgogliosamente intoccabili nell’apparenza delle loro
liturgie fatte di voti e di campagne elettorali che assomigliano sempre più a
campagne pubblicitarie, mentre la loro sostanza appare sempre meno legata
all’etimologia della parola: potere del popolo.
E poi ci meravigliamo se
l’Europa unita continua a restare un difficile sogno, tranne che a livello finanziario
ancor prima che economico. Pensate alle discussioni nate sull’identità europea
che la Chiesa vorrebbe legare indissolubilmente al cristianesimo. Ed è ben vero
che l’anima europea è del tutto incomprensibile se non si fa riferimento al
cristianesimo, ma la sua complessità e la sua ricchezza sarebbero ben difficilmente
comprensibili anche senza la filosofia dei greci e il diritto dei romani, senza
l’arte del rinascimento, il pensiero dell’illuminismo, l’innovazione sociale
della rivoluzione francese, l’utopia marxista; purtroppo anche senza la piaga
dei nazionalismi e dei razzismi che ancora di tanto in tanto tornano
pericolosamente a galla.
Insomma, le radici cristiane
hanno pieno diritto di cittadinanza nell’anima europea, ma la loro presenza non
può essere ad escludendum, rispetto a chi cristiano non è, bensì deve
avere lo scopo di portare la propria grande ricchezza ad accumularsi con le
grandi ricchezze che portano gli altri a creare un patrimonio che può essere
preziosissimo, per profondità e moderazione, per tutto il resto del mondo.
Ecco,
parlando di nazioni, etnie, razze e religioni, io credo che se desideriamo
davvero capire cos’è successo a Srebrenica per trarne insegnamenti per il
futuro nostro e del genere umano, non possiamo prescindere dal tirare in ballo
Dio. Non sono in preda a una crisi mistica e, anzi, a questo punto ritengo
doveroso rendere palese il filtro attraverso il quale vedo e valuto le cose: io
non sono un non credente. E questa doppia negazione non vuole assolutamente
dire che sia un credente convinto. Sono uno che non sa, che al massimo vorrebbe;
uno che si sente molto vicino a François Rabelais che, sul letto di morte,
disse: «Vado a cercare un Grande Forse».
Ma,
allora, perché parlare di Dio? Perché per chi crede, ma anche per chi non
crede, a Srebrenica Dio non c’era, ma c’era sicuramente la religione, c’era
l’odio religioso ancora prima che razziale. Intendiamoci: non voglio dire che
Karazdic, Mladic e compagnia agissero nel nome di Dio, sia pure di una specie
di Moloch odioso e sanguinario. Sostengo che, come è successo e succede in
altri tempi e da altre parti, sono stati altri a credere in questa fanfaluca, a
essere senza le difese che può creare quel relativismo etico che pure è stato
avversato senza mezzi termini da
parte di Papa Benedetto XVI.
Ebbene, se il relativismo
etico è sicuramente riprovevole a livello individuale, non può essere evitabile
a livello sociale. Un relativismo che, dal punto di vista dello scorrere del
tempo, è presente anche all’interno della stessa Chiesa, com’è stato soffertamente
palesato anche da Giovanni Paolo II, quando ha chiesto perdono a nome di tutti
i cristiani che «molte volte – ha detto – cedendo alla logica della forza,
hanno violato i diritti di etnie e di popoli, disprezzando le loro culture e le
loro tradizioni religiose».
