mercoledì 16 luglio 2014

Souvenir Srebrenica


Da un'introduzione tenuta il 15 settembre 2006 nell'ex Chiesa di San Francesco di Pordenone, alla presenza della regista Roberta Bigiarelli


Io, qui, a undici anni di distanza da quell’orrendo mattatoio, non voglio parlarvi del massacro di Srebrenica. Di quello sapete sicuramente già molto e altre cose le apprenderete da Souvenir Srebrenica, il film di Luca Rosini e di Roberta Bigiarelli che vedrete tra un po’. In questa mia chiacchierata preferisco soffermarmi su come quel massacro ha influito – se ha influito – sulla nostra coscienza. Preferisco fare così anche perché di questo nome strano e inquietante – Srebrenica – crediamo di sapere tutto mentre in realtà non sappiamo niente, o, forse, pensiamo di non sapere niente e invece sappiamo già quasi tutto.
La quantificazione dei morti e dei cosiddetti scomparsi oscilla tra 7.800 e oltre 10 mila, ma, oltre una certa cifra, ci importa davvero di sapere esattamente quante sono le vittime? Conoscere un numero sicuro e preciso darebbe un diverso peso alla strage, al genocidio?
Non possediamo un’idea certa della causa occasionale che ha portato le truppe serbe ad attaccare con ferocia un enclave protetto. Ma non mi interessa neppure citare le ipotesi che sono state fatte perché nessuna causa – occasionale o meno – può giustificare neppure un omicidio; figuriamoci una strage, un genocidio.
Non conosciamo esattamente le cause del perché – oltre che per il timore per la propria vita – i caschi blu olandesi – teorica forza di interposizione – non abbiano nemmeno tentato di fermare gli aggressori; perché si siano lasciati mettere in disparte, mentre la responsabilità – pur pesantissima – era loro; né perché gli aerei non siano intervenuti finché non è stato troppo tardi. Ma sappiamo benissimo che l’Onu, dopo quella volta, ha perduto ogni residuo di credibilità perché è stata dimostrata la sua impotenza derivata dal fatto che è soltanto un’arena di scontri tra potenti con i loro muscolari diritti di veto.
Non sappiamo – a parte che per una dozzina di comandanti in primo piano – quanti e quali siano stati i responsabili della strage, ma sappiamo che nella quasi totalità sono ancora liberi e che molto probabilmente resteranno liberi per sempre perché, come accadde non soltanto in Sud America per i nazisti, nella loro latitanza sono celati e difesi da governi e popolazioni che evidentemente condividono le loro idee malate.
Non ci rendiamo conto di come vivranno il resto della loro esistenza i superstiti di quel genocidio, delle altre stragi balcaniche, dei campi di concentramento e di sterminio dell’ex Jugoslavia, ma siamo perfettamente consci che le loro ferite interiori andranno in eredità ai loro discendenti alimentando una spirale di odio che nessuno si sogna ancora davvero di spezzare. Lord Byron ha scritto: «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore».
Non abbiamo idea del perché tutt’a un tratto la religione, l’etnia, la razza, siano diventate tanto importanti per molte persone che negli anni prima della strage di Srebrenica sembravano cittadini tranquilli e integerrimi, ma sappiamo perfettamente che per anni la propaganda aliofoba è andata avanti senza che nessuno si opponesse e che ha perfettamente ragione Italo Svelo quando, nella Coscienza di Zeno, scrive: «Si arriva all’omicidio per odio, o per amore; alla propaganda dell’assassinio solo per malvagità». E questo dovrebbe far pensare molto anche noi, far pensare a questa nostra Italia dove sono legali e sono stati addirittura al governo partiti che hanno l’anticostituzionalità – non l’incostituzionalità, attenzione, ma l’anticostituzionalità – nel loro genoma. Dovrebbe farci domandare che Paese è quello in cui, riferendosi alla strage di Nassiriya, all’attentato contro la caserma italiana, si è continuato a parlare sempre e soltanto di 19 morti – gli italiani – e non di 30 – le vittime in totale – tra cui alcuni erano bambini? Forse che anche da noi i non italiani non hanno la stessa dignità degli italiani doc? E che Paese è quello che ha accuratamente cercato di dimenticare – e soprattutto di far dimenticare – che durante la Seconda guerra mondiale anche in Italia quelle che erano considerate persone di qualità inferiore, erano imprigionate in campi di concentramento come quelli – tanto per fermarsi alla nostra regione – di Gonars e di Varmo, dove i morti furono centinaia per fame, freddo, malattie; anche per violenze?
Per tornare a Srebrenica cominciamo con un verbo che è stato molto usato dai collegi di difesa al tribunale internazionale dell’Aia, ma la cui etimologia è un insulto all’intelligenza: il verbo è “giustiziare” che sbandiera in sé il concetto di giustizia, ma che, proprio perché pone fine a una vita, dalla giustizia nettamente si separa anche quando la condanna a morte è imposta da un tribunale regolare. E il cui contrasto diventa ancor più stridente se questo verbo è usato per non adoperare quello più vero: “assassinare”. È successo ad Auschwitz, è successo a Srebrenica. Hanno tentato di farla passare per giustizia, sia pur sommaria, ma giustizia non è, perché si basa su metodi sbrigativi, dimentichi di ogni diritto, fuori da qualsiasi procedura di legge. Quindi, se è vero, come disse François Mauriac, che nulla «v’è di più orrendo al mondo che la giustizia separata dalla carità», questo è ancora peggio perché siamo di fronte a una giustizia separata anche dalla stessa giustizia.
In questi e altri casi non si sono emessi giudizi su avvenimenti, non si è parlato di colpe individuali. Ci si è limitati a individuare la cosiddetta razza, o l’etnia, o la religione, o il gusto sessuale, o la salute mentale, o la deformità fisica. E in base a quello, soltanto a quello, si è decisa la condanna con un semplice gesto della mano, con una generalizzazione che, evitando di far conoscere, ragionare, scegliere, è il vero razzismo in quanto finisce per togliere agli “altri” il volto e la vita reale, riducendoli ad astrazioni, e finendo per ammassare tutti in grandi, ipotetiche e improbabili, categorie di popoli, di etnie, di religioni, di gruppi linguistici, facendo finta di non sapere che anche la categoria in cui ci si vede incasellati è sicuramente vista con disprezzo da qualcun altro e che l’unica specie a cui si deve fare riferimento è sempre soltanto quella di un’umanità che è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità.
E, al di là dell’orrore destato dalle immagini, di cui Susan Sontag ha scritto mirabilmente nel suo Davanti al dolore degli altri, quello che sempre maggiormente sconvolge è vedere che non di pazzia di pochi si è trattato, ma di freddo metodo di molti. Nel comportamento dei carnefici in divisa, insomma, soltanto raramente si è incontrata con nettezza quella che Zvetan Todorov ha definito la “tentazione del bene”, cioè la convinzione di essere i depositari della verità, unita alla determinazione di volerla imporre agli altri, anche con la forza. È apparsa molto più evidente, invece, l’annoiata assuefazione e la deliberata e vigliacca connivenza con i pochi e ben individuati punti di riferimento della malvagità: quella raggelante “banalità del male” chiamata in causa da Hannah Arendt.
Altro che – come insegnano i monoteismi – creature simili al creatore e che non devono e non si devono uccidere. In guerra ci si dimentica che queste pedine, oltre a essere uomini vivi, hanno anche legami con altre persone, che ogni morte provocherà acuto dolore anche in altri in un’orrenda ramificazione della sofferenza che quasi passa inosservata, mimetizzata com’è in un ambito – quello della guerra – in cui sono la morte e la ricerca del guadagno personale, pecuniario o politico, a dominare tutti gli atti e tutti i pensieri.
Pensateci. Fino al 1914 i morti civili di una guerra erano un po’ meno del 10 per cento sul totale delle vittime. Oggi i civili uccisi sono oltre il 90 per cento del totale. E nello stesso lasso di tempo è cambiato profondamente anche il mondo. Nel 1914 le grandi nazioni erano, per la stragrande maggioranza, regni, o imperi, comunque non particolarmente democratici. Oggi, invece, ci sono quasi soltanto repubbliche e sono aumentare a dismisura i regimi democratici. Sono due cambiamenti che difficilmente possono apparire legati tra loro, ma che invece devono far pensare perché a mettere insieme i concetti di guerra e democrazia si crea un corto circuito in cui le contraddizioni sono tali e tante che queste due realtà finiscono per imbarbarirsi a vicenda, perché a prima vista potrebbe sembrare che paradossalmente sia stata proprio la democrazia a imbarbarire la guerra, ammesso che una guerra si possa definire “meno barbara”, solo perché in quel conflitto si ammazzano più soldati che civili.