E,
se ci pensate, il relativismo all’interno di una società è addirittura
necessario, perché se scomparisse lasciando il posto esclusivamente a verità
assolute, ne deriverebbe che la democrazia, in cui ognuno vota per quello in
cui crede sia giusto, null’altro sarebbe che un terribile peccato di superbia e
si tenderebbe inevitabilmente ad andare verso un fondamentalismo. Perché chi
crede in un Dio unico in maniera integralista, oltre a guardare con sospetto
maggiore gli altri monoteisti rispetto ai praticanti di altre religioni, corre
un pericolo grandissimo in quanto inevitabilmente è indotto a pensare che il
regno del suo Dio debba essere attuato hic et nunc, qui e ora. Su questa
terra e, ovviamente, con il massimo rigore e con assoluta purezza di leggi e di
riti. Qualsiasi rinvio nel tempo, o compromesso nella sostanza, sarebbero
configurabili come un tradimento gravissimo: il più alto tradimento possibile
perché perpetrato ai danni dell’entità più alta possibile. Ebbene, nessuna idea
è stata più pericolosa; nessuna ha portato a maggiori disastri nella storia.
Ricordando
un grande del pensiero, Hans Jonas che nel suo Il concetto di Dio dopo
Auschwitz ha messo in piedi nei confronti dell’Entità suprema
una penetrante requisitoria che contemporaneamente è stata anche una sofferta
arringa difensiva, è evidente che per molti non può non essere cambiato il
concetto di Dio dopo Srebrenica. Ma intentare un procedimento contro Dio,
facendo un po’ il paio con Il processo di Shamgorod, di Elie
Wiesel, sarebbe un’assurdità perché il processo deve vedere noi sul banco degli
accusati, visto che la connivenza con i punti di riferimento della malvagità è
una storia che si è ripetuta troppo spesso. E non vale neppure dire che si è
travolti dalla storia, perché, come dice in modo poetico un cantautore intelligente
e sensibile come Francesco De Gregori, «la storia siamo noi. Attenzione.
Nessuno si senta escluso». Oppure, se vogliamo andare a cercare una citazione
più dotta e anche leggermente più approfondita e complessa, perché, come ha
scritto Albert Camus ne L’uomo in rivolta, «l’uomo non è del
tutto colpevole, poiché non ha cominciato la storia; né del tutto innocente,
perché la continua».
Srebrenica ci ricorda che non dobbiamo mai
smettere di parlare degli uomini, di ogni singolo uomo, di quegli uomini che
tutti dicono di voler mettere al centro dell’attenzione, mentre spesso sono
messi soltanto al centro di un mirino. E dobbiamo farlo ridando valore alla
memoria, inorridendo davanti al fatto che i ricordi di certi orrori siano ormai
sbiaditi visto che in molta parte d’Europa,
Italia compresa, sono tornati a galla e hanno ripreso forza idee come
xenofobia, eterofobia, razzismo; vedendo come si sia nuovamente gonfiata quella
intolleranza contro coloro che sono avvertiti come diversi per pelle, lingua,
religione, usi e costumi, addirittura abbigliamento e gastronomia; e che
giungono da noi perché a casa loro non possono più stare, per fame, pericolo di
vita, assenza di libertà.
Io credo sinceramente che dal mio cuore e
dalla mia mente non vi sia cosa più lontana del razzismo. Eppure la lettura di
certi libri e la visione di certi drammi teatrali, film e documentari mi
lasciano con il groppo in gola e mi fanno sentire ancora colpevole, colpevole
di appartenere a quello stesso genere umano da cui sono usciti coloro che sono
stati capaci di inventare i lager di Auschwitz, Dachau, Buchenwald, ma anche le
foibe, i cappucci bianchi del Ku Klux Klan e l’apartheid sudafricana, o le
vecchie e sanguinose pulizie etniche staliniste e quelle più moderne e non meno
tremende della ex Jugoslavia di cui Srebrenica è soltanto un pur terribile
esempio, o l’odio etnico strettamente intrecciato alla reciproca insofferenza
religiosa che insanguina da sempre il Medio Oriente. Mi sento colpevole di
appartenere a quello stesso genere umano che non è stato capace di estirpare da
sé il seme dell’odio razziale, nazionale e religioso e che continua a
tramandarlo, per drammatica incuria, oltre che per criminale calcolo, ai più
giovani. Colpevole, in prima persona, di aver fatto comunque troppo poco per
oppormi alla negazione dell’uomo da parte di chi si sente superuomo. Sono
fortemente convinto che non riuscirò mai a disfarmi del peso di una specie di
rimorso personale per quanto è stato fatto dall’umanità all’umanità, ma sono
anche certo che ogni mia lacrima palese, solitamente nascosta per convenzionale
pudore, sarà uno stimolo in più a ricordare e a combattere pubblicamente, e non
solo nel chiuso delle nostre coscienze, contro quel razzismo che non vuole
morire, da qualunque parte esso arrivi; sia di pelle, sia di credo, sia di convinzioni.