Mi spiego: a un dittatore, a un re, a un regime totalitario può interessare ben poco del numero dei propri morti – almeno fino a quando la quantità di perdite non finisce per indebolire la stessa struttura militare – in quanto non ha alcuna necessità di farsi rieleggere e, quindi, non teme di perdere il consenso popolare. Del tutto diversa è la situazione di presidenti eletti: per loro le reazioni della popolazione non sono indifferenti; anzi sono il discrimine tra una possibile rielezione e la sconfitta elettorale. A prescindere da ogni altra considerazione sulla guerra in Iraq, un esempio tipico è dato da George W. Bush che all’inizio parlava di una guerra a perdite zero per l’America. Ovviamente sapeva di mentire, ma voleva far passare il messaggio che le truppe statunitensi sarebbero state tenute il più possibile al riparo degli scontri a fuoco. E l’unico metodo per riuscire in una simile impresa era quello di procedere con i cosiddetti “bombardamenti chirurgici” che bombardamenti sono, ma chirurgici certamente no e, quindi, oggi i morti civili iracheni si contano a decine di migliaia.
Giorgio Gaber diceva: «quella cosa che ci ostiniamo a chiamare democrazia», perché se la democrazia fosse reale, la guerra dell’Iraq probabilmente non sarebbe scoppiata in quanto la stragrande maggioranza dei cittadini dei paesi occidentali si era espressa contro l’intervento. Ma in una democrazia che ormai è rappresentativa soltanto del momento del voto, le scelte spesso vanno contro il volere popolare. Quindi diventa sempre più urgente risolvere il problema della mutazione delle democrazie che sempre più appaiono come vuoti simulacri orgogliosamente intoccabili nell’apparenza delle loro liturgie fatte di voti e di campagne elettorali che assomigliano sempre più a campagne pubblicitarie, mentre la loro sostanza appare sempre meno legata all’etimologia della parola: potere del popolo.
E poi ci meravigliamo se l’Europa unita continua a restare un difficile sogno, tranne che a livello finanziario ancor prima che economico. Pensate alle discussioni nate sull’identità europea che la Chiesa vorrebbe legare indissolubilmente al cristianesimo. Ed è ben vero che l’anima europea è del tutto incomprensibile se non si fa riferimento al cristianesimo, ma la sua complessità e la sua ricchezza sarebbero ben difficilmente comprensibili anche senza la filosofia dei greci e il diritto dei romani, senza l’arte del rinascimento, il pensiero dell’illuminismo, l’innovazione sociale della rivoluzione francese, l’utopia marxista; purtroppo anche senza la piaga dei nazionalismi e dei razzismi che ancora di tanto in tanto tornano pericolosamente a galla.
Insomma, le radici cristiane hanno pieno diritto di cittadinanza nell’anima europea, ma la loro presenza non può essere ad escludendum, rispetto a chi cristiano non è, bensì deve avere lo scopo di portare la propria grande ricchezza ad accumularsi con le grandi ricchezze che portano gli altri a creare un patrimonio che può essere preziosissimo, per profondità e moderazione, per tutto il resto del mondo.
Ecco, parlando di nazioni, etnie, razze e religioni, io credo che se desideriamo davvero capire cos’è successo a Srebrenica per trarne insegnamenti per il futuro nostro e del genere umano, non possiamo prescindere dal tirare in ballo Dio. Non sono in preda a una crisi mistica e, anzi, a questo punto ritengo doveroso rendere palese il filtro attraverso il quale vedo e valuto le cose: io non sono un non credente. E questa doppia negazione non vuole assolutamente dire che sia un credente convinto. Sono uno che non sa, che al massimo vorrebbe; uno che si sente molto vicino a François Rabelais che, sul letto di morte, disse: «Vado a cercare un Grande Forse».
Ma, allora, perché parlare di Dio? Perché per chi crede, ma anche per chi non crede, a Srebrenica Dio non c’era, ma c’era sicuramente la religione, c’era l’odio religioso ancora prima che razziale. Intendiamoci: non voglio dire che Karazdic, Mladic e compagnia agissero nel nome di Dio, sia pure di una specie di Moloch odioso e sanguinario. Sostengo che, come è successo e succede in altri tempi e da altre parti, sono stati altri a credere in questa fanfaluca, a essere senza le difese che può creare quel relativismo etico che pure è stato avversato senza mezzi termini da parte di Papa Benedetto XVI.