E sono convinto che quando nella preghiera
cristiana del Confiteor si dice «…perché ho molto peccato in
pensieri, parole, opere e omissioni», l’ordine delle parole – come tutto nella
Chiesa – non sia stato messo lì a casaccio, ma che chi lo ha scritto abbia
realizzato scientemente un ordine crescente di gravità. L’omissione, il restare
inerti, il far finta di non vedere, infatti, è probabilmente la colpa più
grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma deliberato,
perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della pigrizia sul dovere.
Perché si possono permettere futuri danni incommensurabili per piccini desideri
di tranquillità. La testimonianza esplicita,
l’esempio, il rifiuto del relativismo individuale, insomma, sono il vero,
grande obbligo morale.
Il
film di questa sera ha in sé molte parti di A come Srebrenica, il
cui titolo non può non richiamare alla memoria A come Andromeda,
famoso romanzo di plausibile fantascienza scritto da Michael Crichton, che,
dopo un crescendo di tensione, sfocia in un lieto fine, in una specie di
miracolo.
Qui siamo a pochi
chilometri da Casarsa dove Pasolini nel ’43, in piena guerra, ha scritto il suo
I Turcs tal Friul. Nel testo pasoliniano, come sempre, sono
contemporaneamente ben presenti il desiderio di una presenza di Dio e la
coscienza che lui non ci sarà, sia perché il Dio degli eserciti non può
esistere se non come sicura forma di blasfemia, sia in quanto, come dice uno
dei casarsesi, nel timore dell’incursione dei Turchi, «Tu sei troppo più in
alto della nostra pioggia, del nostro sole, dei nostri affanni». È il 30 settembre
1499 e, quando tutto sembra perduto, inattesa e improvvisa, una tempesta alza
la polvere dai campi, annulla la visibilità, i turchi cambiano strada, e tutti
inevitabilmente pensano al miracolo divino.
Ma, in realtà, il fatto che i Turchi se ne vadano è un evento
fortunato; non è un miracolo. Perché i Turchi potrebbero tornare e, infatti,
con loro se ne va il terrore che attanaglia la gente di Casarsa per i pericoli
immediati, non la continua paura legata alla loro esistenza. Il vero miracolo
sarebbe se fosse sparita anche la paura, se i Turchi fossero stati visti
finalmente simili a noi, pur se con vestiti di foggia diversa, con credenze e
abitudini spesso stridenti con le nostre. E se lo stesso fosse accaduto anche
nel campo avverso.
E, allora, anche nei nostri giorni, bisognerebbe cambiare punto di
vista perché forse la realtà è che, mentre noi attendiamo i miracoli da Dio, è
Dio che si aspetta i miracoli da noi. Se li aspetta dalla nostra piccola, e pur
spesso tanto gravosa, fatica quotidiana. Miracoli che non si estrinsechino in
un momento di abbagliante meraviglia e che poi si fermino a quel pur splendido
istante – come una fotografia che suscita emozioni, ma ingiallisce nel tempo –
ma che ci mettano anni e secoli per essere costruiti, anche con sofferenza; che
poi però continuino a esistere, sicuramente, insieme al progredire
dell’umanità.
Questa non è, né sarà una serata
allegra, perché la ferita di Srebrenica è ancora aperta. Per farla guarire non
serve dimenticare, occorre pulirla e medicarla ancora. Anche se ogni volta può
fare ancora davvero molto male.
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