Ebbene, se il relativismo etico è sicuramente riprovevole a livello individuale, non può essere evitabile a livello sociale. Un relativismo che, dal punto di vista dello scorrere del tempo, è presente anche all’interno della stessa Chiesa, com’è stato soffertamente palesato anche da Giovanni Paolo II, quando ha chiesto perdono a nome di tutti i cristiani che «molte volte – ha detto – cedendo alla logica della forza, hanno violato i diritti di etnie e di popoli, disprezzando le loro culture e le loro tradizioni religiose».
E, se ci pensate, il relativismo all’interno di una società è addirittura necessario, perché se scomparisse lasciando il posto esclusivamente a verità assolute, ne deriverebbe che la democrazia, in cui ognuno vota per quello in cui crede sia giusto, null’altro sarebbe che un terribile peccato di superbia e si tenderebbe inevitabilmente ad andare verso un fondamentalismo. Perché chi crede in un Dio unico in maniera integralista, oltre a guardare con sospetto maggiore gli altri monoteisti rispetto ai praticanti di altre religioni, corre un pericolo grandissimo in quanto inevitabilmente è indotto a pensare che il regno del suo Dio debba essere attuato hic et nunc, qui e ora. Su questa terra e, ovviamente, con il massimo rigore e con assoluta purezza di leggi e di riti. Qualsiasi rinvio nel tempo, o compromesso nella sostanza, sarebbero configurabili come un tradimento gravissimo: il più alto tradimento possibile perché perpetrato ai danni dell’entità più alta possibile. Ebbene, nessuna idea è stata più pericolosa; nessuna ha portato a maggiori disastri nella storia.
Ricordando un grande del pensiero, Hans Jonas che nel suo Il concetto di Dio dopo Auschwitz ha messo in piedi nei confronti dell’Entità suprema una penetrante requisitoria che contemporaneamente è stata anche una sofferta arringa difensiva, è evidente che per molti non può non essere cambiato il concetto di Dio dopo Srebrenica. Ma intentare un procedimento contro Dio, facendo un po’ il paio con Il processo di Shamgorod, di Elie Wiesel, sarebbe un’assurdità perché il processo deve vedere noi sul banco degli accusati, visto che la connivenza con i punti di riferimento della malvagità è una storia che si è ripetuta troppo spesso. E non vale neppure dire che si è travolti dalla storia, perché, come dice in modo poetico un cantautore intelligente e sensibile come Francesco De Gregori, «la storia siamo noi. Attenzione. Nessuno si senta escluso». Oppure, se vogliamo andare a cercare una citazione più dotta e anche leggermente più approfondita e complessa, perché, come ha scritto Albert Camus ne L’uomo in rivolta, «l’uomo non è del tutto colpevole, poiché non ha cominciato la storia; né del tutto innocente, perché la continua».
Srebrenica ci ricorda che non dobbiamo mai smettere di parlare degli uomini, di ogni singolo uomo, di quegli uomini che tutti dicono di voler mettere al centro dell’attenzione, mentre spesso sono messi soltanto al centro di un mirino. E dobbiamo farlo ridando valore alla memoria, inorridendo davanti al fatto che i ricordi di certi orrori siano ormai sbiaditi visto che in molta parte d’Europa, Italia compresa, sono tornati a galla e hanno ripreso forza idee come xenofobia, eterofobia, razzismo; vedendo come si sia nuovamente gonfiata quella intolleranza contro coloro che sono avvertiti come diversi per pelle, lingua, religione, usi e costumi, addirittura abbigliamento e gastronomia; e che giungono da noi perché a casa loro non possono più stare, per fame, pericolo di vita, assenza di libertà.
Io credo sinceramente che dal mio cuore e dalla mia mente non vi sia cosa più lontana del razzismo. Eppure la lettura di certi libri e la visione di certi drammi teatrali, film e documentari mi lasciano con il groppo in gola e mi fanno sentire ancora colpevole, colpevole di appartenere a quello stesso genere umano da cui sono usciti coloro che sono stati capaci di inventare i lager di Auschwitz, Dachau, Buchenwald, ma anche le foibe, i cappucci bianchi del Ku Klux Klan e l’apartheid sudafricana, o le vecchie e sanguinose pulizie etniche staliniste e quelle più moderne e non meno tremende della ex Jugoslavia di cui Srebrenica è soltanto un pur terribile esempio, o l’odio etnico strettamente intrecciato alla reciproca insofferenza religiosa che insanguina da sempre il Medio Oriente. Mi sento colpevole di appartenere a quello stesso genere umano che non è stato capace di estirpare da sé il seme dell’odio razziale, nazionale e religioso e che continua a tramandarlo, per drammatica incuria, oltre che per criminale calcolo, ai più giovani. Colpevole, in prima persona, di aver fatto comunque troppo poco per oppormi alla negazione dell’uomo da parte di chi si sente superuomo. Sono fortemente convinto che non riuscirò mai a disfarmi del peso di una specie di rimorso personale per quanto è stato fatto dall’umanità all’umanità, ma sono anche certo che ogni mia lacrima palese, solitamente nascosta per convenzionale pudore, sarà uno stimolo in più a ricordare e a combattere pubblicamente, e non solo nel chiuso delle nostre coscienze, contro quel razzismo che non vuole morire, da qualunque parte esso arrivi; sia di pelle, sia di credo, sia di convinzioni.
E sono convinto che quando nella preghiera cristiana del Confiteor si dice «…perché ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni», l’ordine delle parole – come tutto nella Chiesa – non sia stato messo lì a casaccio, ma che chi lo ha scritto abbia realizzato scientemente un ordine crescente di gravità. L’omissione, il restare inerti, il far finta di non vedere, infatti, è probabilmente la colpa più grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma deliberato, perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della pigrizia sul dovere. Perché si possono permettere futuri danni incommensurabili per piccini desideri di tranquillità. La testimonianza esplicita, l’esempio, il rifiuto del relativismo individuale, insomma, sono il vero, grande obbligo morale.
Il film di questa sera ha in sé molte parti di A come Srebrenica, il cui titolo non può non richiamare alla memoria A come Andromeda, famoso romanzo di plausibile fantascienza scritto da Michael Crichton, che, dopo un crescendo di tensione, sfocia in un lieto fine, in una specie di miracolo.
Qui siamo a pochi chilometri da Casarsa dove Pasolini nel ’43, in piena guerra, ha scritto il suo I Turcs tal Friul. Nel testo pasoliniano, come sempre, sono contemporaneamente ben presenti il desiderio di una presenza di Dio e la coscienza che lui non ci sarà, sia perché il Dio degli eserciti non può esistere se non come sicura forma di blasfemia, sia in quanto, come dice uno dei casarsesi, nel timore dell’incursione dei Turchi, «Tu sei troppo più in alto della nostra pioggia, del nostro sole, dei nostri affanni». È il 30 settembre 1499 e, quando tutto sembra perduto, inattesa e improvvisa, una tempesta alza la polvere dai campi, annulla la visibilità, i turchi cambiano strada, e tutti inevitabilmente pensano al miracolo divino.
Ma, in realtà, il fatto che i Turchi se ne vadano è un evento fortunato; non è un miracolo. Perché i Turchi potrebbero tornare e, infatti, con loro se ne va il terrore che attanaglia la gente di Casarsa per i pericoli immediati, non la continua paura legata alla loro esistenza. Il vero miracolo sarebbe se fosse sparita anche la paura, se i Turchi fossero stati visti finalmente simili a noi, pur se con vestiti di foggia diversa, con credenze e abitudini spesso stridenti con le nostre. E se lo stesso fosse accaduto anche nel campo avverso.
E, allora, anche nei nostri giorni, bisognerebbe cambiare punto di vista perché forse la realtà è che, mentre noi attendiamo i miracoli da Dio, è Dio che si aspetta i miracoli da noi. Se li aspetta dalla nostra piccola, e pur spesso tanto gravosa, fatica quotidiana. Miracoli che non si estrinsechino in un momento di abbagliante meraviglia e che poi si fermino a quel pur splendido istante – come una fotografia che suscita emozioni, ma ingiallisce nel tempo – ma che ci mettano anni e secoli per essere costruiti, anche con sofferenza; che poi però continuino a esistere, sicuramente, insieme al progredire dell’umanità.
Questa non è, né sarà una serata allegra, perché la ferita di Srebrenica è ancora aperta. Per farla guarire non serve dimenticare, occorre pulirla e medicarla ancora. Anche se ogni volta può fare ancora davvero molto male.

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